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Tag: arte

La forza di Frida Kahlo

Da qualche anno a questa parte sembra essere esplosa una sorta di Frida Mania.

Il volto dell’artista messicana sembra essere riprodotto ovunque su magliette, biglietti, scarpe, borse e tatuaggi. Folte sopracciglia, capelli neri e corona di fiori, un profilo facilmente identificabile da tutti.

Frida Kahlo è senza dubbio un’icona ma chi era veramente questa donna che tutti riconoscono ma pochi conoscono sul serio?

Una femminista dal carattere forte e indipendente, un’artista e un’attivista politica. Tutti conosciamo il volto di questa donna dalle mille sfaccettature.

Appassionata, sognatrice ma dal fisico minato.

Frida Kalho potrebbe essere presa come emblema della resilienza: nonostante le difficoltà che la vita ha messo sulla sua strada lei non si è mai fermata, non si è mai arresa. 

La sua arte è un inno alla vita, è quello che le ha dato la forza di andare avanti senza mai arrendersi.

Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderon nasce il 6 luglio 1907, anche se lei diceva di essere nata nel 1910 con la rivoluzione che ha portato al Nuovo Messico. Un legame forte e intenso quello che aveva con la sua terra tanto da portarla a considerarsi una figlia della rivoluzione.

Sono nata con una rivoluzione. Diciamolo. È in quel fuoco che sono nata, pronta all’impeto della rivolta fino al momento di vedere il giorno.

Malata di spina bifida, erroneamente confusa con la poliomerite, non verrà curata nel modo corretto e dovrà convivere con una deformazione alla gamba destra per tutta la vita. Da piccola questo difetto le varrà il soprannome di Gamba di Legno. Ma Frida non si è mai nascosta. Ci ha insegnato che la cosa più importante è amare noi stessi.

Nel 1925 rimarrà vittima di un terribile incidente: l’autobus su cui viaggiava si scontrò con un tram e Frida venne trapassata dal corrimano del mezzo.

Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro.

Si salvò per miracolo ma riportò diverse ferite gravissime tra cui fratture alla colonna vertebrale e il bacino. Fu durante la sua convalescenza, costretta a letto per diversi mesi, che si avvicinò all’arte.

Sdraiata su un letto a baldacchino, su cui avevano fatto montare uno specchio, inizierà a dipingere degli autoritratti. 

Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio.

I dolori provocati dall’incidente, che la accompagneranno per tutta la vita non riuscirono però a fermarla. 

L’arte di Frida si ispira alla cultura popolare e a quella precolombiana sia per l’abbigliamento delle figure che per gli elementi naturalistici.

Nel 1928 incontra Diego Rivera, uomo di 20 anni più grande e noto donnaiolo, che rimase incantato dallo stile e dalla personalità dell’artista. Conscia dei tradimenti che sposarlo avrebbe comportato l’anno seguente convolano a nozze. 

Ho subito due gravi incidenti nella mia vita…il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego.

Spirito libero ed anti conformista ebbe numerosi amanti di prestigio (uomini e donne) tra cui figurano il  politico Lev Trockij, il poeta Andrè Breton e probabilmente la fotografa Tina Modotti.

 

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Frida Kahlo e Diego Rivera

 

A causa dell’incidente non riuscì mai a portare a termine le gravidanze e questo per lei fu un duro colpo. Nel 1939, a seguito del tradimento con la sorella minore Cristina, lei e Rivera divorziano per poi risposarsi l’anno seguente.

La foro fu una storia all’insegna del tradimento, della passione e soprattutto dell’arte.

E’ stata una femminista, una politica una donna forte e indipendente. 

La sua figura, la sua vita e ovviamente le sue opere hanno ispirato diversi artisti, anche in ambito musicale.

Nel 1954, 8 giorni prima di morire, Frida dipinge una tela dal titolo Viva la Vida: Angurie. Si tratta di un dipinto che rappresenta dei cocomeri. I colori predominanti sono il rosso, il verde e l’azzurro. Un dipinto allegro su cui, in primo piano, inciso nella polpa del frutto spicca la scritta VIVA LA VIDA Frida Kalho.

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Viva la Vida, 1954

Coldplay, per la loro canzone Viva la Vida del 2008, hanno preso spunto proprio da questo quadro

“Come sappiamo lei è passata attraverso tanta di quella merda eppure dopo tutto ciò ha voluto realizzare un grande quadro in cui si leggeva, appunto, Viva la vida. Ho amato il coraggio di questo gesto.”

Con queste parole Chris Martin spiega cosa ha spinto lui e la band ad intitolare così la canzone e l’album omonimi.

Diversa la scelta fatta da Florence and the Machine che in What I Saw in the Water si ispirano al quadro Lo que el agua me dio.

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Lo que el agua me dio, 1938

Il quadro è una visione onirica della vita umana, rappresentata attraverso una serie di corpi che fluttuano nell’acqua di una vasca da bagno. La canzone, invece, traendo ispirazione dai corpi in acqua pone l’accento sui bambini che vengono trascinati via dalla corrente del mare.

Anche il nostro connazionale Marco Mengoni nell’ultimo album Atlantico ha inserito una traccia dal titolo La Casa Azul. 

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La Casa Azul, foto di Valentina Bellini

Il brano erige Frida a simbolo di forza: dobbiamo prendere esempio dalla sua storia per imparare a trasformare le sofferenze in qualcosa di positivo.

La Casa Azul è il luogo in cui Frida è nata e in cui ha vissuto per gran parte della sua vita. Fu trasformata in un museo a lei dedicato per volere di Rivera che però morì prima dell’inaugurazione avvenuta il 30 luglio 1958.

Frida e la sua vita, costellata dal dolore, andrebbero ricordate e studiate affinché la sua figura non sia usata come un semplice oggetto di merchandise.

E’ stata una donna che ha lottato, aggrappandosi alla vita con le unghie e con i denti, e che ci ha insegnato l’importanza di rimanere sempre fedeli a noi stessi senza mai snaturarci. I suoi lavori sono stati in grado di prendere le brutture della vita e trasformarle in gioielli.

Frida ormai non è più solo un’artista, è una donna entrata nel mito. 

 

Laura Losi

Van Gogh e i Maledetti

•Stefano Fake ci insegna come si racconta l’arte con l’arte•

 

Di norma, non occorrerebbe nessuna particolare motivazione per saltare su un treno per Firenze.
A Firenze ci vai e basta, ed ogni cosa che potrai portarti a casa sarà inestimabile bottino.

Ma quando la Chiesa di Santo Stefano, a due passi da Ponte Vecchio, diventa Cattedrale dell’Immagine, e si fa bella per ospitare una delle mostre più coraggiose e rivoluzionarie del momento,  il biglietto di questo treno si timbra da solo.

Siamo quindi sfrecciati verso una Firenze toccata e fuga, per un aperitivo maledetto con Van Gogh, Lautrec, Modigliani ed altri tormentati ragazzacci. Abbiamo sguazzato nelle loro vite tutt’altro che piacevoli e capito quanto l’arte, per loro, sia stata la vera salvezza. O forse no. 

Davanti ad una mostra come Van Gogh e i Maledetti ci si sente destabilizzati, poiché l’unica prerogativa è spogliare le opere da qualsiasi filtro di falsità, così che possano urlarci in faccia di non essere figlie predilette di divinità perfette, ma d’essere venute alla luce dalle menti esasperate di uomini soli, limitati, dannati, in un vorticoso travaglio senza gioia ne consolazione. 

A presentarci Van Gogh e i Maledetti è CROSSMEDIA GROUP, con un’esperienza multimediale progettata e diretta da Stefano Fake di THE FAKE FACTORY, artista visivo multidisciplinare che, con grande audacia e sensibilità, utilizza tecnologie di ultima generazione per raccontare l’arte con l’arte.
Abbiamo chiesto a Stefano di parlarci della mostra, dell’importanza delle nuove frontiere artistiche e del grandioso lavoro che c’è dietro allo straordinario risultato finale.

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La tua opera è colma della Parigi di fine ottocento e inizio novecento, fulcro del mondo bohemien, terreno fertile per le vite dissolute dei nostri Maledetti. Quali strade di Parigi ha percorso la tua ispirazione? 

Per questa esperienza immersiva ho lavorato su diversi binari estetici e narrativi.

Dal punto di vista storiografico ho voluto approfondire la descrizione dell’ambiente parigino a cavallo dei due secoli, usando diverse fonti cinematografiche e fotografiche.

Mi sembrava necessario far capire sin da subito come fosse importante l’ambiente di Parigi, in quel momento sicuramente la capitale mondiale dell’arte, e il motivo per cui era diventata la meta di tutti coloro che volevano vivere pienamente una vita e una carriera d’artista.

Per questo ho usato ampie scene di repertorio su Montmartre, Montparnasse, i caffè parigini, le sale danzanti, per concludere con l’apoteosi finale dei fuochi d’artificio all’inaugurazione della Tour Eiffel.

Parigi era il centro del mondo e sicuramente la meta di tutti gli artisti che volevano affermarsi nel mercato e magari nella storia dell’arte.

Quindi, oltre che per gli amici fraterni Van Gogh e Gauguin, Parigi era il punto di riferimento per tutta una serie di altri pittori molto eterogenei fra loro come stile e tecniche pittoriche.

La cosa che li accomunava era soprattutto l’aspirazione ad una vita bohémien completamente dedicata all’arte, chiaramente insaporita da vino, assenzio, hashish e sesso.

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Hai creduto fosse importante slegare le singole esperienze di questi artisti dalle vite rispettivamente intrecciate fra loro, per dedicare ad ognuna di esse un capitolo personale. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?

Si, la narrazione visuale è fatta di brevi capitoli monografici, diversi fra loro come composizione e grafica animata.

Dal punto di vista registico per me era fondamentale mostrare questa eterogeneità stilistica e tematica, questa ricchezza di colori e forme. Una frammentazione narrativa legata profondamente allo spirito del tempo.

Gli artisti maledetti dipingevano in modo differente e molto personale; rappresentavano Parigi ciascuno con la propria matrice stilistica, ma ne erano tutti figli e ciascuno ne raccontava una parte, e tutte queste porzioni ne danno una visione sicuramente più completa.

Il tutto collegato da un avvolgente fil rouge,  proprio come nei capitoli di un romanzo.

Nel corso dei quaranta minuti di video-installazione a 360°, passiamo da Modigliani a Toulouse-Lautrec da Soutine, a Gauguin e Van Gogh, senza che questa frammentazione possa sembrare dissonante. Perché tutti loro, in definitiva, stavano rappresentando in modo molto personale lo spirito del tempo.

Con la scelta musicale ho seguito lo stesso schema: grande varietà ed eterogeneità, passando da Verdi a Vivaldi da Schubert a Beethoven e Hoffenbach, stando attento unicamente a tenere alta la temperatura emotiva dell’esperienza immersiva, lavorando sull’alternanza ritmica e sulle sonorità.

Un’esperienza più che immersiva. Era tua intenzione farci rivivere l’ipotetico percorso di maledizione ed espiazione di Van Gogh ed i suoi colleghi?  

Per far viaggiare l’opera dentro un binario simbolico molto strutturato ho costruito, su un secondo livello, una narrazione che procede come un viaggio di purificazione.

Partiamo dall’inferno a cui questi artisti dalla vita dissennata erano destinati, per portarli fino al cielo, all’elevazione in paradiso, spinti dalla grandezza e dalla purezza della loro arte.

Per questo il primo capitolo inizia con il Dies Irae di Verdi e ci troviamo fra le fiamme dell’inferno e all’interno di una scena vandalizzata da scritte rosse spalmate sulle pareti dell’ambiente. Tanto forti da sembrare scritte col sangue.

Interessante la contrapposizione che hai creato ambientando una scena infernale all’interno di una chiesa sconsacrata. 

In questa scena suggerisco al pubblico la mia interpretazione del girone dantesco che ghermisce questi pittori dalla vita estrema: una chiesta sconsacrata vandalizzata come uno squot abbandonato e graffitato centimetro per centimetro.

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Abbiamo colto qualche citazione a Disney, qualcuna addirittura all’animazione giapponese. Affermazione troppo azzardata?
Assolutamente no. In questo primo capitolo c’è una citazione diretta di uno dei capolavori del cinema d’avanguardia, Fantasia di Walt Disney del 1940, così come avevo fatto per Klimt Experience.

In particolare mi sono ispirato alla scena iniziale di Fantasia, realizzata sotto la direzione artistica di Oskar Fishinger, uno dei maestri dell’animazione astratta che ha aperto le porte all’idea di film astratto all’inizio del ‘900.

Chiaramente, essendo figlio del mio tempo, ho dato un tocco manga alle animazioni astratte e ho potuto ottenere, grazie al montaggio digitale, una perfetta sincronia audio-visiva.

Hai lavorato molto sui contrasti. Lo spettatore non può che sentirsi parte di qualcosa di grande. Non possiamo chiedere ad un padre di identificare il figlio preferito, ma sicuramente c’è un “capitolo” di cui vai particolarmente fiero.
Uno dei momenti visivamente più belli e riusciti dell’opera, che fa da contrappunto a questa prima scena infernale, è il finale dell’opera immersiva, con la contemplazione del paradiso: la notte stellata di Van Gogh.  Apprendiamo affascinati come da una vita maledetta possa nascere un’arte celestiale e sublime. E’ in definitiva un inno alla forza catartica dell’arte che salva tutti, artisti e pubblico.

Per quanto riguarda la progettazione dell’ambiente immersivo non mancano strumenti che stanno aprendo le porte ad un nuovo concetto di “istallazione artistica”.

Per Van Gogh e i Maledetti ho potuto portare due tecniche che da anni utilizziamo con successo nei festival e nelle mostre immersive: il videomapping, sulle nude pareti della chiesa che ci ospita, e la Mirror Room, che dagli inizi degli anni duemila cerco di inserire sempre nelle esposizioni di cui sono autore, negli eventi e nei festival d’arte digitale.

Dopo alcuni anni in cui la Chiesa di Santo Stefano era rivestita di schermi, siamo riusciti a lavorare con la produzione di Crosserai per farla tornare alla sua forma originale.

La perfetta visione delle opere è comunque garantita dalla forma stessa dell’architettura, che ha ampie pareti intonacate sopra gli altari.

Per migliorare la visione ho fatto inserire uno schermo centrale, che non è altro che la parete portante della terrazza costruita appositamente per avere anche una visione dall’alto dello spazio.

Il balcone ospita anche una mia Mirror Room, dove il concetto di immersive art experience, che da anni è la cifra stilistica di THE FAKE FACTORY, è portato alle sue estreme conseguenze.

La mostra è completata da una parte didattica tradizionale e da un viaggio tridimensionale con Oculus.

Questi ambienti sono curati direttamente da Crossmedia, così come il bookshop, rinnovato anch’esso per questa esposizione.

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Da anni sei parte attiva di questo nuovo fenomeno chiamato “crossmedialità”. L’arte sta cambiando, così come il suo pubblico. Sperimentare è inevitabile e necessario, perché stiamo assistendo all’alba di una nuova era della comunicazione. Dopo aver parlato della tua ultima creatura, parlaci un po’ di te, della tua esperienza e della tua personale rotta.

Questa per noi  è la quinta produzione per Crossmedia Group (dopo Klimt, Monet e gli Impressionisti, Modigliani e Magritte) e consolida un rapporto che ha portato il gruppo a diventare un importate player nel mondo delle mostre multimediali.

Devo dire che la fiducia e la libertà creativa che il produttore Federico Dalgas mi ha sempre lasciato è sicuramente stata una delle chiavi del successo di questo nuovo modo di rappresentare l’arte del passato con linguaggi e tecniche contemporanee.

Se da un lato perdiamo, per così dire, la materia pittorica (non ci sono opere originali in mostra), dall’altra possiamo utilizzare la luce digitale per creare mondi fantastici, illusioni ottiche, immersioni visive sorprendenti.

Osservazione da sottolineare, perché molti storgono ancora il naso quando si tratta di mostre senza opere originali. Raccontare l’arte con l’arte, soprattutto se si trattano opere classiche e celebri, non è ancora un concetto così immediato ed accettabile, a quanto pare. Occorre avere coraggio, il nuovo pubblico sembra in continua crescita.

Proprio così. Per un artista che lavora con i new media è importante sentirsi libero di sperimentare e di reinterpretare i classici del passato senza sentirsi limitato e avendo la possibilità di sperimentare ogni volta soluzioni visive nuove, sapendo che lo sforzo economico che il produttore sostiene sarà ripagato sia in termini economici che di visibilità.

La prima esperienza che abbiamo realizzato per loro, Klimt Experience, è stato un successo mondiale che ha aperto molte porte a questa nuova forma di immersione nell’arte.

Il pubblico del terzo millennio ha voglia di vivere diverse esperienze estetiche e le immersive exhibitions sono sicuramente una proposta culturale interessante proprio perché complementari alle mostre tradizionali. Sono sicuramente anche un buon modo per introdurre all’arte bambini e teenagers.

Già, troppo spesso si parla dei giovani e della loro incapacità di mostrare interesse per la cultura e per il loro futuro. Noi crediamo invece che ogni generazione abbia il suo linguaggio e che questo linguaggio, come ogni altro, vada studiato, ascoltato, accolto. Siamo stati felici di vedere la mostra popolatissima di ragazzi e ragazze.

Penso che le strade che abbiamo aperto porteranno ad una crescente attenzione verso le mostre immersive, con la nascita di nuovi artisti visivi e nuovi produttori interessati ad investire in questo mercato.

Lo ripeto da anni: siamo come a inizio ‘900 quando nacque il cinema. Nel giro di pochi decenni le sale cinematografiche si sono moltiplicate, e c’è stato spazio per nuovi registi, nuovi autori, nuovi produttori.

Per questo penso che da parte del pubblico e della critica sia anche venuto il momento di superare la dicotomia mostra con quadri veri versus esperienza immersiva di arte digitale. 

Per usare una metafora facilmente comprensibile, le mostre immersive stanno alle mostre tradizionali come il cinema sta al teatro?

Esattamente, nessuno va al cinema sperando di trovare attori in carne ed ossa.

Oggi, se vai al cinema è normale sapere che vedrai degli attori e delle scene riprese e poi proiettate su schermi.

E’ un segno dei tempi, e la riproduzione dell’arte partendo da una foto in digitale è il modo più comune con il quale il pubblico entra in contatto con le opere d’arte del passato.

Inoltre oggi abbiamo una qualità riproduttiva eccellente, con una qualità di riproduzione molto definita e fedele all’originale. Manca la materia pittorica, certo, e le dimensioni sono riportate su grandi schermi.

Ma questo per me è un vantaggio, perché possiamo rafforzare la potenza visiva delle opere riprodotte ed esaltarne le trame e i dettagli.

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Negli anni l’arte cinematografica si è sviluppata come linguaggio e tecnica fino ad essere definita la settima arte. Oggi l’arte digitale immersiva potrebbe rappresentare l’ottava forma d’arte? 

Sicuramente è quella che maggiormente si avvicina all’idea di Arte Totale di cui si parla da quasi due secoli.

Un’esperienza immersiva, nella forma in cui la concepisco e la realizzo, è un’insieme di architettura, pittura, musica, danza, poesia, cinema… L’arte digitale immersiva è un’esperienza totalizzante.

Per questo spero che una nuova generazione di critici, divulgatori e storici dell’arte ne prenda atto e inizi ad analizzarla e a descriverla per quella che è: una forma d’arte a se stante che ha un proprio linguaggio e una propria ricerca.

E spero che si inizi a capire che dietro ad ogni mostra immersiva ci sono autori e artisti visivi con il proprio stile e la propria capacità non solo di rileggere il passato, ma anche di creare nuove estetiche. 

Partiamo da qui, il pubblico ed i lettori devono sapere quante interessanti sfaccettature, quanta progettazione e quanta ricerca creativa si celano dietro ad una mostra immersiva. Capita spesso che il vostro lavoro non venga capito?

Mi piacerebbe che un giorno si smettesse di fare domande agli autori di esperienze immersive  sul tipo e sulla quantità di proiettori utilizzati, perché sarebbe come chiedere a Fellini che tipo di cinepresa ha usato per girare il film o che proiettori utilizzano nei cinema per proiettare i suoi film.

Nessuno chiede a Bob Wilson che fari utilizza per fare i suoi enormi fondali retroilluminati a teatro. Gli viene chiesto il perché crea scene con architetture fatte di luce.

Chi chiede a James Turrell se per creare le sue stanze immersive usa Led o luci con gelatine colorate?

Noi artisti digitali ci dobbiamo preoccupare solo di creare esperienze d’arte belle e culturalmente significative. Ognuno con il proprio punto di vista e la propria visione, cosi che il pubblico possa un giorno andare a vedere un’esperienza immersiva sapendo quale autore l’ha realizzata, esattamente come accade quando si sceglie un film.

Lo si fa per vedere l’opera, non per vedere una sala dove la tecnologia permette di proiettare delle immagini su una parete bianca.

Italia, patria dell’arte, luogo dove alla domanda “che lavoro fai?” la risposta “l’artista” segue svariate e raramente benevole reazioni. Sei sicuramente un grande esempio per i giovani che sognano un futuro nel campo artistico.

Sì, e spero che quello che stiamo facendo serva come guida per gli studenti d’arte e i nuovi creativi digitali.

Ci sono enormi possibilità di esprimersi come artisti e come narratori digitali, è un mondo tutto da creare e scoprire. Ma siamo agli inizi e la definizione di un’arte nuova richiede tempo. 

Ma noi artisti andiamo avanti, sperimentando e creando, così come fecero altri prima di noi.

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Articolo di Valentina Gessaroli

La magia del Prado

•Quando l’arte incontra la musica•

 

Madrid è una delle mie città preferite, sembra avvolta da una patina magica che la rende unica al mondo. Ovunque ti giri non puoi fare a meno di sgranare gli occhi perché in ogni angolo puoi trovare una chiesa, un palazzo o una fontana che catturano la tua attenzione.

Madrid per me è sinonimo di arte e musica.

Tra i tanti musei che la città ospita ho deciso concentrare la mia attenzione sul Museo del Prado. Non solo perché nel 2019 vengono celebrati i suoi 200 anni ma perché raccoglie una collezione di opere da lasciare senza fiato.

L’imponente museo, costituito da un dedalo di stanze in cui è facile perdersi, ospita dipinti di alcuni degli artisti più importanti della storia: Tiziano, Durer, Bosch, Raffaello…elencarli tutti sarebbe impossibile.

Passeggiando per le sale, armata di cartina, passando da un quadro ad un altro mi sono accorta che moltissimi artisti nelle loro opere inseriscono riferimenti al mondo della musica.

Ci sono autori che decidono di celebrare i musicisti intenti a fare il loro lavoro, altri che immortalano momenti di festa, altri che celano dietro l’immagine di un musico i potenti del loro tempo e altri ancora che nelle loro opere a volte in primo piano, a volte celati in disparte, inseriscono degli strumenti.

Dopotutto la musica, una forma d’arte antica quasi quanto l’uomo, è parte fondamentale della vita di tutti e quando due arti così importanti si incontrano non possono nascere che dei capolavori.

In questa breve carrellata vedremo insieme alcune opere che contengono dei richiami al mondo nella musica e come i loro artefici hanno deciso di rappresentarla.

Partiamo dal tedesco Hans Baldun Grien che nella sua opera Le Tre Grazie decide di trattare un soggetto di matrice classicheggiante molto caro ai rinascimentali. 

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Hans Baldung Grien, Armonia o Le tre Grazie, 1541-1544 

Al Prado possiamo ammirare anche l’opera di Rubens, che tratta lo stesso soggetto ma lo fa in modo totalmente diverso.

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Pieter Paul Rubens, Le tre Grazie, 1636 ca., olio su tela

Osservando i due dipinti, infatti, più che le somiglianze possiamo soffermarci sulle differenze.

Grien vive in un periodo turbolento, caratterizzato da scontri religiosi che sconvolgono gli stati tedeschi. L’artista si inserisce in un filone che viene denominato arte della riforma in cui le opere si caricano di una forte carica morale. 

Nel dipinto possiamo notare due strumenti, un liuto e una viola da braccio, e un putto che tiene tra le gambe uno spartito. L’opera, che a prima vista potrebbe sembrare di matrice puramente classica, nasconde in realtà un significato più profondo.

Sullo sfondo, attorcigliato al tronco di un albero, possiamo notare un serpente, nella cristianità simbolo per eccellenza del male e della corruzione. A questo punto, vista anche la presenza di un Cigno (che potrebbe rimandare alla seduzione di Leda ad opera di Giove) potremmo vedere nell’opera una critica negativa alla musica profana, tematica molto in voga nella patria dell’artista.

Diverso invece è il caso del nostro connazionale Tiziano Vecellio che ci propone un’opera dal titolo Venere con Organista e Cupido.

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Tiziano Vecellio, Venere con Organista e Cupido, 1540-1550

Anche quest’opera riprende un soggetto classico: la Dea della bellezza nuda distesa su un letto.

L’italiano però rispetto all’iconografia più tradizionale inserisce un musicista, abbigliato con indumenti del 500 e armato, che osserva quasi con desiderio il corpo di Venere.

Nelle sue fattezze possiamo facilmente riconoscere Filippo II, committente dell’opera.

Tiziano riesce a fondere alla perfezione il tema classico alla sua realtà inserendo nell’opera un giardino rinascimentale, carico di riferimenti simbolici.

Ma la musica entra anche nei quadri spiccatamente religiosi.

Antiveduto della Grammatica nella sua opera Santa Cecilia rappresenta la donna intenta a a suonare un organo, mentre sullo sfondo, in penobra, un angelo la ascolta rapito.

 

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Antiveduto Della Grammatica, Santa Cecilia, Olio su tela, 1611

Alle spalle della santa possiamo anche scorgere un violino e un liuto poggiato su un tavolo.

Il fatto che la santa stia suonando proprio un organo non è casuale dal momento che, secondo la tradizione, sarebbe stata proprio lei ad inventare questo strumento.

Inoltre il suo essere circondata da strumenti è dovuto al fatto che Santa Cecilia è, per la fede cristiana, la patrona della musica degli strumentisti e dei cantanti.

Ma andiamo a vedere un quadro pensato per essere esposto in un monastero situato a meno di cinquanta chilometri da Madrid: L’Adorazione dei Pastori di Juan Bautista Mainò. 

 

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Maino Juan Bautista, Adorazione dei Pastori, olio su tela, 1610 ca.

Nell’opera, che riprende la natività secondo il Vangelo di Luca, vengono rappresentati un gruppo di pastori e di angeli che venerano il bambino, appena nato. Il dipinto si articola su tre livelli e in quello inferiore, più vicino allo spettatore, possiamo notare un pastore intento a suonare.

In questa tela possiamo notare non solo l’influsso di Caravaggio ma anche quello di El Greco, che operava proprio a Toledo.

Ma la musica si inserisce con naturalezza anche nelle rappresentazioni dei paesaggi e della vita quotidiana. L’opera di Brueghel il Vecchio, Matrimonio in Campagna, ci fornisce uno spaccato su quella che era la vita nel primo 1600.

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Jan Brueghel Il Vecchio, Matrimonio in Campagna, olio su tela, 1612 ca.

L’autore, nonostante voglia porre l’accento sulla processione nuziale, da una grandissima importanza al paesaggio che viene rappresentato con grandissima cura.

La musica, allora come oggi, alle nozze rivestiva una grandissima importanza e quindi Brueghel inserisce i musicisti proprio nella processione. 

Notiamo infatti un uomo con un tamburo che precede lo sposo (vestito di nero con il collare), mentre tre uomini armati di strumenti a corda separano il gruppo degli uomini da quello delle donne, dove possiamo notare la sposa (anche lei in nero).

Oltre a Brueghel sono molti gli autori che hanno deciso di trattare un tema simile, basti ricordare Teniers o Snyders.

Chiudiamo questa carrellata con uno degli artisti più presenti al museo del Prado: Francisco de Goya y Lucientes.

Nonostante molti lo conoscano per opere cupe come Saturno che divora i suoi figli o Il sonno della ragione genera mostri, nel corso della sua lunga vita Goya ha attraversato diverse fasi influenzate dal suo vissuto personale, dagli artisti con cui è entrato in contatto e da una sorta di dualismo tra sentimenti e ragione.

Analizzeremo qui un’opera appartenente a quella che spesso viene definita la maniera chiara,         , confrontandola con un dipinto di suo cognato Ramon Bayeu y Subias.

In questa prima fase Goya prende spunto da persone comuni e dal folclore spagnolo e i suoi dipinti sono caratterizzati da colori chiari e da una sorta di spensieratezza.

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Francisco de Goya y Lucientes, Un uomo cieco suona la chitarra, olio su tela, 1778

In Un uomo cieco suona la chitarra Goya rappresenta uno straniero il cui ruolo è quello di spostarsi di città in città  portando notizie. In quest’opera possiamo notare anche altri personaggi come il nero, il cui ruolo tradizionale era quello di vendere acqua, il venditore di meloni e e il pescatore.

Nell’opera di Bayeu, Il musicista cieco, l’uomo è accompagnato da un ragazzo che gli fa da guida e lo aiuta a richiamare l’attenzione, grazie anche all’aiuto di un cagnolino.

 

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Ramon Bayeu y Subias, Il cieco con la chitarra, olio su tela, 1786 ca.

Nonostante il soggetto trattato sia il medesimo le due opere si discostano molto per la struttura, i colori e la composizione. L’opera di Goya ci restituisce uno spaccato della società spagnola mentre quella di Bayeu y Subias sembra quasi essere inserita un contesto pastorale.

Concludo qui il mio racconto sul Museo del Prado e lo faccio prendendo in prestito le parole di un grande artista, Pablo Picasso:

L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni.

Questo è lo stesso compito che assolve la musica.

Nella vita frenetica e quotidiana di oggi spesso non troviamo il tempo di entrare in un museo, di soffermarci ad osservare un quadro, di godere della catarsi che certe opere sono in grado di offrirci. Spesso però la musica può sopperire a questa mancanza.

Musica e pittura sono due arti gemelle che vanno di pari passo, quando queste due si incontrano non possono che nascere opere importanti, in grado di toccare le corde della nostra anima

Laura Losi

Il musical e l’Italia: School of Rock

•Quando il teatro diventa una scuola per passato e futuro•

 

Ho una tradizione a cui non posso proprio rinunciare, quando faccio tappa nella bella Firenze: gustarmi una doverosa cena a base di specialità toscane. 

Dentro quella roba c’è il senso della vita, amici miei. 

Guarda caso l’osteria di fiducia si trova proprio davanti alla mia meta, il Teatro Verdi di Firenze.

Il cameriere, ormai fidato, è sbigottito quando ammetto di non esservi mai entrata così, offrendomi il dessert, mi avverte sogghignando: “te lo dico, desidererai tornare indietro nel tempo per indossare un abito tutto luccicante, con orecchini di perle ed il libretto della tua opera preferita in mano. Entrando, ti renderai conto che il Verdi offre, già di per se, uno spettacolo in tutto e per tutto”.

Buono a sapersi; dovrò davvero scegliere tra il mio chiodo di pelle ed un vestito da Charleston?

In effetti il Teatro Verdi citato anche da Collodi nel classico Pinocchio è un tripudio di raffinatezza e fastosità, una location che farebbe perdere la testa a qualsiasi fan di Downton Abbey, me compresa.

Per questo è così dannatamente splendido ed inaspettato trovarlo brulicante di un pubblico formato da tantissimi bambini, che scorrazzano senza sosta tra le seriose poltroncine di velluto rosso. 

Questa sera, infatti, saranno proprio loro i veri protagonisti dello spettacolo, poiché di bambini si racconta: bimbi pronti a dire la loro, che agli adulti piaccia o meno.

Lo School of Rock diretto da Massimo Romeo Piparo è, infatti,  la storia del rockettaro incallito Dewey Finn (personaggio cucito addosso a quel mattacchione di Jack Black per l’omonimo film diretto da Sam White e riscritto per Broadway dal maestro del musical Andrew Lloyd Webber).

 

foto gruppo SOR Antonio Agostini min
Il cast del musical sul palco

 

Finn per sbarcare il lunario si ritrova ad ingannare il sistema fingendosi un insegnante per una delle scuole più prestigiose del paese, la Horace Green Alma Mater. Nel costatare quanto i suoi giovanissimi alunni siano davvero dei tipi tosti, Dewey  insegnerà loro l’unica cosa che abbia mai conosciuto e amato davvero: il rock, ovviamente. 

Scoprendoli incredibilmente portati per la musica formerà una band, chiamata School of Rock, e l’iscriverà alla battaglia delle band. 

I giovani musicisti apriranno il loro cuore al rock, stanchi di aver a che fare con genitori rigidi, assenti e incapaci di ascoltare le loro passioni e necessità, riconoscendo in quel buffo ometto del Signor Dewey uno sgangherato mentore, del tutto differente da qualsiasi altra persona adulta mai incontrata nella loro vita.  

Lo spettacolo è senza dubbio un grandioso inno al rock, che cambia pochissime carte in tavola rispetto all’omonimo film del 2003 ed è un piacere applaudire, ancor prima che il sontuoso sipario si apra, alla super band dal vivo che, ai piedi del palco, è già agguerrita e pronta a scatenarsi tra i brani originali ed i classici del rock che compongono la colonna sonora di School of Rock.

 

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Il cast in scena.

 

Le scenografie dimostrano immediatamente d’essere quelle di una capace e sapiente produzione, per nulla mancante rispettò ai cugini del West End.

Grazie ad istallazioni mobili curate nei dettagli, gli autori riescono a trasportarci nelle numerose location dello spettacolo: la caotica e sciatta camera da letto di Dewey, la sala prove incredibilmente convincente  e, vero fiore all’occhiello del reparto scenografico, la splendida Horace Green che sarà teatro di una vera rivoluzione, capitanata dai giovani e brillanti protagonisti.

Lo spettacolo prosegue ed il pubblico, abituato fino a quel momento alla vita scapestrata ed al mondo tutto pane e rock ‘n’ roll di Dewey, ha bisogno di qualcosa che lo ponga davanti alla dura realtà: non sarà facile ingannare la Horace Green dove regnano disciplina e contegno.

Con un brano che, in mezzo a tanti straordinari momenti di vero rock,  merita una menzione speciale per aver portato sul palco la  potenza della tradizione: insegnanti e studenti ci accolgono nella sala grande offrendoci una dimostrazione corale davvero emozionante, che ha il gusto del musical classico. 

Il contrasto tra la verve della nuova e vecchia Broadway e l’irriverenza del rock  è rafforzato dalle citazioni, più o meno evidenti, di spettacoli rappresentativi come Wicked, Annie, Matilda e Cats. 

Dopo un crescente susseguirsi di numeri che inneggiano al più sfrenato hard rock, entriamo nel vivo della rivoluzione con il brano melodico Se Solo Mi Ascoltassi, dove i piccoli rockers esternano tutto il loro dolore nel capire ogni giorno di più quanto i loro genitori, assuefatti dalla frenetica routine, non siano in grado di comprendere ed incoraggiare i loro sentimenti e sogni. 

Questo dovrebbe essere il momento “strappalacrime”, così viene chiamato nel musical e, data l’intensità trasmessa dalle voci, dagli occhi e dalle gestualità dai ragazzi lo sarebbe, se non fosse per la proiezione alle loro spalle, che va a sostituire l’asettico sfondo nero delle produzioni straniere. 

Difficile ammetterlo, ma la commozione e l’empatia sono totalmente smorzati da questo screensaver, caratterizzato da fiori e farfalle, un po’ pacchiano. La scelta  a noi non è piaciuta.

Niente panico, perché sul finale entra in scena il meta-teatro. 

Con un riuscitissimo espediente drammaturgico, il pubblico del teatro Verdi si trasforma in quello della battaglia delle band che, totalmente impazzito per lo spettacolare concerto interamente suonato dal vivo dai ragazzi canta, balla e salta, posseduto da quella frenesia che solo il dio del rock può regalare.

 Il risultato è la vittoria indiscussa  dei ragazzi con il brano The School of Rock.

La scelta di Pasquale Petrolo, in arte Lillo, per il personaggio di Dewey è inaspettatamente assennata, praticamente perfetta. 

 

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Pasquale Petrolo, in arte Lillo.

 

Inizialmente, alla vista della locandina dello spettacolo dal titolo Lillo – School of Rock la reazione non è stata del tutto positiva.

E’ lecito storcere il naso con pregiudizio quando un personaggio famoso come Lillo viene lanciato nella mischia di un progetto che non tratta propriamente il suo campo, con il solo apparente scopo di raccogliere audience da parte di un pubblico italiano troppo confuso e rinunciatario quando si tratta di musical. 

Si è portati a pensare che, nonostante le tante abilità e la grande esperienza che Lillo ha maturato nel mondo dello spettacolo, sarebbe più appropriato affidare una parte così significativa ad un performer che, per anni ed anni, ha dedicato la sua formazione in quel particolare ramo dello spettacolo che è il musical. 

Molti attori, ormai, vengono sacrificati a causa della volontà delle produzioni di inserire nel cast un famoso specchietto per le allodole. 

In questo caso però, dobbiamo ammetterlo, Lillo convince e conquista.

Occorre dimenticarsi delle performance di Jack Black e del suo “sostituto” nella produzione di Broadway, Alex Brightman: artisti dal carattere tanto esuberante quanto invadente. 

Un Lillo evidentemente emozionato, preparato nel suonare la chitarra, cantare e ballare, con la direzione di Piparo plasma il personaggio di Dewey a sua immagine e somiglianza, rendendolo meno seccante, più bonario, ma ugualmente capace di creare quel contrasto stilistico e generazionale tra il professore e gli studenti.

Già, gli studenti. Quel palco è totalmente ricoperto da quegli splendidi diamanti di talento che sono i ragazzi dell’Accademia Musical Sistina: appassionati, sensazionali, dinamite pura. 

 

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I piccoli protagonisti.

 

Cantando, suonando e ballando rigorosamente dal vivo, reggono lo spettacolo sulle loro giovani spalle, svalicando di gran lunga il qualificatissimo cast degli adulti e conquistando i cuori degli spettatori che, grandi o piccini, sono rapiti dall’improvvisa voglia di fare headbanging alzando con fierezza il calice del rock.

Una storia, quella di School of Rock, assolutamente perfetta per il pubblico italiano, poiché capace di trasformare un intero teatro in una scuola per passato e futuro. 

Siamo tutti inevitabilmente alunni quando si tratta di imparare dai nostri errori e quei ragazzi la, sul palco, sono insegnanti pronti a gridare che niente e nessuno deve frapporsi tra loro e la realizzazione di un sogno.

Il rock è una filosofia, uno stile di vita, questo spettacolo lo racconta perfettamente” afferma Lillo “Dewey non vuole proprio diventare una rock star, vuole solo essere libero di vivere rock. Il rock è farsi sentire, non abbassare la testa, è musica legata alla ribellione. Sono proprio i volumi alti del rock che ti portano a dire “Ascoltami!”, che è quello che vogliono i bambini della storia. Il rock è stato fondamentale per generazioni.”

Si percepisce fortemente, da parte di School of Rock e di quello che rappresenta, la grande volontà di trasmettere un messaggio potente a quei genitori che non trovano nella strada del musicista o del performer una valida alternativa a qualsiasi altro lavoro per il proprio figlio, perché di questo stiamo parlando. 

In Italia una carriera nel mondo dello spettacolo è troppo spesso sminuita, derisa, molto di più che nel resto del mondo, vi assicuro. 

Il pubblico italiano è così rapito da School of Rock perché tocca le corde giuste. Ci sentiamo chiamati in causa, proviamo empatia, ci affezioniamo e, alla fine, la speranza prende piede, rimanendoci aggrappata anche usciti da teatro, nonchè nei giorni successivi, mettendo profonde radici.

Ho passato il post show dietro le quinte con i ragazzi del cast ed è stato incredibile rendersi conto della devozione dei genitori (quelli veri) per la passione e la professionalità dei loro figli. 

 

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Questa sono io nel dietro le quinte con il cast.

 

Questo, è il caso di dirlo, è quello che vogliamo per le generazioni future: un mondo dello spettacolo sostenuto dalla società, un mondo dove gli artisti, quelli veri, avrebbero la possibilità di trovare la loro strada, senza il costante timore d’essere sottovalutati, maltrattati e di non essere ascoltati. 

La pagella di School of Rock è piena di bei voti, non perdetevi le prossime date!

Valentina Gessaroli

Hokusai Hiroshige: Oltre l’Onda

• Il fascino dell’Oriente da Debussy ai Cavalieri Jedi •

 

Immaginate per un attimo, nei panni di un artista europeo del 1867, di attraversare i grandi cancelli dell’Esposizione Universale di Parigi. In questa edizione gli argomenti trattati sono l’agricoltura, l’industria e le arti.

A costo d’essere scontati, entrando, cercherete con lo sguardo l’area dedicata alle avanguardie artistiche. Incuriositi dal padiglione del Giappone ne varcherete la soglia ignari che, di lì a poco, sarete inondati da qualcosa che cambierà per sempre il modo in cui l’occidentale concepisce l’arte.

Alzando gli occhi li sgranerete entrando in contatto con qualcosa di così extraterrestre, da farvi sentire insieme spaventati e meravigliati: le stampe giapponesi, pregne di un fascino tanto ignoto e misterioso, conquistano immediatamente i nostri cuori e le nostre menti avide di sconosciuto.

 

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Katsushika Hokusai, “Vento del Sud, Cielo sereno” anche noto come “Fuji Rosso” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

 

In occidente, vi assicuro, nulla del genere si era mai visto poiché il Giappone, per preservare la sua identità, fino a quel momento visse nel più totale isolamento.

Uno tsunami incontrollabile svegliò voci nascoste nei cuori degli artisti; la rivoluzione creativa fu inevitabile e da questa nacque quel pregevole dono per il quale saremo per sempre debitori all’Oriente: l’Art Nouveau.

 

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Manifesto dell’Esposizione Universale di Torino del 1902

 

Oggi, nel 2019, dopo secoli di conoscenza ed istruzione, ciò che noi europei potremmo provare davanti alle opere giapponesi dovrebbe tradursi in un sentimento edulcorato e sbiadito.

Invece, entrando nel Museo Civico Archeologico di Bologna, ci ritroviamo tutti con le mani appoggiate sul viso e gli occhi sgranati, mentre ci godiamo quella sensazione aliena che proviamo noi occidentali quando si tratta d’Oriente.

Questa roba fa paura, giuro, perché vorresti capirla anzi, credi di capirla ma non è così, non è possibile, è di un altro pianeta. E questo, irrimediabilmente, ci attira spaventandoci ora come 150 anni fa. 

 

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Katsushika Hokusai, “Kajikazawa nella provincia Kai”, dalla serie “Le Trentasei vedute del Monte Fuji”.

 

La mostra  Hokusai Hiroshige – Oltre l’Onda si fa traghettatrice di un viaggio attraverso l’arte della stampa giapponese, arte che necessita di una disciplina ed di una concentrazione unica.

L’allestimento è davvero intelligente, non solo perché finalizzato alla comprensione dei due maestri dell’arte Ukiyo-e, ma perché porta il pubblico a confrontarne le opere, individuandone sì le uguaglianze e le differenze, ma anche le motivazioni che hanno portato ad esse. 

 

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Utagawa Hiroshige, “Ōhashi. Acquazzone ad Atake” dalla serie “Cento vedute di luoghi celebri di Edo”.

 

Ma che cos’è l’arte Ukiyo-e? Letteralmente il termine significa “dipinto del mondo fluttuante” e per i buddisti rappresenta la fugacità e la precarietà delle cose terrene, dalla quale il saggio doveva allontanarsi il più possibile.

Nel Seicento il significato del termine venne rovesciato poiché furono proprio quei desideri effimeri e fluttuanti a rendere preziosa la vita terrena.

La pittura giapponese, infatti, era fatta di attimi fuggenti: immobilizzava con strumenti inspiegabili un istante nel tempo e nello spazio, rendendolo eterno, evanescente e fluttuante.

Il più grande maestro che l’Ukiyo-e conobbe fu Katsushika Hokusai (1760-1849) che definì se stesso “solo un vecchio pazzo per l’arte”. Anche noi siamo pazzi per l’arte, la sua. 

 

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Katsushika Hokusai, “Nakahara nella provincia di Sagami” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

 

Nelle sue opere il maestro riesce a creare qualcosa di eccezionale e mai scontato, nonostante lo schema sia sempre il medesimo: in primo piano la vita quotidiana dell’uomo, sullo sfondo la natura potente e spaventosa, seppur spesso silente ed addormentata.

La mostra, dopo averci presentato Hokusai e le sue trentasei vedute del monte Fuji, ci guida davanti alla vera protagonista dell’esposizione: La Grande Onda presso la costa di Kanagawa.

 

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Katsushika Hokusai, “La [grande] onda presso la costa di Kanagawa”, dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

Una giornata, per ammirarla, non sarebbe bastata.

Per quanto possa essere minacciosa la natura per Hokusai, rappresenterà sempre l’armonia, la pace e l’eterna costante dell’uomo.

Il sentirsi impotenti davanti alla furia della natura, secondo la filosofia giapponese, è una certezza rassicurante. Accanto a lei, in una teca gemella, troviamo una stampa del più giovane Utagawa Hiroshige (17731829) che rappresenta un’onda ispirata a quella del grande maestro Hokusai, chiamata Il Mare a Satta nella provincia di Suruga.

L’Onda di Hokusai, a differenza di quella di Hiroshige, urla, ruggisce e assale le fragili navi con i suoi schiumosi artigli di drago, creando uno spettacolo drammatico. 

 

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Utagawa Hiroshige, “Il mare di Satta nella provincia di Suruga” dalla serie “Trentasei vedute del Fuji”.

 

L’Onda di Hiroshige, invece, capovolge l’inquadratura portando l’umano sullo sfondo ed il mare in primo piano.

Rappresenta una natura pacifica e materna, nella quale le navi viaggiano serene dove il pericolo è lontano. Entrambi gli artisti, inconsapevolmente, aprirono la strada all’invenzione dei celebri manga giapponesi.

Hiroshige si lasciò influenzare dall’arte occidentale, abbandonò la concezione d’istante fluttuante ed immobile di Hokusai, destando i suoi soggetti, animandoli, rendendoli gioviali ed espressivi, in stampe che paiono appena uscite dagli studi di Hayao Miyazaki.

All’Occidente Hokusai regalò, Hiroshige rubò. In più, è evidente che l’avvento della fotografia colpì fortemente il giovane artista, e lo si legge nelle splendide stampe che trasforma in profonde inquadrature fotografiche. 

Dopo aver sconvolto i sentimenti di Monet, la tecnica di Van Gogh ed il tratto di Degas, l’arte giapponese proseguì la corsa alla conquista del cuore occidentale. 

Anche la musica, arte sempre assetata d’influenze, si fece sedurre dal Giappone in una danza misteriosa e fluttuante.

L’amante più devoto fu Claude Debussy, che rimase tanto coinvolto dalla visione de La Grande Onda di Hokusai da comporre, nel 1905, un’incantevole raccolta di schizzi sinfonici a lei dedicata: la celebre Le Mèr. Sulla copertina della prima edizione, per sua scelta, volle proprio l’immagine de La Grande Onda. 

“La musica è un’arte molto giovane, sia nei suoi mezzi, sia per la conoscenza che ne abbiamo”, disse Debussy al suo editore dopo aver compreso quanto basti poco per cambiare irreparabilmente il  modo di vivere le piccole e grandi cose.

Dopo di lui tantissimi musicisti cavalcarono quell’Onda misteriosa, come Igor Stravinsky e Maurice Ravel, lasciandosi trascinare in un mare di profondi gorghi, di misticismo e di tensione.

Giacomo Puccini scelse di rappresentare in musica la storia di Madama Butterfly, una delle opere ancora oggi più famose, proprio perché come ogni altro artista del tempo era desideroso di toccare e plasmare la cultura giapponese, come argilla tra le sue mani.

Attraversando la classica e quella jazz, ancora oggi la musica occidentale porta i segni dorati delle influenze orientali che, inconsapevolmente, peschiamo in grande quantità anche nella cultura popolare.

Basti pensare al wagneriano John Williams che, dopo 50 anni di carriera hollywoodiana, si lascia ancora influenzare da Debussy e, indirettamente, dall’Ukiyo-e.

Per la colonna sonora della saga di Guerre Stellari, sua figlia prediletta, ha scelto quelle atmosfere ascetiche e vaporose tipiche della musica e della filosofia giapponese. Sulle dune di Tatooine o circondati dai Jawa, è inevitabile sentirne la presenza, il profumo, il tocco. 

 

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Utagawa Hiroshige e Utagawa Kunisada I, “Veduta con la neve”.

 

La verità è che molto dell’iconica saga di George Lucas abbraccia caldamente l’Oriente. In fondo, cos’è la filosofia dell’Ukyio-e, se non qualcosa di incredibilmente rassomigliante alla filosofia dei Cavalieri Jedi?

Valentina Gessaroli

Il surrealismo di Lee Miller “in mostra” e sul palco

Marzo è il mese delle donne e anche nella sezione artistica di Vez abbiamo pensato di rendere omaggio a una figura femminile che, grazie alla sua forza e alla sua determinazione, è riuscita a farsi notare in un mondo prevalentemente maschile.

Modella, musa, fotografa e inviata: stiamo parlando di Lee Miller una donna che ha fatto la storia.

La sua infanzia fu tutt’altro che felice: in tenera età subì uno stupro da parte di un amico di famiglia ma, questo traumatico evento, non fermò la sua ascesa verso il successo. Sapeva cosa voleva e sapeva come ottenerlo.

Inizia la sua carriera a 19 anni quando Condé Nast in persona la nota e, folgorato dalla sua bellezza, la vuole tra le pagine delle sue riviste. E’ il 1927 quando fa la sua prima apparizione sulla copertina di Vogue.

Spirito frizzante e intelligente la Miller lascia New York per trasferirsi in Europa dove studia arte e fotografia. Ma non vuole stare soltanto davanti all’obiettivo, vuole di più.

Grazie alla sua bellezza diventa musa di numerosi artisti tra i quali basta ricordare Pablo Picasso che la ritrasse in ben 6 opere. Ma il legame più importante che ebbe in questa prima fase europea è senza dubbio quello con Man Ray.

 

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Picasso, Hotel Vaste Horizon

© Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved. www.leemiller.co.uk

 

Inizialmente restio ad accettarla come allieva dovette ricredersi una volta scoperte le doti artistiche della donna. I due iniziarono un sodalizio artistico e personale che segnò le vite di entrambi. La loro relazione durò solo tre, intensi, anni e in questo periodo portarono avanti numerosi progetti e inoltre misero a punto la tecnica della solarizzazione fotografica.

Nel 1932, chiusa la storia con Ray, torna in patria, a New York, dove apre un suo studio fotografico in cui realizzerà per lo più ritratti.

Nel 1934 si sposa con Aziz Eloui Bey, un ricco egiziano, e si traferisce al Cairo. Qui si dedicherà alla fotografia scegliendo come soggetti le piramidi e il deserto, avvicinandosi così al reportage fotografico.

Nel 1937, durante un nuovo viaggio in Europa, conosce Roland Penrose pittore, storico e poeta che sarà uno dei maggiori esponenti del surrealismo britannico. I due iniziano a lavorare insieme ma presto il loro rapporto diventerà qualcosa di più: inizieranno una relazione che porterà la donna a lasciare il marito.

Nel 1939 Miller lascia l’Egitto per trasferirsi in pianta stabile a Londra.

Ma la pace e gli equilibri del mondo stanno per cambiare poiché il flagello della seconda guerra mondiale si sta per abbattere sul globo.

Il governo americano la rivorrebbe in patria ma la Miller non è avvezza a farsi dare ordini: ignorando i continui inviti dell’amministrazione Lee decide di rimanere nel capoluogo britannico.

Grazie alla sua testardaggine la Miller riuscirà ad essere accreditata, per Vogue, come corrispondente di guerra per gli stati Uniti. Un grande traguardo e un nodo cruciale per la sua carriera.

 

Copyright LeeMillerArchives Self portrait with headband New York USA c1932

Self portrait with headband, New York, USA, c1932

© Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved. www.leemiller.co.uk

 

I suoi lavori ci restituiscono uno spaccato della vita londinese durante gli anni del conflitto il tutto sotto un’ottica completamente nuova: grazie alle sue foto vediamo il modo da un punto di vista femminile.

Ma è nel 1944 che le cose cambiano e i suoi orizzonti si allargano: la Miller sarà l’unica fotografa a seguire gli alleati durante lo Sbarco in Normandia.

Dopo il D-day viaggerà per l’Europa seguendo l’esercito e scattando foto per documentare dei pezzi di storia. Collaborando con David Sherman, fotografo di Life, si spinse fino a Parigi e a Berlino e arrivò fino al campo di concentramento di Dachau dove documentò le condizioni dei reclusi.

Fu una delle poche persone ad entrare nelle stanze private di Hitler. Una delle foto più celebri che la ritraggono è sicuramente quella scattata da Sherman mentre si sta lavando nella vasca del Fuhrer. Ho fatto uno strano bagno quando mi sono lavata lo sporco del campo di concentramento di Dachau nella stessa vasca da bagno di Hitler a Monaco.

La guerra però fu un’esperienza dura e lasciò sulla donna un segno indelebile. A causa del trauma subito cadde in un forte stato depressivo da cui riuscì ad uscire soltanto con l’aiuto di Penrose e di altri amici, tra cui l’ex amante Man Ray.

 

Copyright LeeMillerArchives Nude bent forward thought to be Noma Rathner Paris France c1930

Nude bent forward [thought to be Noma Rathner], Paris, France, c1930

© Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved. www.leemiller.co.uk

 

La sua vita, intensa e fuori dagli schemi ha portato alla Miller una grande fama tanto che nel 2005 è diventata la protagonista di un musical di Broadway intitolato Six Pictures of Lee Miller.

Dal 14 marzo al 9 giugno 2019, al Palazzo Pallavicini di Bologna e curata da ONO Arte si terrà una mostra dedicata a questa grande donna dal titolo Surrealist Lee Miller.

La rassegna è composta da 101 scatti che ripercorrono l’intera carriera della fotografa: dagli esordi fino agli scatti bellici.

Preferisco fare una foto, che essere una foto, aveva dichiarato la Miller. Di foto ne ha realizzate parecchie e fare un salto a Bologna per conoscere il lavoro di questa donna, che non si è mai piegata davanti agli eventi, potrebbe essere una buona idea e anche una fonte d’ispirazione.

 

Laura Losi

Rimini, il Teatro Galli e la Carmen

Venerdì 4 gennaio, noi di VEZ Magazine siamo stati invitati per assistere alla data della Carmen, l’Opera lirica in quattro atti di Georges Bizet nel nuovo allestimento dell’Associazione Coro Lirico città di Rimini Amintore Galli al debutto sul palco del Teatro Galli il primo giorno di gennaio.

Una data aggiunta dopo il sold out della prima settimana di prevendite per le tre recite previste per martedì 1, giovedì 3 e sabato 5 gennaio.

Oltre 2000 biglietti venduti (circa 700 per ognuna delle tre recite previste), non solo ai tantissimi riminesi che in questi giorni hanno sfidato code e liste d’attesa, ma a tanti appassionati provenienti da diverse parti d’Italia e per lo più dalle città di Bologna, Ravenna, Milano e Firenze.

Occasione unica quindi per tutti, ma anche per noi per assistere al debutto del coro sul Palco fresco di restauro.

Una storia lunghissima quella del Teatro, che inizia nel 1841 con l’incarico al modenese Luigi Poletti (1792-1869) di progettare il teatro secondo il proprio stile neoclassico.

Nel 1843 iniziano i lavori con l’appaltatore Pietro Bellini di Rimini e si concludono nel 1846 le opere murarie. A causa di scarsità di fondi i lavori vengono abbandonati e poi ripresi nel 1854 terminando i lavori nel 1857 con l’inaugurazione della stagione lirica da parte di Giuseppe Verdi (unico caso in Italia) che presenta una nuova opera, l’Aroldo, composta appositamente.

Il teatro Galli infatti 15 maggio 1841, dopo una serie di progetti elaborati da professionisti locali, viene incaricato del progetto per la realizzazione del Nuovo Teatro di Rimini l’architetto Luigi Poletti di Modena (1792-1869), illustre esponente della professione legato alla scuola neoclassica purista romana, avendo studiato nella città eterna, ed elaborando un proprio linguaggio di superamento dello stile purista.

Nel 1859 il Teatro è dedicato a Vittorio Emanuele II.

 

A causa delle lesioni post terremoto del 1923, il teatro viene chiuso e durante i restauri viene installato un impianto elettrico ma nel 1943 a seguito di un bombardamento aereo crolla il tetto della sala.

Nel 1947 il Teatro, semidistrutto, è dedicato al musicista Amintore Galli (1845-1919), critico musicale e compositore famoso a livello nazionale e mondiale, per il successo del suo inno del lavoratore con il testo scritto da Filippo Turati.

Negli anni si susseguono varie iniziative e finanziamenti per la ristrutturazione del teatro grazie al Ministero dei Beni Culturali la Soprintendenza per i Beni Architettonici di Ravenna e al contributo economico della Regione Emilia-Romagna  – finanziamento Europeo POR FESR.

Nel 28 marzo 2015, conclusi i lavori di restauro iniziati nel 2010,  il Foyer viene consegnato alla città per essere utilizzato come contenitore culturale nell’attesa che si concluda la ricostruzione del Teatro Galli.

Il Teatro ‘Amintore Galli’ di Rimini torna ad alzare il suo sipario: a distanza di 27.333 giorni, 898 mesi, 75 anni il luogo della grande musica è stato restituito a Rimini e alla comunità riminese.

Prosegue quindi ora la prevendita dei biglietti con ulteriori 700 posti disponibili.

I costi dei biglietti vanno dai 10 ai 75 euro.

L’Opera, prodotta dall’associazione Coro Lirico città di Rimini Amintore Galli con il patrocinio e il contributo del Comune di Rimini, avrà la regia di Paolo Panizza e sarà diretta dal Maestro concertatore Massimo Taddia, con la Astral Music Symphony Orchestra delle Marche e il Coro Lirico città di Rimini Amintore Galli preparato dal M° Matteo Salvemini.

L’opera, nella versione originale francese, sarà sottotitolata in italiano.

I solisti

Carmen, Anastasia Boldyreva mezzosoprano; Don Josè, Giuseppe Varano tenore; Escamillo, Daniele Caputo baritono; Micaela, Paola Cigna soprano (1 -5 gennaio) Zeina Barhoum (3 gen) soprano; Frasquita, Elisa Luzi soprano; Mercedes, Laura Brioli mezzosoprano; El Dancairo, Giovanni Mazzei baritono; El Remendado, Roberto Carli tenore; Zuniga, Luca Gallo basso; Morales, Nico Mamone baritono; una venditrice di arance, Chiara Mazzei soprano; un soldato Leonardo Campo baritono; Lillas Pastià, Alessandro Semprini (voce recitante) uno zingaro Riccardo Lasi, una guida Luca Frambosi, Alcalde Giuseppe Lotti.

Con il corpo di ballo Future Company. Direttrice e coreografa Gabriella Graziano

Ballerini: Pietro Mazzotta, Marco Dalia, Alessandro Zavatta, Michela Amati, Elisa Amenta, Alessia Bernardi, Sara Fabbri, Martina Moro, Merilinda Pellegrini.  E il coro a voci bianche “Le Allegre Note” di Riccione. Maestro del coro Fabio Pecci.

 

Carmen Pubblicita

Andy Warhol e la musica al Complesso del Vittoriano

Vez Magazine è diventato grande.

Siamo partiti come un magazine musicale ma adesso, dopo aver festeggiato il nostro primo compleanno, abbiamo deciso che era arrivata l’ora di ampliare i nostri orizzonti. Non più solo musica quindi ma anche altre tematiche sono arrivate ad arricchire la nostra schermata.

Oggi inauguriamo la sezione dedicata all’arte e ho pensato di farlo con un’artista che ha influenzato pesantemente, il cinema, la cultura e, ovviamente, la musica.

Sto parlando di Andy Wharol, il papà della pop-art, che fino al 3 febbraio 2019 sarà il protagonista di una mostra al complesso del Vittoriano. L’esposizione, che conta 170 opere, ripercorre la sua carriera dagli esordi fino alle opere più mature.

Con oltre 170 opere, l’esposizione vuole riassumere l’incredibile vita di un personaggio che ha cambiato per sempre i connotati non solo del mondo dell’arte ma anche della musica, del cinema e della moda, tracciando un percorso nuovo e originale che ha stravolto in maniera radicale qualunque definizione estetica precedente.

Il percorso espositivo inizia con le principali icone che hanno condizionato il divenire dell’artista: la celebre Campbell’s Soup del 1969 e Ladies and Gentlemen (1975); i ritratti di grandi personaggi – alcuni dei quali mai incontrati – che da figure storiche ha trasformato in icone pop, come Marilyn (1967), Mao (1972) e gli stessi Self portrait.

Si prosegue evidenziando e affrontando il tema dei legami con la moda, anche in ambito italiano grazie ai ritratti di i Giorgio Armani (1981) e Regina Schrecker (1983).

Ma quali sono stai i rapporti di Wharol con la musica?

Forse non tutti sanno che la vita dell’artista di Pittsburgh si è intrecciata più volte con quella di grandi musicisti che amiamo e conosciamo bene.

A lui dobbiamo opere iconiche come la copertina di Sticky Fingers dei Rolling Stones, ma ha anche messo la sua firma su alcuni album di Aretha Franklin e John Lennon, per citare un paio di nomi.

 

 

wharol 1 bassaAndy Warhol

Mick Jagger, 1975

Serigrafia su carta, 110,5×73,7 cm

Collezione Jonathan Fabio, Agliana (PT)

© The Andy Warhol Foundation for the Visual

Arts Inc. by SIAE 2018 per A. Warhol

 

 

Ma nonostante queste collaborazioni il mondo della musica gli è grato, sopratutto, per il ruolo che ha rivestito nel portare al successo una delle band più famose ed iconiche che ha cambiato la faccia del rock negli anni ’60: I Velvet Underground.

L’incontro avvenuto nel 1966 segnò l’inizio della fortuna della band newyorkese e permise loro di fare il salto di qualità: da illustri
sconosciuti a rock-star.

Fu grazie a Warhol, che nel frattempo era diventato manager della band, che il gruppo si arricchì della presenza di Nico, modella e ragazza di Bryan Jones dei Rolling Stones.

 

wharol 2 bassaAndy Warhol

The Velvet Underground & Nico, 1967

Original LP

Collezione privata, Monaco (MC)

© The Andy Warhol Foundation for the Visual

Arts Inc. by SIAE 2018 per A. Warhol

 

 

Ma la sua influenza sul mondo della musica non si è fermata qui. Numerosi artisti hanno tratto ispirazione dal sua figura o dalla sua arte omaggiandolo nei loro testi; possiamo ricordare Andy Warhol di David Bowie, o Like a Rolling Stone di Bob Dylan che pare trarre spunto (ma potrebbe essere solo una legenda metropolita) da un triangolo amoroso tra Dylan, Warhol e Edie Sedgwick.

Se questo intricato rapporto tra arte e musica vi incuriosisce la mostra è pane per i vostri denti.

Attraverso le opere esposte, potrete tra le altre cose ammirare i ritratti di alcuni musicisti, avrete la possibilità di immergervi nel mondo colorato e fuori dagli schemi di questo artista a 360 gradi.

Warhol è stato un artista a tutto tondo che si è cimentato in tutti i campi dell’arte e questo è un po’ quello che vogliamo fare noi di Vez: perché arte, musica e vita sono tutte facce diverse della stessa medaglia.

E noi, nel nostro piccolo, ci siamo ripromessi di mostrarvene il più possibile.

 

Laura Losi