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Mese: Gennaio 2019

Nessuno lo deve sapere: il nuovo disco di Brenneke svela cosa è scritto nelle stelle

Questo 2019 è iniziato all’insegna di uscite musicali. Quello che non è ancora stato svelato al pubblico è Nessuno lo deve sapere, terzo album (in uscita per VetroDischi il 1 febbraio) di Brenneke, al secolo Edoardo Frasso, classe 1989.

L’ho ascoltato in anteprima per  Futura 1993,  e posso rivelarvi quello che ci aspetterà.  La prima cosa da sapere è che quello che Brenneke tesse, all’interno delle dieci tracce del disco ( in cui compaiono anche Compleanno e Lasciarsi alle spalle, i primi due singoli usciti) è un viaggio fisico e spirituale in un’altra dimensione, estremamente reale e allo stesso tempo lontana, un po’ come lo spazio.

Ecco, in questo viaggio spaziale siamo accompagnati da Edoardo stesso, che si racconta attraverso amori finiti, amori in corso, tracce di vita vissuta ma soprattutto vivibile. La prima cosa che viene in mente ascoltando i suoi brani è che questi formino una sorta di mappa che ci fa percorrere in tutti i luoghi, reali e metaforici, che costellano l’album.

Senza accorgercene ci siamo persi in un’isola irlandese e troviamo rifugio in pezzi di un’altra persona, catapultati nello spazio, in mezzo a Satelliti e segreti.

La cosa che più colpisce dell’album è che diventa bello al secondo ascolto, quando l’orecchio si è già abituato ai suoni felici, quando non si fa più caso ai ritmi pop e ci si concentra sui testi, perché in quel momento le immagini di Brenneke diventano nostre, le sue parole descrivono il nostro vissuto.

È quello il momento in cui Nessuno lo deve sapere diventa uno dei prodotti più limpidi che mi sia capitato di ascoltare in questi anni. Dopo aver ascoltato l’album ho deciso di portare Brenneke all’Osservatorio Civico di Milano, perché mi sembrava potesse essere la location giusta per fargli qualche domanda per aiutarci ad orientarci meglio in questo viaggio.

 

La prima domanda che ti faccio è abbastanza canonica, raccontaci il tuo progetto, descrivendolo con tre aggettivi. 

Il mio progetto è Indipendente nel senso che io ho un bisogno stratosferico della mia indipendenza, intesa come la necessità di essere lascito un po’ da solo. Ho anche attraversato periodi con le band, ma alla fine ho bisogno di stare da solo.

È indipendente ma non è indie, è una parola che non mi piace perché è diventata sinonimo di moda, che non è necessariamente negativo, ma l’indie  storicamente è la controcultura, non ha a che fare nulla con la moda. Mentre venivo qui  in macchina ho sentito il vecchio disco di Giovanni Truppi e ho pensato che quello era vero Indie, e che in questo caso la parola ha un’aggettivazione culturale impressionante.

In quel disco c’è il jazz, c’è il rap, c’è Rino Gaetano ed è frutto di una mente artistica che sapeva perfettamente quello che voleva e che era politicamente connotata. Secondo me oggi manca un po’ questa accezione nell’indie.

Il secondo aggettivo è pop, ma quando ti dico pop io penso ai R.E.M., un pop che se ne frega. Poi ti direi provocatoriamente contemporanea, ma non tanto per una questione di sound, quanto per il fatto che per quel che mi riguarda non avrei potuto scrivere dieci anni fa quello che ho scritto oggi. Ne viene da sè che lo stesso album scritto oggi non penso possa parlare della realtà tra dieci anni.

Mi inorgoglisce molto l’idea di aver fotografato qualcosa che è adesso e basta. Per ultimo ti direi vivo nel senso che si evolve, che è una cosa che io ho sempre percepito nella sfera live. E’ un annetto che non mi esibisco live, ne ho fatto solo qualcuno acustico, ma tra pochissimo c’è il mio nuovo debutto. Però nel 2016/17 ho fatto decine di live e una cosa che ho sempre molto apprezzato, che veniva fuori sia con la band dell’epoca che con quella di adesso, era che i pezzi evolvevano. E mi piace avere questo approccio vivo.

 

Ecco, avendo ascoltato l’album, secondo me il tuo è un album da cantare. Nel senso che il modo stesso in cui tu lo canti porta le persone a cantarlo con te, quindi ti volevo chiedere, quale sarà l’approccio al live? 

Sarà, appunto, un live molto vivo. Il principale strumento delle mie canzoni, so che sembra banale ma non è così, è la voce. Non per tutti è così, io amo utilizzare la voce come la potrebbe usare un Dylan o un De Gregori. Quando uno ascolta un disco con me che sillabo le parole in un determinato modo, non deve necessariamente aspettarsi che ad un live io le faccia esattamente così.

 

Il tuo album è stato una sorpresa, non lo immaginavo così. Avevo ascoltato Compleanno e me lo immaginavo forse un po’ meno ritmato. Partendo dalla prima traccia fino all’ultima c’è quasi una crescita vocale. È qualcosa di voluto o è casuale? 

Allora è un disco abbastanza up-tempo e ora che mi fai pensare, effettivamente è vero quello che dici, c’è un crescendo vocale! In realtà non è stato voluto, ma mi piace molto.

 

Ti ho portato qui all’osservatorio perché voglio anche parlarti di spazio. Se il pianeta Venere significasse amore e Marte separazione, in quali brani troveremmo questi due pianeti? 

La cosa bella è che quasi tutte le canzoni li comprendono entrambi. Penso che così, su due piedi, quella che rappresenta meglio entrambe le anime è  Lasciarsi alle spalle,  perché ha in sé una doppia lettura. Lasciarsi alle spalle vuol dire sia smettere di amarsi in segreto l’uno dall’altra, metti caso due persone che convivono e che piano piano fanno affievolire i loro sentimenti, sanno che non amano più l’altra persona; quindi in un certo senso si stanno lasciando alle spalle l’uno dall’altra. Ma vuol dire anche dirsi addio, in senso positivo.

 

Sai io ti devo ringraziare, perché in questo album spesso e volentieri mi sono ritrovata! Una canzone che ho amato è Certi animali in cui secondo me si ritrovano molti luoghi, sia reali che metaforici. Molto romantica e forse molto triste. 

Sai, alcune canzoni di questo album sono state scritte tempo fa, quindi magari ci sono dei collegamenti a persone che hanno fatto parte del mio passato e che ora non sono più nella mia vita. È difficile da spiegare, ma a volte scrivere una canzone d’amore non significa amare ancora qualcuno, cantarla non significa riprovare le stesse cose. Una volta che una canzone viene scritta ed è davanti a me, per me diventa una sorta di esercizio di sillabazione ed è come recitare, è come un copione, un mantra e la sacralità della canzone è insita in questa cosa. Poi io in realtà amo questa cosa dei luoghi, cerco una certa geografia tra immaginario e reale.

 

Un’altra cosa che mi ha molto colpita del tuo album è il titolo, Nessuno lo deve sapere. Però poi è un album, quindi lo sanno tutti. Era questo che volevi? Lasciarci in un ossimoro? 

Sì, assolutamente sì. Poi, oltre ad essere il nome di una traccia (una delle canzoni più vecchie che ho scritto), Nessuno lo deve sapere racchiude un po’ il senso del mio modo di portare le cose sul foglio, da un punto di vista testuale molto più che musicale. E in fondo, anche qui c’è un ossimoro ( nel rapporto musica-testo) perché testi molto intimi sono accompagnati da suoni molto forti! Fatto sta che, che cosa non si deve sapere? Quelle cose che potremmo definire i sentimenti profondi, come la delicatezza che c’è nell’amore, come una conversazione tra amici. A me piace l’idea che le persone che mi sentono cantare abbiano la sensazione che sia un loro amico a raccontargli una storia.

 

È un album in cui ci si immedesima solo dopo qualche ascolto, è un album su cui si riflette! Era quello che volevi? 

Non so se è quello che volevo dato  mio modo di scrivere canzoni, ma è quello che mi viene detto da diversi anni. Anche con il mio disco precedente (Vademecum del perfetto me) e con il mio ep, a me la gente diceva “ le tue canzoni mi arrivano dopo” e io mi arrabbiavo, non capivo, volevo scrivere delle canzoni pop. Poi ho capito che è molto meglio questa cosa, ho capito che era quasi un regalo.

Facciamo una domanda più divertente. Fingiamo tu debba fare un concerto su Marte e puoi chiamare chiunque vuoi, presente o passato,  a cantare e suonare con te, chi chiami? 

Quindi io sono l’organizzatore di un concerto su Marte, allora, chiamo gli  U2 di Achtung Baby, gli Why? che sono una band che amo alla follia e vengono davvero dallo spazio, e poi chiamo i The Cure. E poi di italiano contemporaneo metterei  I Cani (di Aurora), poi porterei  La Rappresentate di Lista, Caso e poi Truppi.

 

Ultima domanda, c’è una domanda che nessuno ti fa?

Nessuno mi chiede mai nulla dal punto di vista tecnico sulla chitarra, io sono un chitarrista. Il fatto che io sia chitarrista influenza il 90% del mio far musica! L’altro 10% è influenzato dall’attrazione per quei cantautori che sembrano sempre stiano nell’etere, e le loro canzoni parlano di te ma tu non sai come. Io sono sempre stato attratto da questa superiorità, ho una vena verso l’umanesimo. Sono attratto dalla cultura ecco. La grandezza degli altri mi ispira tantissimo!

 

Mariarita Colicchio

 

Futura 1993 è il network promozionale itinerante creato da Giorgia Salerno e Francesca Zammillo che attraversa l’Italia per raccontarti la musica come nessun altro, con un programma radio e tante diverse testate partner. Segui Giorgia e Francesca su Instagram, Facebook e sulle frequenze di RadioCittà Fujiko, in onda martedì e giovedì dalle 16:30.

Architects @ Alcatraz

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• Architects •

+ Beartooth | Polaris

 

Alcatraz (Milano) // 30 Gennaio 2019

 

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Dopo vari soldout in giro per il mondo, gli Architects sono tornati nel nostro paese a distanza di due anni dagli ultimi show italiani per un’unica data il 30 gennaio 2019 all’Alcatraz di Milano!
Negli ultimi anni la band capitanata da Sam Carter ha continuato ad infiammare i palchi di tutto il mondo con apparizioni nei più prestigiosi festival mondiali, suonando il più grande show della loro carriera all’Alexandra Palace di Londra, ed è stata protagonista di varie copertine di famosi giornali come Rocksound e Kerrang.
Nonostante la scomparsa del chitarrista Tom Searle, non hanno smesso di scrivere musica, e sono pronti per continuare a renderlo orgoglioso conquistando il cuore di migliaia di fans!
La band è stata accompagnata da due special guest di eccezione: i Beartooth, la band di Caleb Shomo, che il 28 settembre dello scorso anno ha rilasciato il suo terzo album Disease, e la band australiana Polaris.

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Grazie a Hellfire Booking Agency[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Foto: Elisa Hassert

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Beartooth

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Polaris

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Anna Von Hausswolff @ Atlas

Aarhus, January 25, 2019

It is a cold night in Aarhus, freezing temperature and the promise of a snowfall. It is the first time I go and attend a concert at Atlas, a warm and intimate venue with red walls and a cozy low stage.

There are about a hundred people scattered around, some seating on the steps on both sides of the room, some enjoying a beer in the candle light in front of the stage.

The stage is pretty essential, with guitars, a drum set and mike stands waiting for the opening band — Of the wand & the Moon — to step on it and entertain the crowd with their pleasant-to-the-ears neofolk music.

After just a thirty minutes set, the stage is emptied and as the noise of stormy winds fills the speakers, people fill the space in front of the stage while we all wait for the main artist of the evening, the Swedish musician Anna von Hausswolff.

Anna von Hausswolff is a blond pixie with the fierceness of a Viking goddess: she can caress your ears with the softest of the melodies and the moment after she’s orchestrating a raging wall of sound with her keyboard and synths worth of the most brutal death metal bands.

Despite the setlist she plays is only seven songs long, including the encore, she drags her audience into this distorted temporal dimension where music, melodies, noises and sounds all clash together creating beauty.

After the powerful opening sequence with The truth, the glow, the fall, Pomperipossa and Ugly and Vegenful, Anna steps in front of her keyboard and with just voice and a harmonica, she gets hold of the whole crowd with Källans återuppståndelse.

The lights are blue, the moment so magic, her voice so magnetic and mesmerising: you could feel she had complete control of the audience, her charisma filling the whole room.

And then it arrived, the song that I was waiting for: The mysterious vanishing of Electra with its gloomy atmosphere, the oppressive, ossessive guitar riffs that suffocates the listener in a crescendo of agony until the moment when you cannot bear it any longer.

Silence.

And then the fury arrives and liberates all our interior demons like a storm. I am not ashamed to admit I had shivers down my spine.

The set concluded with Come wander with me/Deliverance and Gösta performed among the crowd. The curtain fell on the stage and it was time to step outside into the magic light of a snow covered city.

Photo courtesy of Steffen Jørgensen

ita

Flogging Molly @ Estragon

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• Flogging Molly •

Estragon Club (Bologna) // 28 gennaio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

E’ con un grandissimo soldout che l’unica data italiana, per questo tour dei Floggin Molly, approda all’Estragon di Bologna.

I Flogging Molly, capitanti dal carismatico Dave King, salgono sul palco dopo il live dei Buster Shuffle, scaricando la loro energia di celtic folk/punk un pezzo dopo l’altro.

Trascinati dal motore battente di Mike Alonso la grande famiglia italiana dell’irish folk accoglie i Losangelini con entusiasmo in una “bolgia infernale” e sottopalco il pogo non ha mai fine.

Siamo solo al terzo pezzo e parte Drunken Lullabies, sto ancora fotografando sottopalco, e subito verrebbe la voglia di lanciare tutta l’attrezzatura in aria e buttarmi nel pogo! La spensieratezza e la fratellanza tipica dell’irish folk emerge subito, e in un attimo ti ritrovi a ballare abbracciato con qualcuno che neanche conosci, sono solo sorrisi e pogate senza fine.

Chiaramente non possono mancare i grandi successi come Drunken Lullabies o Salty Dog o Float.

Quasi due ore di live volano e ci ritroviamo già in macchina per venire a casa, esausti e contenti, come dopo ogni buon concerto che si rispetti, e una cosa è certa, i Flogging Molly sono il classico gruppo – come nelle migliori tradizioni irish – da vedere live, perché l’energia che trasmettono è contagiosa, nessuno si è tirato indietro dal ballare!

“Cause we find ouverselves in the same old mess

singin’ drunken lullabies”

 

Setlist:

(No More) Paddy’s Lament

The Hand of John L. Sullivan

Drunken Lullabies

The Likes of You Again

Swagger

The Days We’ve Yet to Meet

Requiem for a Dying Song

Life in a Tenement Square

Float

The Spoken Wheel / Black Friday Rule

Life Is Good

Rebels of the Sacred Heart

Devil’s Dance Floor

Crushed (Hostile Nations)

What’s Left of the Flag

The Seven Deadly Sins

 

Grazie ad Hub Music Factory

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo e Foto: Michele Morri

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Neck Deep @ Zona_Roveri

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• Neck Deep •

+ Dream State | Parting Gift

 

Zona Roveri Music Factory (Bologna) // 26 Gennaio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Credo che un vero orecchio critico debba sapere quando cade in fallo, quando con presunzione e forse con un po’ troppa superficialità affronta una circostanza musicale che non crede adeguata ai suoi standard.

È quello che mi è successo in quel di Bologna, più precisamente Zona Roveri, sabato 26 gennaio, per il concerto dei Neck Deep.

Essendo figlio del punk rock californiano di prima “battitura” tendo ad essere diffidente verso le nuove leve, soprattutto quelle del Pop-Punk. Oberato dall’emulazione esasperata dei Blink 182 lungo il corso degli anni, la fiamma conoscitiva e curiosa si è gradualmente affievolita, lasciando spazio ad una sorta di glaciale indifferenza verso la categoria.

Fuoco ravvivato dall’inclinazione musicale della mia compagna che ha deciso (con pieno merito) di portarmi a vedere la band Gallese. Zona Roveri è più gremita di quel che credevo, il pogo e la partecipazione scivolano costanti e dettati da grande intensità.

Le sonorità che popolano le mura del locale riecheggiano molto bene, in maniera compatta, quadrata, energica e coinvolgente.

Il morbido e il duro viaggiano su di un binario equilibrato e uniforme, la vena romantica delle tematiche si mescola alle distorsioni, la batteria detta la strada come un faro luminoso che giostra i salti e cori del pubblico che, per usare un’espressione calcistica sono il dodicesimo uomo in campo.

Un muro di suoni ben indirizzato che fa perdere di vista un dettaglio non di poco conto, ai giovani gallesi manca il basso tra le loro file. La formazione ordinaria attuale non lo prevede.

Il vecchio bassista ha terminato la sua esperienza del 2018 ma sembra che la scelta azzardata del quartetto possa apparire convincente, anche se non nego di avere molta curiosità nel sentire uno show dei Neck Deep con un basso e una voce di coro supplementare.

A questo punto arriviamo a Ben Barlow, alla sua voce e alla sua presenza. Partendo dal presupposto che sono ragazzi giovani e che l’attitudine in questo settore o ce l’hai o non puoi inventartela. Il ragazzo mescola un cocktail di genuina cattiveria, rabbia mai invasiva e sorrisi consacranti da vero Frontman buono.

Un piccolo leader dalle notevolissime capacità vocali, dallo spirito trascinante di chi sul palco sembra ci sia nato. Non nego l’amore verso personaggi cosi diretti, cosi alla ricerca del contatto col pubblico, che dimostrano che stare sul palco è una scelta dettata da un’esigenza innata di vivere e vedere perché no, a dispetto della massa, il bicchiere mezzo pieno.

L’espressività travolgente e sincera ha creato una sorta di filo conduttore familiare che ha abbattuto letteralmente il muro di scetticismo che mi avvolgeva.

Band promossa, band da seguire soprattutto in campo internazionale, band che fa ancor più rumore perché il Galles non è prettamente un’officina di situazioni musicali pop-punk, ma questi hanno le carte e lo spirito per scrivere pagine importanti per la scena.

La ricerca di una consacrazione tramite tecnicismi, virtuosismi e complesse situazioni musicali è un cliché che i Neck Deep smembrano perfettamente, dando adito al fatto che le cose semplici, d’impatto e ben suonate restano sempre le migliori, quelle che alla gente restano veramente.

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SETLIST:

MOTION SICKNESS

GOLD STEPS

LIME ST

——

SMOOTH SEAS

PARACHUTE

——-

TORN

JUDGEMENT DAY

KALI MA

——-

SERPENTS

WHAT DID YOU EXPECT?

——-

CITIZENS

DON’T WAIT

——-

DECEMBER

1970 SOMETHIN

IN BLOOM

——-

ROOTS

WHERE DO WE GO WHEN WE GO

 

 

Grazie a Hellfire Booking Agency[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Testo: Vasco Bartowsky Abbondanza

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Dream State

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Parting Gift

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Basement @ Locomotiv_Club

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• Basement •

+ Culture Abuse | Muncie Girls

 

Locomotiv Club (Bologna) // 25 Gennaio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Gli Inglesi Basement, in questo Venerdì di fine Gennaio riscaldano con il loro Rock il pubblico del Locomotiv Club di Bologna e ci presentano Beside Myself, il loro ultimo album uscito nel 2018 per l’etichetta Fueled By Ramen.

In supporto Muncie Girls e Culture Abuse.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

SETLIST:

Disconnect

Nothing Left

Aquasun

Whole

Be Here Now

Brother’s Keeper

For You the Moon

Reason for Breathing

Pine

Spoiled

Stigmata

Covet

Promise Everything

 

Grazie a Hellfire e ERocks Production[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1503314301745{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 11px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”10778,10782,10774,10783,10775,10769,10772,10789,10781,10777,10771,10787,10773,10776,10780,10784,10785,10786,10779,10770,10788″][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1548005329787{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

Culture Abuse

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Muncie Girls

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Anna Von Hausswolff @ Atlas

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• Anna Von Hausswolff •

 

Atlas (Aarhus) // 25 gennaio 2019

 

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È una notte fredda ad Aarhus, temperature sotto zero e aria da neve. È la prima volta che vado a vedere un concerto all’Atlas, un locale caldo e intimo con muri rossi e palco basso.

Ci sono un centinaio di persone sparse nel locale, chi seduto sulle gradinate ai lati della sala, chi si sta godendo una birra al lume delle candele sui barili-tavolini di fronte al palco.

L’allestimento del palco è essenziale, con chitarre, una batteria e aste per i microfoni che attendono che arrivi il gruppo di apertura — Of the wand & the Moon — per intrattenere il pubblico con il loro godibilissimo neofolk.

Dopo appena mezz’ora di set, il palco viene svuotato mentre il rumore di venti tempestosi si diffonde dalle casse; la gente vince la timidezza e va a riempire lo spazio di fronte al palco mentre tutti aspettiamo l’artista principale della serata, la musicista svedese Anna von Hausswolff.

Anna von Hausswolff è un folletto biondo con la fierezza di una divinità vichinga: può accarezzare le tue orecchie con la più delicata delle melodie e un secondo dopo orchestrare un feroce muro di suono con la sua tastiera e i suoi synth degno dei più brutali gruppi death metal.

Nonostante la scaletta sia di soli sette brani, encore incluso, trascina il suo pubblico in una dimensione temporale distorta, dove musica, melodie, rumori e suoni si fondono insieme per creare bellezza.

Dopo la potenza della sequenza iniziale con The truth, the glow, the fall, Pomperipossa e Ugly and Vegenful, Anna si sposta davanti alla sua torre di tastiere e con solo voce e armonica, tiene in pugno l’intero pubblico con Källans återuppståndelse.

L’atmosfera è blu, il momento magico, la sua voce così magnetica e ammaliante: si percepisce che ha il completo controllo degli astanti, il suo carisma riempie l’intera sala.

Ed ecco che in quel momento arriva, la canzone che stavo aspettando: The mysterious vanishing of Electra con le sue atmosfere cupe, i riff di chitarra opprimenti, ossessivi che soffocano l’ascoltatore in un crescendo di agonia fino al momento in cui non riesci più quasi a respirare.

Silenzio.

Ed è lì che arriva la furia che libera i nostri demoni interiori come una tempesta. Non mi vergogno di ammettere che avevo i brividi lungo la schiena.

Il concerto si conclude con Come wander with me/Deliverance e Gösta cantata tra il pubblico.

Il sipario cala sul palco ed è ora di uscire nella luce magica data dalla città coperta da una coltre bianca.

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Testo: Francesca Garattoni
Foto: Steffen Joergensen

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en

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L’arte “perfettamente inutile” dei Pixel, la band spezzina tra Indie Rock e New Wave

Si chiamano Pixel, ma se pensate all’informatica siete completamente fuori strada.

Il gruppo spezzino tra Indie Rock e New Wave, per autodefinirsi, infatti, ha preso in prestito una canzone dei Verdena, ma con l’aggiunta dell’articolo.

Nati nel 2013, lo scorso 2018 hanno lanciato il loro primo LP intitolato “Perfettamente Inutile”. Un titolo – si potrebbe pensare – che si presta a giochi di parole e possibili strategie marketing, ma che invece – molto semplicemente – punta il dito al romanzo Il ritratto di Dorian Gray e la sua definizione di arte.

Ogni artista – dicono – quando crea, deve farlo in modo perfetto, al meglio delle sue possibilità; ma al tempo stesso deve rendersi conto che tutto quello che sta facendo potrebbe essere, per certi versi, inutile: se a quel punto vuole comunque continuare a creare, per il puro gusto di farlo e per esprimere veramente se stesso, allora sta creando arte”.

Una definizione che i ragazzi, fin da subito, si sono sentiti tatuati addosso come una seconda pelle e che hanno deciso di traslare sul loro modo di concepire e fare musica.

E che dire sul loro repertorio? Un vasto background che fa capo a diversi generi a cui la band fa inevitabilmente riferimento. Gusti personali, spunti, nuove tendenze e reminiscenze del passato: I Pixel sono curiosi, amano ficcare il naso ovunque e prendere ispirazione da elementi differenti.

Ma poi, quando arriva il momento di creare, fanno sul serio.

Da quei suggerimenti che la musica riesce a dare – in tutte le sue forme, dimensioni e generi – la band riesce sempre a trarre le sfumature necessarie a rendere la propria musica ricca e maledettamente attraente, pur mantenendo il proprio stile.

Conosciamoli un po’ meglio.

 

 Ciao Pixel! Chi siete? Raccontateci un po’ di voi!

Ciao Vez! Come data di formazione del gruppo ci riferiamo sempre al giorno in cui si sono svolte le prime prove con la nostra formazione iniziale, ovvero il 6 dicembre 2013. Andrea e Alex sono i componenti da cui è nata l’idea di creare questo progetto. Nicola è entrato a far parte della band in un secondo momento: ci aveva sentiti al concerto di presentazione di Niente e Subito ed era venuto a dirci che gli sarebbe piaciuto suonare con noi, quando poi c’è stata la necessità di trovare un nuovo bassista, abbiamo saputo subito a chi chiedere! Marco suona con noi dal 2017, da dopo le registrazioni di Perfettamente Inutile. Lo abbiamo contattato su consiglio del suo insegnante, alla prima prova sapeva già suonare alcune nostre canzoni alla perfezione e ci ha subito gasati.

Come luogo che ha avuto un’importanza fondamentale per noi, ti diciamo la cameretta di Alex, dove Andrea ha suonato per la prima volta una chitarra elettrica. Da lì è nata questa passione, iniziata col riff di Where Is My Mind dei Pixies suonato all’infinito nella sala musicale del nostro liceo, insieme ad altri ragazzi. Epica la frase “Brise, smettila con quella sirena dell’ambulanza!” urlata dal metallaro di turno.

 

Perché “I Pixel”? Siete un po’ nerd dentro? Da cosa nasce questo nome?

No, no, il nome non ha niente a che fare con l’informatica! Durante i primi tempi di attività del gruppo abbiamo proposto diversi nomi prima di arrivare a quello definitivo. Per un certo periodo eravamo propensi per “Astoria”, da un famoso teatro londinese (ora demolito) che avevamo conosciuto tramite il video di un concerto degli Arctic Monkeys, mentre il nostro primo concerto lo abbiamo fatto suonando con un nome proposto dal nostro bassista iniziale 5 minuti prima di salire sul palco: Eleanor, per la canzone dei Beatles, Eleanor Rigby… Ricordo che lo avevamo annunciato sul palco senza troppo entusiasmo. Il nome definitivo è poi arrivato su proposta del primo batterista e deriva da una canzone dei Verdena. Ci piace semplicemente come suona e il connubio che forma con l’articolo rispetta perfettamente il fatto che abbiamo sonorità internazionali, ma cantiamo in Italiano.

 

Parlatemi del vostro genere: a chi vi ispirate e come nasce la vostra musica?

Ognuno di noi ascolta generi più o meno disparati, ma nel momento in cui componiamo le canzoni che costituiscono il nostro repertorio cerchiamo di mettere d’accordo le nostre influenze, di farle sfociare in quello che poi è diventato il nostro sound, che credo sia piuttosto riconoscibile.

Alex è più indirizzato sull’Indie, ma in quanto pianista ascolta spesso anche musica classica; Marco è più improntato sul Punk e sul Britpop, mentre Nicola ascolta davvero un po’ di tutto: gli piacciono molto gruppi tecnici come i Tool, influenza riscontrabile nei suoi giri di basso. La nostra musica rispecchia soprattutto i gusti musicali di Andrea, in quanto è lui a elaborare e strutturare le idee che ogni componente porta in sala prove. I suoi ascolti spaziano molto tra l’Indie Rock, la New Wave e diversi artisti italiani. Ascolta davvero un po’ di tutto, l’importante è che ci siano bei testi e intrecci strumentali che ti smuovano qualcosa dentro. Il nostro ultimo pezzo, per esempio, è stato influenzato dai Blur, quello prima ancora da un brano dei Wire, ma non è detto che queste influenze siano riconoscibili quando ascolti le canzoni in questione (che saranno nel prossimo album).

 

Nel 2016 avete realizzato il vostro secondo EP con il quale avete intrapreso il vostro primo tour: che esperienza è stata e quali difficoltà avete incontrato? Avete qualche aneddoto simpatico da raccontarci?

Mondo Vuoto è il disco che ci ha permesso finalmente di uscire a suonare anche fuori dalla nostra Liguria. Lo abbiamo portato in diverse regioni e locali, tra cui l’Hard Rock di Firenze e il Samo di Torino, ed è stato bello vedere per la prima volta la reazione di gente con cui non hai mai parlato in vita tua che ballava e si muoveva sulla nostra musica. Ti fa capire che magari i tuoi amici che ti dicono “Questo pezzo ci sta” forse non lo fanno solo per metterti a tuo agio. Aneddoti simpatici? Così su due piedi, ti diremmo una cena offerta da un locale in cui siamo stati a suonare, di cui non faremo il nome, a base di patate lesse e fagioli. Tre di noi praticamente quella sera non hanno cenato, mentre Alex continua tuttora a dire che è stata una delle cene più buone che aveva fatto in quel periodo. Da lì in poi, ci siamo sempre fatti delle domande sulle papille gustative di Alex.

 

Il 5 marzo scorso è uscito il vostro primo LP “Perfettamente Inutile” per La Clinica Dischi: raccontateci qualcosa di questo disco.

Se pensiamo alla genesi di Perfettamente Inutile, ci viene in mente prima di tutto un periodo molto prolifico. L’EP precedente era uscito a dicembre 2016 e l’estate dopo eravamo già in studio a registrare le 9 canzoni che poi sono andate a far parte del nuovo disco. Andrea allora studiava ancora a Firenze, e ogni settimana entrava in sala prove con un’idea su cui poi lavoravamo tutti insieme, eravamo particolarmente ispirati anche se, pensandoci, anche ora siamo in un bel periodo da questo punto di vista. L’idea e il concept del disco sono totalmente racchiusi nel titolo: dopo aver letto Il ritratto di Dorian Gray, Andrea è rimasto colpito dalla frase contenuta nella prefazione “Tutta l’arte è perfettamente inutile” o qualcosa del genere, e ha deciso di usare questa parte come titolo dell’album collegandola al modo in cui noi Pixel concepiamo la musica. Ogni artista, quando crea, deve farlo in modo perfetto, al meglio delle sue possibilità; ma al tempo stesso deve rendersi conto che tutto quello che sta facendo potrebbe essere, per certi versi, inutile: se a quel punto vuole comunque continuare a creare, per il puro gusto di farlo e per esprimere veramente se stesso, allora sta creando arte.

 

Quanto della vostra terra c’è nella vostra musica?

Tutti e quattro viviamo e siamo nati in provincia di Spezia (tranne Nicola, che è nato in Emilia-Romagna) e siamo tutti molto legati alla nostra terra. Andrea e Nicola abitano a Santo Stefano di Magra, un piccolo paese di provincia dove abbiamo anche la sala prove, Alex abita proprio in città mentre Marco vive nelle Cinque Terre, a Riomaggiore. L’unico che non vive fisso qui è Andrea, che ha studiato prima a Firenze e ora a Milano, ma torna ogni fine settimana nella madre patria. Tuttavia, nella nostra musica non ci sono riferimenti espliciti a Spezia o alla Liguria in generale, ma sicuramente il posto in cui vivi influenza, in modo o diretto o indiretto, il tuo pensiero e quindi le cose che scrivi quando componi. Quindi si potrebbe dire che almeno a livello inconscio, la nostra musica è influenzata dal nostro essere spezzini. Belina!

 

Quali sono i vostri progetti futuri?

Siamo a buon punto con la composizione di nuove canzoni e abbiamo in mente di pubblicare un nuovo album. Quest’estate entreremo in studio per registrare il nuovo materiale che avremo composto fino a quel punto e a momento debito lo pubblicheremo. Nei nuovi brani, stiamo mantenendo una linea col nostro stile, ma al tempo stesso stiamo introducendo molte idee che fino a ora non avevamo preso in considerazione in fase di composizione. Siamo molto contenti di quello che sta venendo fuori e delle demo che stiamo realizzando, noi stessi non vediamo l’ora di ascoltare il lavoro finito.

 

Formazione

Andrea Briselli (voce e chitarra)

Alex Ferri (chitarra e tastiera)

Nicola Giannarelli (basso)

Marco Curti (batteria)

 

Singoli estratti da Perfettamente Inutile.

I Sogni degli Altrihttps://www.youtube.com/watch?v=62FGRgWzi94

Carosellohttps://www.youtube.com/watch?v=CXGFUzZdrNM

 

Giovanna Vittoria Ghiglione

 

Beat Saber vi insegnerà a duellare contro la musica

Assuefacente, coinvolgente, allucinogeno. Quello proposto da Beat Saber è un avveniristico viaggio ancestrale, che fonde indissolubilmente due pulsioni connaturate nell’essere umano: la guerra e il ritmo.

Così come i tamburi conducevano gli eserciti al fronte, due spade laser “suonano” uno spartito che va affrontato, sconfitto, battuto, per l’appunto, facendo propria l’armonia imposta dal livello di turno, dalla traccia scelta tra le diciassette che compongono la playlist del software.

La produzione di Hyperbolic Magnetism, autentico fenomeno del momento tra gli appassionati di videogiochi e non, è un così detto rhytm game, un gioco musicale. Si avvale della realtà virtuale, tramite visori come Oculus Rift e PlayStation VR, per proiettare l’utente in un’ambientazione che strizza l’occhiolino agli scenari distopici di Blade Runner e a quelli iniettati di neon di Tron Legacy.

Un palcoscenico certamente asettico e di per sé poco scenografico, eppure ideale per ospitare la cascata di cubi che andranno letteralmente fatti a pezzi utilizzando una coppia di controller equipaggiati di accelerometri, che nel videogioco assumono le sembianze di due spade laser caratterizzate ognuna da un colore specifico.

Non bisogna solo tenere conto della direzione con cui menare il fendente, opportunamente segnalato sul cubo stesso. Quelli di colore rosso andranno colpiti con l’arma dell’identico colore, stesso discorso per i cubi blu, pena il progressivo abbassamento della barra della vita.

Ciò che sulla carta può sembrare il classico gioco da ragazzi, incitati dalle sonorità tecno, hip hop e dance che caratterizzano la soundtrack di Beat Saber, diventa materia per chi ha il ritmo nel sangue e un’ottima coordinazione occhio-mano.

Con un po’ di pratica si affinano certi automatismi, ma è innegabile che il livello di difficoltà sia settato verso l’alto, soprattutto quando selezionando certi brani ci si ritrova letteralmente sommersi dalle note, dai muri di plasma da evitare spostando tutto il corpo, dalle bombe che non aspettano altro che un erronea sollecitazione per esplodere.

La modalità Campagna, se non altro, si rivela accondiscendente, introducendo gradualmente gli ostacoli e aumentando progressivamente la velocità di comparsa dei cubi.

Tutto allenamento, ad ogni modo, in vista delle partite in cui potrete sbizzarrirvi liberamente nella modalità apposita, scegliendo in prima persona malus e livello di difficoltà predefinito.

L’efficacia del concept si palesa al di fuori del visore, oltre il mondo digitale già di per sé estremamente ipnotico.

Da semplici spettatori, seguendo l’andamento della partita direttamente sullo schermo a cui è collegata la console o il PC, ci si scopre coinvolti nel groove, nelle movenze di chi sta giocando, quasi fosse una sinuosa performance che diventa rito (tribale) a cui partecipare eseguendo i “passi” impressi nello spartito.

Il meccanismo funziona anche per merito alle tracce composte da Jaroslav Beck, DJ ceco con già all’attivo diverse collaborazioni in ambito videoludico. Brani come l’omonimo Beat Saber e $100 Bills, forti di beat potenti e decisi, favoriscono la trance agonistica e una fruizione fisicamente partecipata degli astanti.

Non esiste modo migliore per definire Beat Saber se non accostandolo alla figura retorica dell’ossimoro, tanto futuristico nella tecnologia che coinvolge e nell’ambientazione in cui proietta l’utente, quanto primordiale nelle emozioni e reazioni che suscita.

Avremmo sicuramente gradito una playlist più ampia, ci auguriamo che in futuro specifici aggiornamenti ovvino a questa problematica, ma è innegabile che Beat Saber sia tra le esperienze più affascinanti che la realtà virtuale abbia attualmente da offrire sia agli esperti, sia ai curiosi, magari amanti della buona musica, tutta da suonare e ascoltare, come noi.

 

Lorenzo “Kobe” Fazio

Don Broco @ Legend_Club

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• Don Broco •

+ Dreamshade

 

Legend Club (Milano) // 19 Gennaio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Arrivo al Legend Club alle 21, di scena oggi una band che aspettavo di fotografare da tempo, i DON BROCO.

In cassa accrediti ricevo la più bella notizia della giornata. Posso fotografare tutto il concerto!

Occhi a cuore.

Aprono le danze i Dreamshade, band italo/svizzera che con la loro carica scaldano a dovere il pubblico del Legend Club di Milano. Cala il buio.

È il turno dei Don Broco. Parte l’intro di Come Out to LA e fasci di luce tagliano il palco a tempo con la base.

Boom!
Si accendono le luci e finalmente esce Rob Damiani, che inizia a divincolarsi sul palco, incantando le ragazze in prima fila.

La presenza scenica del frontman dei Don Broco è notevole.

Esco dal pit e mi butto a fotografare tra la folla, una cosa che mi piace moltissimo, perché ti metti alla pari del pubblico. I tuoi occhi sono i loro, le loro mani sono parte della foto e senti il loro calore.

Senti anche le gomitate nello stomaco, le ascelle pezzate di sudore e le ragazze stonate che ti cantano addosso e ti salgono sui piedi, ma va bene cosi!

In scaletta sono presenti tutti i brani più belli della band, Come Out To LA e Stay Ignorant sicuramente i miei preferiti.

Spengo la macchina fotografica e mi godo il concerto, pogo, salto e muovo le mani assieme a tutti i presenti, formando una grande onda.

I’m gonna ride that wave
I’m gonna ride that wave
Ooh
I’m gonna ride that wave
I’m gonna ride that wave

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

SETLIST:

COME OUT TO LA

PRETTY

SUPERLOVE

TECHNOLOGY

TIGHTROPE

GOOD LISTENER

MONEY POWER FAME

THE BLUES

PORKIES

EVERYBODY

GOT TO BE YOU

STAY IGNORANT

AUTOMATIC

KEEP ON PUSHING

PRIORITIES

FURTHER

GREATNESS

YOU WANNA KNOW

NERVE

TSHIRT SONG

 

Grazie a Barley Arts

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Testo e Foto: Luca Ortolani

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Dreamshade

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Riccardo Sinigallia @ Locomotiv Club

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• Riccardo Sinigallia •

CIAO CUORE TOUR

 

Locomotiv Club (Bologna) // 19 gennaio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Il CIAO CUORE TOUR di Riccardo Sinigallia fa tappa a Bologna nell’intima cornice del Locomotiv Club.

 

Ecco le prossime date del Tour:

25 gennaio Milano Santeria Social Club

1 febbraio Roncade (TV) New Age

7 febbraio Pozzuoli (NA) Duel Beat

8 febbraio Modugno (BA) Demodè

15 febbraio Perugia Rework Club

16 febbraio Roma Monk

 

 

Grazie a 1Day[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1503314301745{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 11px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”10736,10724,10725,10731,10732,10721,10727,10722,10723,10728,10726,10730,10729,10733,10734,10735,10737″][/vc_column][/vc_row]

Noyz Narcos @ Estragon

[vc_row][vc_column][vc_column_text]

• Noyz Narcos •

Estragon Club (Bologna) // 18 gennaio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]L’Enemy Tour di Noyz Narcos continua senza sosta, registrando sold-out ad ogni tappa compresa quella di ieri sera all’Estragon di Bologna, città particolarmente amata dall’artista.

Fuori da ogni schema logico, Emanuele Frasca, resta ancorato alle sue origini caratterizzate da quell’hardcore ormai quasi svanito in Italia e dall’hip hop vero.

Caratteristiche appunto, che lo rendono inconfondibile.

Nei suoi testi continuano a regnare tematiche crude, sapore di strada, ingiustizie e proteste contro un sistema corrotto che Noyz non ha paura di descrivere decidendo di non omologarsi al mercato musicale commerciale.

Enemy è anche il titolo del suo ultimo album, all’interno del quale coesistono varie collaborazioni con altri artisti e amici della scena romana e non come Coez, Salmo, Achille Lauro e Carl Brave.

Alcuni featuring sono stati riprodotti durante il live al maxi schermo con immagini e video in bianco e nero. Un susseguirsi di tinte ombrose che richiamano atmosfere cupe e in perfetto stile Noyz.

Tante sono le rime taglienti come lame che l’artista ha premura di affilare per bene in ogni suo disco.

Mancano ancora alcune tappe alla fine del tour. Due tappe che potrebbero essere le ultime di tutta la carriera di Noyz il quale sembra aver mostrato la volontà di ritirarsi dalle scene.

A dispetto però di tanti suoi colleghi partiti dal rap e finiti nel commerciale, Noyz Narcos è nato per strada ed è rimasto quello che era e ci auguriamo che la storia dello scioglimento sia un po’ “farlocca” come quella degli EELST.

Grazie a Thaurus e Zamboni53[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Testo: Claudia Venuti

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1503314301745{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 11px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”10655,10662,10659,10654,10667,10666,10669,10658,10668,10661,10656,10657,10660,10672,10665,10663,10670,10664,10671″][/vc_column][/vc_row]

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