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Tag: billy corgan

Atum: A Rock Opera in Three Acts

Act Three: l’atto di fede.

Premetto che questa recensione sarà atipica rispetto a una di quelle con una struttura canonica, perché non c’è più molta necessità di presentare il gruppo né il progetto (leggi qui le recensioni di Act One e Act Two, NdR). Gli Smashing Pumpkins hanno pubblicato l’atto finale di un’opera quantomai attesa e discussa. Come il secondo atto ha avuto il sapore dolce amaro di L’amore ai tempi del colera, l’ultima parte di Atum: A Rock Opera in Three Acts non può fare altro che richiamare alla mia un’altra opera di Gabriel Garcia Marquez: Cronaca di una morte annunciata. L’associazione non riguarda i contenuti, quanto l’impressione che il terzo atto ricorda più il sospiro agonizzante di Santiago Nazar che non il seguito dei rimpianti Mellon Collie e Machina.

Ascoltare la conclusione di un progetto così ampio e coccolato dal suo creatore dovrebbe essere un momento di magica estasi per l’ascoltatore. Eppure, questo momento tanto aspettato, cercato, voluto non arriva mai. A partire dall’apertura con Sojourner fino a Of Wings si passa da brani come Pacer, Harmageddon e Cenotaph dove il titolo rimane più impresso della musica stessa. Si possono incontrare delle chitarre distorte in qua e là, dei violini, synth, strumenti che trasmettono solo l’idea di un lungo lamento. La sensazione è che la musica non esploda mai, che l’emozione non decolli, anzi che venga proprio schiacciata da qualcosa che non riesce a librarsi nelle note. L’atto è impregnato di un desiderio incompiuto, senza la vibrante sensazione che il desiderio stesso dà. Le canzoni sono sempre lì, sulla linea di partenza, e se questo poteva essere accettabile, anche se non scusabile, nel primo atto, nel terzo no, non lo è, mentre la voce di Corgan non basta più a lenire il dolore per un amore che si è rotto, anzi diventa a tratti fastidiosa perché butta solo sale su una ferita ormai aperta. Se poi queste undici tracce si ascoltano nell’insieme del progetto completo, la delusione aumenta, e l’affetto per chi ti ha regalato un’adolescenza piena di momenti che ancora senti sulla pelle è inutile. Possiamo dire che ci sono degli spunti qui, o in questa canzone là, oppure in quel passaggio dove la chitarra elettrica emerge, e così via. Io aggiungerei che ci mancherebbe altro che qualcosa non sappiano fare, perché queste osservazioni vanno bene per chi non ha esperienza e fa i primi passi, non per chi ha un posto importante nel panorama musicale. Ascoltando tutto il progetto ti chiedi, però, se forse le tue aspettative non sono troppo alte, se non riesci più a capirli e quella frequenza che loro avevano trovato con altri progetti ora non esiste più dentro di te. Tuttavia, quando ascoltare è più un atto di fede che non un piacere, allora qualcosa non va. Realizzi che l’affetto nato dalla nostalgia di un tempo che fu non basta, che il tempo è passato e non solo per te, che il tiro va aggiustato. 

Atum: A Rock Opera in Three Acts – Act III va ascoltato per realizzare che niente è per sempre, perché la vena creativa può esaurirsi come l’oro del Klondike, le storie di Happy Days, le gomme da masticare preferite al bar sotto casa. Tuttavia, esaurire questa vena non vuol dire essere destinati a sparire, bensì fare la scelta di Klimt, che quando capì di non poter più dare molto al mondo dell’arte decise di usare la sua fama e il suo intuito per scoprire e promuovere nuove correnti, nuovi artisti. Si può essere sempre presenti e importanti nel mondo che sentiamo nostro, solo che è possibile farlo in altro modo e gli applausi, poi, verranno da soli per ciò che si fa nel presente e non solo per uno sbiadito omaggio a ciò che è stato vivo nel passato. 

Smashing Pumpkins
Atum: A Rock Opera in Three Acts
Martha’s Music/Napalm Records

Alma Marlia

The Smashing Pumpkins “Atum: A Rock Opera in Three Acts” (Martha’s Music/Napalm Records, 2022)

Act Two: l’aspettativa dolce-amara dell’anima rock.

Solitamente una recensione si compone di tre parti: un preambolo per introdurre l’artista e il progetto, un corpo centrale per focalizzarsi su alcuni dettagli del progetto stesso e una chiusura dove si tirano le fila del tutto condite da qualche considerazione. L’occasione dell’uscita del secondo atto di Atum – A Rock Opera in Three Acts può farci saltare un’altra presentazione di un gruppo come gli Smashing Pumpkins, che si presentano da soli, e ci proibisce di volgere nuovamente lo sguardo ai nostalgici ricordi della gioventù in cui Mellon Collie and the Infinite Sadness faceva da colonna sonora a inquietudini adolescenziali. Un secondo atto è un passaggio tra un primo e un terzo, che può convincerci a restare all’ascolto, oppure ad abbandonare senza mezzi termini, ma sempre un passaggio è. Così sarà questa recensione. 

La band aveva definito Atum come il seguito di quel Mellon Collie ancora tatuato nella pelle di tante generazioni. E quando dici così a chi ha ancora voglia di provare certi brividi sonori, l’aspettativa che crei è talmente alta che corri il rischio di passare dai fremiti di piacere al freddo più intenso in un solo accordo. Così è ascoltare questa seconda parte. Non possiamo dire che non sappiano suonare, né che la voce di Corgan non ci provochi quella stretta allo stomaco che ancora c’era tempo fa. Potremmo dilungarci sulle atmosfere elettro wave di Neophyte oppure quelle industrial di Moss. Anche l’evoluzione dal pop alla dance di Every Morning potrebbe attirare la nostra attenzione, così come potremmo confrontarci con la chiusura acustica di Springtimes. Tuttavia, quello che pervade dall’inizio alla fine è quella sensazione dolceamara che prova l’anima in attesa da tempo di ciò che aveva desiderato, così attaccata al ricordo del tempo che fu da rimanere sorpresa quando si accorge che invece il tempo è passato, così come rimane stupito Florentino, protagonista di L’amore ai tempi del colera di G. G. Marquez quando dopo anni vede finalmente il seno di Fermina non più giovane, ma solo per quello che è: il seno di una donna invecchiata dal tempo. Si rimane incastrati nello stupore, comunque circondato dall’amore che porti nel cuore per chi le emozioni te le ha fatte provare davvero, eppure qualcosa ormai sembra non esserci più.  

Se nell’attesa siamo vissuti, nell’attesa ci troviamo, perché l’opera non è ancora conclusa. Le aspettative sembrano diametralmente opposte rispetto all’uscita del primo atto, i “se” si affollano nella mente, un po’ come quando si gira in moto e sei nel dubbio nell’affrontare o no una curva in un certo modo: quel dubbio contiene già la risposta. Rimane però il fatto che un’opera non può essere ascoltata solo in parte, perché è solo nella sua globalità che ha senso e parcellizzarla sarebbe tradire la musica stessa. Quindi non ci rimane che aspettare senza aspettarsi niente, e semplicemente continuare ad ascoltare. 

 

Smashing Pumpkins
Atum: A Rock Opera in Three Acts
Martha’s Music/Napalm Records

 

Alma Marlia

The Smashing Pumpkins “Atum: A Rock Opera in Three Acts” (Martha’s Music/Napalm Records, 2022)

Act One: emozioni contrastanti  per un’opera da ascoltare nella sua completezza

Per la mia generazione gli Smashing Pumpkins sono tante cose. Sono un gruppo musicale alternative rock nato nel 1988 che dagli Stati Uniti è esploso sulla scena mondiale con album come Siamese Dream e Mellon Collie and the Infinite Sadness. Sono quella vena di dolore e di tristezza trasformati in parole e musica che accoglievi a braccia aperte mentre tornavi da scuola, mentre eri con gli amici, oppure dentro la cameretta a sognare di essere grande, ma a percepirne anche tutta la difficoltà. Sono la fake news di Billy Corgan co-protagonista delle serie statunitense anni ’80 Super Vicky, la voglia dei molti fans di crederci, e la soddisfazione di altri quando ti svelavano la verità come se ti avessero detto che Babbo Natale non esisteva. Ma gli Smashing Pumpkins sono soprattuto la voce di Corgan, che passava per la tua pelle e si insinuava nei tuoi pensieri per farti gridare con Bullet with Butterfly Wings che nonostante la tua rabbia, eri ancora un ratto in gabbia, o per cantare Landslide dei Fleetwood Mac in modo così dannatamente struggente da farti sentire nudo in mezzo al mondo, con il viso rigato di lacrime. 

Ed è quella voce che, come una freccia scoccata dal passato, arriva al nostro presente attraverso il primo atto di Atum: A Rock Opera in Three Acts, il nuovo progetto composto da 3 parti con uscite programmate anche per il 31 gennaio e il 23 aprile 2023.  Ma il passato rimane il passato e per quanto la voce di Corgan emozioni l’ascoltatore come sempre, la band non ha più voglia di manifestare la rabbia e la tristezza attraverso il sound che li ha caratterizzati e resi iconici per un’intera generazione, perdendo un po’ di mordente e adagiandosi in un uso forse eccessivo dei synth per tutto l’album, creando a volte atmosfere gigionescamente rarefatte, altre troppo rivolte a un vecchio pop. Se la strumentale title track propone sei corde elettriche distorte e ci anticipa sonorità sintetiche, questi suoni si propagano nell’album un po’ come onde non sempre ben distribuite, tanto da farsi poco amalgamate come in Hooray, mentre una canzone come Hooligan ha contrasti ritmici interessanti che però non riescono a svilupparsi e combinarsi in modo accurato. In Butterfly Suite, le variazioni che scaturiscono in un bridge, riportano il brano da un’inziale incertezza a una buona tenuta, anche sono proprio queste difformità che caratterizzano tutto l’album che rendono perplessi al primo ascolto. Un ascolto orfano del singolo Beguiled uscito a settembre con una buona accoglienza del pubblico. Un ascolto che in Steps in Time e The Good in Goodbye trova echi di riff potenti del passato e chitarre elettriche incisive che confermano il carattere della band e suggeriscono che forse non finisce tutto lì, anche se in fin dei conti lo sappiamo già, perché l’opera deve essere completata degli altri due atti per capire in pieno il progetto finale. 

Mentre Atum: A Rock Opera in Three Acts si muove nell’ascolto digitale, il web esplode in opinioni di chi li preferiva agli esordi, e chi ci vede una protesi di Cyr, tra synth che spadroneggiano su canzoni prive di personalità. Non possiamo negare che il primo atto del progetto lascia perplessi, eppure si percepiscono tracce di un gruppo che ha ancora da dire e, in alcuni momenti, ti chiedi se è vero oppure se nel tuo cuore si nasconde una sorta di riconoscenza emotiva per chi ti ha fatto provare alcune tra le più belle sensazioni della tua giovinezza. Le domande si affollano nella mente e sgomitano per farsi spazio in un crogiuolo di ricordi ed emozioni, mentre nel sottofondo riecheggia quella forte chitarra elettrica che ti chiede di aspettare fino alla fine per capire cosa voglia dire quest’opera, perché potrebbe ancora sorprenderti. Fiducia mal riposta? Lo scopriremo solo ascoltando.

 

Smashing Pumpkins
Atum: A Rock Opera in Three Acts
Martha’s Music/Napalm Records

 

Alma Marlia

ReCover #1 – The Smashing Pumpkins “Mellon Collie and the Infinite Sadness”

• Un’anti-recensione •

 

Non avevo mai ascoltato interamente Mellon Collie and the Infinite Sadness, e a dirla tutta gli Smashing Pumpkins non sono mai stati nella rosa delle mie band preferite, per cui quando mi venne proposto di illustrare quest’album la presi come una sfida verso l’ignoto: certo, conoscevo le canzoni più famose del gruppo, ma non li avevo mai approfonditi più di tanto. E così, conquistata dal booklet e dalla figura femminile in copertina iniziai ad immergermi nell’universo di Mellon Collie.
In realtà mi ci sono proprio tuffata di testa, taccuino alla mano, ascoltando di fila tutti e ventotto i pezzi del doppio album, e da subito mi resi conto di quanto sarebbe stato complesso e al contempo elettrizzante cercare di racchiudere il tutto in una sola illustrazione.

Ho impiegato giorni per inglobare ogni singola nota, ogni parola, emozione per riuscire poi a metabolizzare emotivamente e mentalmente l’abnorme quantità di materiale, rendendomi conto con mia grande sorpresa che questo mondo a me quasi sconosciuto in realtà già mi apparteneva. Il perché l’ho capito quando ho realizzato che la band è riuscita a raccontare un qualcosa di estremamente complesso come la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’età adulta, un qualcosa di così universale per cui mi son sentita trasportare indietro nel tempo, risucchiata in un vortice di rabbia e amore, disagio e desiderio, leggerezza e solitudine, luce e ombra. 

E ovviamente la malinconia, collante e chiave di lettura dell’intero album che ci viene suggerita dal gioco di parole del titolo.

Mellon Collie è un album pieno di dicotomie e contraddizioni stridenti, a partire dal concept che lo divide in due parti nette: Dawn to Dusk e Twilight to Starlight.

Per me è stato un viaggio a ritroso nei sentimenti provati a quell’età, un viaggio così denso da rendere semplice il processo di empatia con la me stessa di dieci anni fa, coi ragazzi che ascoltarono l’album nel ’95 (che ammetto di aver invidiato non poco) e quelli che ne godranno in futuro, tutti noi col cuore spezzato confortati dalla musica degli Smashing Pumpkins.

C’è chi ha definito quest’album inascoltabile tutto d’un fiato, troppo caotico e ambizioso per il suo cercare di toccare un’ampissima moltitudine di generi diversi.
Probabilmente invece, per il solo fatto di essere così ambizioso incarna uno spirito decadente, lo stesso di chi desidera lasciare un segno indelebile nella storia: un cuore pulsante che brucia di volontà di espressione. 

Billy Corgan parla ai suoi simili, a chi come lui vive immerso nei dualismi, in un caos di influssi sempre più complesso, in cui non si può fare a meno di assorbire tutto ed infine filtrarlo tramite il proprio io creativo.

È un processo assimilato dagli Smashing Pumpkins ma anche dall’illustratore John Craig, che nel creare il booklet ha attinto dalla storia dell’arte in maniera spudorata, rielaborando ogni elemento con gli stilemi del proprio tempo, come i colori estremamente saturi che contribuiscono a rendere il clima surreale, ma soprattutto l’influsso dirompente del kitsch.

Molti dei lavori di Craig hanno un aspetto vintage, e ciò non è un caso: l’artista collezionava vecchie foto e immagini che raccoglieva nel suo laboratorio, pronte per essere utilizzate alla prima occasione.
Quest’occasione sembrò arrivare proprio con Mellon Collie, sebbene Corgan non ne fosse convinto fin da subito: per la sua copertina voleva assolutamente un artista che dipingesse in stile vittoriano, per cui visionato il portfolio di Craig decise di continuare a cercare il candidato perfetto. 

Ma dopo che nessuno fu entusiasta degli altri candidati, Corgan si dovette ricredere e venne chiesto a Craig di occuparsi, inizialmente, solo dell’interno del booklet.
Nonostante questo, Corgan rimase dubbioso finché non vide il primo collage, i due bambini nel prato di papaveri, sicché convinse tutti ad affidare a Craig anche il progetto copertina.

La selezione degli elementi del collage è stata una collaborazione tra Corgan e Craig alla fine della quale si è giunti al risultato finale che tutti conosciamo: la figura femminile sulla stella.

L’immagine è apparentemente semplice, ma si tratta di un abile assemblaggio di vari elementi incastonati alla perfezione fra loro. 

Il viso della donna appartiene al dipinto La Fedeltà di Jean Baptiste Greuze, pittore francese del ‘700 famoso per le sue fanciulle rappresentate in un misto di innocenza ed erotismo.
Il corpo invece è stato preso dal celebre dipinto di Raffaello Santa Caterina d’Alessandria, e adattato alla perfezione al volto con un abile lavoro di scanner.
L’origine degli altri elementi, invece, è un po’ meno aulica: la stella proviene da una pubblicità di un whisky, mentre lo sfondo stellato è stato preso da un’enciclopedia per bambini.

È proprio questa mescolanza di elementi alti e bassi, provenienti da ambiti lontanissimi fra loro, che vanno a creare un’opera visivamente tanto ricca da esprimere quel gusto decadente che Corgan cercava nell’arte vittoriana, ma che è riuscito ad ottenere ugualmente grazie al genio creativo di Craig.

D’altronde l’arte non è altro che lo specchio della società: abbiamo un collage visivo per Craig e un collage musicale per gli Smashing Pumpkins, entrambi legati insieme dall’abbraccio dolce-amaro di Mellon Collie, a cui ho voluto rendere omaggio pensandola come protagonista dell’album, un po’ alter ego di chi ascolta, un po’ allegoria contemporanea della malinconia.

 

Opera senza titolo

 

Cinzia Moriana Veccia

Memories: The Smashing Pumpkins @ Unipol Arena

Ventanniprima.

Un anno fa, esattamente un anno fa, salivo in auto verso Bologna, per tornare a vedere un gruppo che ho amato e che amo, The Smashing Pumpkins. Dopo quel concerto sentii la necessità di fissare con le parole quanto avevo visto, vivevo l’urgenza di raccontare qualcosa di unico e meraviglioso. Fu un viaggio nella memoria, un’allucinazione collettiva di rara potenza e coerenza.

Questo è il racconto di come andò. 

Premessa uno. E’ successo a luglio con i Pearl Jam dopo il concerto di Roma. Ho avuto una epifania divina in quel pit, ma per loro è stato diverso, li seguo da sempre perché da sempre esistono, da sempre fanno musica e girano il mondo. Gli Smashing hanno quadrato il cerchio o, semplicemente, lo hanno chiuso, in un 2018 fatto di reminiscenze musicali dolcemente pesanti.

Premessa numero due. A Bologna ci sono andato con in volto l’espressione di chi sta per prendersi una pallonata in faccia. Occhi strizzati, denti di fuori, testa incassata e la perfetta, lucida consapevolezza che non sarà piacevole. Il web mi aveva annunciato un Corgan non esattamente in forma e la cancellazione dell’evento milanese mi aveva fatto tremare. E poi gli Smashing li avevo sentiti dal vivo nel 1998. Vent’anni prima.
Ventanniprima.
Allora la follia e il genio li aveva spinti a suonare l’intero Adore inedito davanti a un pubblico vagamente spiazzato. Poi fu delirio, ma loro, noi, eravamo più giovani, la rabbia era giustificata, la scena musicale era un’altra cosa. Avevamo perso Cobain, il mio amore per la Seattle musicale era cieco e totale.
Nella mia mappa musicale di allora, loro erano fuori dei confini delle categorie del catalogabile.  Mentre i Pearl Jam erano la colonna sonora della mia adolescenza (per altro mai terminata), perfetti nel venire incontro ai miei stati d’animo, a trovare parole dove servivano, a mostrarmi empatia e universalità, gli Smashing Pumpkins invece mi davano un pacchetto completo, definito, a fuoco, con confini visibili dati dal genio assoluto di Corgan. Era la coerenza musicale e di creazione a renderli un’isola. Passare da un genere all’altro non importava, era l’impronta in filigrana che li rendeva riconoscibili anche se avessero scritto musica da ascensore. Ero io che dovevo andargli incontro, c’era poca osmosi e sovrapposizione, ma erano un mondo troppo affascinante per non essere esplorato.
Ecco, con queste idee e con la faccia da pallonata giovedì sera, alle otto e mezza, entravo alla Unipol Arena. 

Il sogno inizia con un cielo nero, stelle. Arriva il camion dei gelati del video di Today. Così torna, sul mezzo che me li fece conoscere. E poi le grafiche di Mellon Collie che introducono una presentazione di tutta l’iconografia della band. Billy compare timido da una spaccatura tra i pannelli mobili.

In realtà entra prima il suo ego, seguito dal genio, infine un corpo. Per fortuna dotato di chitarra.

 

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Parte una Disarm che è un pugno nello stomaco per quanto è nuda e bella. Voce, chitarra e una mole di ricordi che al buio mi travolgono e che iniziano il subdolo piano di Billy: portarci tutti via, altro che pifferaio, questo ha messo su un caleidoscopio per quindicimila persone, tutte col naso all’insù, come fosse San Lorenzo.
Il camioncino di gelati mi porta la prima immagine della serata, inizia il viaggio.
Non ho mai avuto una soffitta, mi piacerebbe averla solo per andarci a rivedere, a toccare i miei ricordi. Quello stramaledetto camioncino di metallo, magari un po’ sverniciato, ma integro. Le foto di Billy bambino, odore di ginocchia, sangue e asfalto, oggetti antichi, con profumi e sapori di altri tempi, ma carichi di ricordi, madeleine tangibili. Era tutto in ordine nella soffitta degli Smashing, bisognava solo aver voglia di metterci un po’ le mani, dare una spolverata, bloccare lo sguardo e perdersi.
Quelle note, tra Rocket e Siva, si infilano come vapori, ci stiamo riallineando, nonostante li ascolti ancora spesso. E’ colpa dei live, penso, io che ormai gli album in studio faccio fatica a sentirli e dei Pearl Jam e di Springsteen scelgo le versioni live come potrei fare per buoni vini rossi.

Ma allora, dove cazzo siete stati tutto questo tempo, eh Billy?

Ma nello spazio, ovvio.

Dai, io credo nelle dissolvenze incrociate, anche meno palesi di quella storica osso-astronave di Kubrick. Il salto qua è da camioncino a razzo, non si sceglie Bowie solo perché Space Oddity poi la canti per quattro giorni di fila, io l’ho presa come ammissione di colpa. Billy è stato un po’ lassù, a guardarci da angoli unici e differenti. Poi, al momento giusto è tornato. E funziona, davvero tutto funziona, la mia faccia da pallonata si rilassa piano piano, sono rapito. Da un alieno.

E il concerto scivola via perfetto, loro sono eccezionali, non c’è polvere, ruggine o gusto di tappo in quello che sento. Solo un gran vino invecchiato egregiamente, un sound che ancora convince, una band con tre chitarre e un carillon.

Ma sono i video sopra il palco il secondo evento della serata. E’ uno spettacolo cui non avevo mai assistito, una sequenza di immagini, architetture, icone, ideogrammi, grafismi, tutti diversi ma coerenti, come se il discorso musicale si potesse intrecciare in quello visivo, come se la potenza dei due media si elevasse al quadrato in un gioco di richiami e rimandi. Ci ho visto di tutto lassù: LaChapelle, icone russe, miniature medievali, dolci di marzapane, processioni di paese, art nouveau, futurismo, cubismo, ci ho visto Murnau, Fritz Lang, Caligari, Melies (again again!).
Una wunderkammer più che una soffitta, che si arricchisce sempre più di reperti e di elementi. E’ un freak show,  ma soprattutto un monumentale culto della propria immagine, un Barnum dell’autoreferenzialità.
Corgan è parte di tutto questo, con cambi d’abito che neanche a Sanremo, con una presenza scenica incredibile. Non parla, mai. E più ci addentriamo nella pancia dello show, più scivoliamo su note e ricordi più lui diventa voce e icona. Finisce sullo schermo a fine concerto, come il golem, come in muto di Murnau. 

E poi c’è Porcelina a metà concerto. Ora, io non so se è stata una sensazione mia e solo mia, o se sia successo davvero, ma quella canzone, che nell’album già dura più di nove minuti, deve aver rapito quindicimila persone per una quarto d’ora buono. Prima di essere elevato a una forma di coscienza musicale superiore sono stato abbastanza lucido da buttare uno sguardo alla folla attorno a me. Ho compreso, con vent’anni di colpevole ritardo, che cosa raccontasse Bazin riguardo il fantasmagorico. E giuro mi son sempre chiesto perché Tonight tonight fosse un tributo a Melies. E invece eccolo. Come nell’83, a sei anni, davanti a Yoda: il sogno infantile e collettivo del cinema. Giovedì eravamo una massa di quarantenni con la mandibola spalancata davanti a uno spettacolo di una bellezza rara. E’ una fortuna essere stato lì perché non un filmato su YouTube restituirà l’hic et nunc dell’esperienza vissuta. E’ un viaggio a ritroso, nel protocinema, tra lanterne magiche, teatro delle ombre e caleidoscopi. 

Grotta, luce, Platone. Da Porcelina in avanti ho azzerato le mie relazioni sociali nel parterre. Li ho seguiti, mi sono rinnamorato, li ho maledetti per essere spariti così a lungo, li ho benedetti perché sono stati con me per più di tre ore, avevamo bisogno di guardarci di nuovo, e per bene, negli occhi.

 

Andrea Riscossa

The Smashing Pumpkins: una storia d’amore

Il primo amore non si scorda mai e il mio primo amore, musicalmente parlando, sono The Smashing Pumpkins.

Il primo vero momento significativo della nostra storia è nel 1998 con la pubblicazione di Adore. Ad essere sincera, non ricordo esattamente il momento del colpo di fulmine che ha iniziato il tutto, forse non c’è nemmeno stato, forse è stato un lento convergere verso questo gruppo che in un momento storico in cui il grunge era allo sbaraglio per la morte di Kurt Cobain e il brit pop non era nelle mie corde, The Smashing Pumpkins erano coloro che avevano qualcosa da dirmi, in cui riuscivo a riconoscermi.

Che cosa, di preciso, mi affascinasse così tanto della loro musica, non riesco ancora a razionalizzarlo dopo più di vent’anni di ascolto: in primis furono le atmosfere gotiche, graffianti e rabbiose del singolo Ava Adore, ma poi fu la dolcezza e la malinconia delle storie raccontate in punta di dita sul pianoforte che mi fecero innamorare.

Adore nel 1998 fu un album innovativo, coraggioso nella scelta di sopperire con synths e drum machines al temporaneo allontanamento del batterista Jimmy Chamberlin – tranne che per un brano, la toccante For Martha, in cui la batteria viene affidata a quel Matt Cameron di Soundgarden e Pearl Jam come a sottolineare che dopotutto l’animo grunge che aveva avviato il gruppo non è stato del tutto archiviato come “passato”.

Già l’anno prima i Radiohead avevano fatto da apripista ad una svolta elettronica nella produzione di un gruppo rock e critici ed ascoltatori avevano accolto Ok Computer osannandolo, mentre Adore provocò frattura tra la band e i fan e tra i fan e la critica. Il coraggio, il genio visionario ed imprevedibile di Billy Corgan non fu capito da chi si aspettava un altro Mellon Collie and the Infinite Sadness, ma per chi come me in quegli anni viveva l’inquietudine della fine dell’adolescenza e l’ansia dell’ingresso nell’età adulta, fu un posto sicuro dove andarsi a rifugiare.

Innamorarsi di un gruppo nel momento più controverso della sua produzione mi ha permesso di approcciarmi a tutto quello che venne prima in modo più critico, forse con meno aspettative, anche se dopotutto, di che aspettative stiamo parlando? Prima di Adore The Smashing Pumpkins erano un gruppo grunge rock, diamante grezzo, dopo Adore una gemma scintillante dalle molteplici sfaccettature, un diamante però, purtroppo, classificabile VS1: inclusioni molto piccole ma pur sempre difetti, che alla lunga si sarebbero tramutati nel disastro e dissoluzione della band come l’abbiamo conosciuta fino al 2000.

Ma torniamo alla nostra storia d’amore: Adore è stato l’innamoramento, Machina l’attesa del ritrovarsi di quando si vive una relazione a distanza ed il primo sentore dell’aspettativa delusa.

Non sono passati neanche due anni da Adore e siamo di fronte ad un nuovo cambio di stile, una ricerca di un’identità difficile da trovare: “Amore mio, sei cambiato, non ti riconosco più”. Da una parte l’hard rock graffiante del primo singolo The Everlasting Gaze strizzava l’occhio a chi amava The Smashing Pumpkins di Tales of a Scorched Earth, il secondo singolo Stand Inside Your Love cercava (e ci riusciva) di abbracciare gli animi decadenti che avevano amato Adore, mentre con Try Try Try si cercava una svolta pop che non è mai per fortuna veramente arrivata. Il risultato? Un guazzabuglio non del tutto convincente. Lo disse la critica, lo sapevano i fan, lo sentiva anche il gruppo che nel frattempo aveva ritrovato Jimmy Chamberlin ma aveva sostituito la bassista fondatrice D’Arcy con Melissa Auf Der Maur delle Hole.

Cosa succede quando uno dei due nella coppia è confuso e non sa più cosa vuole? Amaramente, ci si lascia. In questo caso, l’occasione fu il tour di addio alle scene.

 

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Era il 27 Settembre 2000, al palazzetto di Casalecchio di Reno a Bologna. Era il primo vero concerto che andavo a vedere in macchina da sola. Il biglietto, comprato in un torrido pomeriggio estivo post maturità con la mia migliore amica del liceo, era la materializzazione di un’impetuosa presa di coscienza della nostra nuova condizione di adulti, persone che possono prendere decisioni seguendo le loro passioni per fare esperienze. Quella sera per me fu un’esperienza musicale e di vita: il concerto prima, il fatto di dovermi arrangiare a compilare un modulo di constatazione amichevole per essere rimasta coinvolta in un tamponamento a catena in tangenziale poi.

Di quel concerto porto nel cuore immagini sfocate, ancora non avevo l’abitudine di portarmi una qualche sorta di macchina fotografica con me per aiutarmi a ricordare, ma sul palco The Smashing Pumpkins erano come nelle foto dei booklet degli album: i lunghi abiti neri, la presenza magnetica di Billy Corgan, giovane pelato e schivo, le canzoni che amavo e che speravo di ascoltare, dai singoli mainstream fino ad un paio di oscuri pezzi tratti da Machina II… ma uno su tutti è il ricordo di quella notte, l’ultimo bacio tra due amanti, una memoria così intensa da essere quasi tangibile: un pianoforte a coda sul palco, un fascio di luce che illumina Billy Corgan, Blank Page con i suoi rimpianti, fantasmi, un addio struggente, la speranza di un futuro comunque ancora tutto da scrivere.

Da lì a poco il gruppo si sciolse, ci perdemmo di vista per non trascinare una storia finita, ma non era facile riempire il vuoto lasciato dalla consapevolezza che non ci sarebbero più stati nuovi album e nuovi tour de The Smashing Pumpkins. Certo, nuovi gruppi stavano attirando la mia attenzione e stuzzicando il mio gusto musicale, ma come ogni volta che una storia d’amore si chiude, ci si riduce a guardare indietro ai ricordi, in questo caso ai dischi passati, finché al dispiacere di un futuro che non ci sarà si sostituisce il conforto di quello che c’è stato.

È nei primi anni 2000 quindi che riscopro e creo un legame fortissimo con Siamese Dream facendone la colonna sonora della preparazione all’esame di Analisi I, uno di quei rari album che sono perfetti così come sono, nella loro interezza e allo stesso tempo a livello di singolo brano.

La stessa cosa non mi sento di poter dire invece di quello che per l’opinione pubblica è il loro capolavoro, Mellon Collie and the Infinite Sadness: un’opera magna di due ore di musica ma a cui a distanza di tanti anni e tanti ascolti fatico a trovare un senso, una coerenza stilistica o un percorso concettuale che mi porti dall’intro al pianoforte del primo disco attraverso il picco compositivo di Tonight Tonight alla rabbia di Bullet with Butterfly Wings, dal divertissement di We Only Come Out at Night alle nuances hardcore della già menzionata Tales of a Scorched Earth. Se The Smashing Pumpkins ed io ci fossimo conosciuti nel 1995 invece che nel 1998 e Mellon Collie fosse stato il nostro primo appuntamento, sarebbe stata una di quelle serate in cui parli tanto ma superficialmente di tutto, scattano delle scintille, ci sono baci appassionati, ma poi ci si perde, ci si distrae e qualcosa non porta al secondo appuntamento.

Ad ogni modo, come dicevamo all’inizio, il primo amore non si dimentica mai e nel tempo capita di incontrarsi di nuovo, una visione sfuggente dall’altro lato della strada, un passante con il suo profumo che ti risucchia nel passato. Questi momenti sono stati i tentativi non troppo brillanti di Billy Corgan di riaccendere l’interesse per il suo gruppo con Zeitgeist e Teargarden by Kaleidyscope, passaggi sfuggenti di un’ombra che accarezza la pelle. Mancava qualcosa, mancava qualcuno, mancava il tocco di James Iha, silenzioso quanto incisivo ingranaggio per rendere il meccanismo di nuovo perfetto come una volta.

E poi succede un giorno, il 18 Ottobre 2018 alla vigilia del mio compleanno, che i pianeti si riallineano e il destino riporta me e The Smashing Pumpkins nel luogo in cui ci siamo salutati per l’ultima volta. Sono passati 18 anni, io sono cambiata, loro sono cambiati. Ci ritroviamo per tre ore di concerto in cui mi è passata davanti agli occhi la mia vita da adulta fino ad ora: mi sono rivista diciottenne davanti allo stesso palco, sicura della mia scelta per i cinque anni a venire di studi universitari. Un ricordo flash del 2007, io che esco dal mio primo appartamento in cui ho vissuto da sola, nel cuore di Capitol Hill a Seattle, e vado al negozio di dischi proprio attraversata la strada a comprare una copia di Zeitgeist a scatola chiusa, spaventata e allo stesso emozionata come quando si riceve un messaggio dal tuo ex che non senti da anni, solo per renderti conto che aveva sbagliato numero o che l’edizione speciale dell’album che avevi preso dallo scaffale era, per errore, senza cd. E poi gli anni di ricerca, scientifica, musicale e di vita, attraverso lavori, concerti e persone, accompagnata da nuovi amori, alcuni passeggeri altri più duraturi, fino a convergere di nuovo nello stesso tempo e luogo, a Bologna.

Tre ore catartiche, che sono state un pugno nello stomaco e una carezza, che mi hanno fatto svegliare e capire perché, incrociando lo sguardo limpido degli occhi senza età di Billy Corgan, in questi anni i tanti concerti dei Pearl Jam, gruppo su cui ho trasferito il mio amore più per la loro città di provenienza che per la loro musica, non sono mai riusciti ad emozionarmi fino in fondo come invece riescono The Smashing Pumpkins su un palco: perché il mio cuore non era con loro, perché la mia identità musicale non è rappresentata dai buoni senza macchia e senza paura, ma da un ribelle spavaldo che non ha paura di urlare al mondo, di farsi amare ed odiare in egual misura ed intensità, che oggi sa chi è e si vuole bene per la persona che è diventata, lui a 52 anni, io a quasi 38.

Da quella sera The Smashing Pumpkins ed io abbiamo ricominciato a frequentarci e a vederci più spesso per festival e concerti, come amici ora, che hanno condiviso una profonda passione in gioventù ma che sono cresciuti e che possono guardare al presente, al passato e al futuro con l’affettuosa serenità di chi sa che il primo amore ti accompagnerà sempre.

 

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Testo e Foto di Francesca Garattoni

 

Billy Corgan @ Spilla 2019

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• Billy Corgan •

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 Spilla 2019

Corte Mole Vanvitelliana (Ancona) // 30 Giugno 2019

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Sono le pareti pentagonali della Mole Vanvitelliana di Ancona ad ospitare, allo Spilla Festival, la penultima data del tour di Billy Corgan nel nostro paese. Un’isola architettonica costruita all’interno del porto, nel 1733, per adempiere a molteplici funzioni: lazzaretto di sanità pubblica, fortificazione a difesa del porto, deposito merci, protezione della banchina dalle onde. Un’eterogeneità di scopi a cui ho collegato, con un volo pindarico di immaginazione e nel tempo, tutti quegli spazi pubblici e/o privati da cui, nel periodo aureo degli anni Novanta, nascevano idee e rivoluzioni. Scantinati, garage, palestre dei licei, locali underground erano teatro di aggregazione, condivisione, ricerca di personalità attraverso un unico e potentissimo strumento: la musica.

Quelle sono le origini degli Smashing Pumpinks, band che ha consacrato Corgan come icona del rock mondiale e band dalla quale, oggi, di tanto in tanto, si congeda per omaggiare la sua carriera solista e, in particolare, il disco Ogilala, pubblicato nel 2017.

Ad accogliere l’artista c’è un parterre adulto e nostalgico di 1500 persone che, dopo l’apertura di Katie Cole, cantautrice country/rock australiana nonché bassista degli Smashing Pumpinks tra il 2015 e il 2016, acclama il protagonista con gran fermento. Ecco apparire sul palco William Patrick Corgan, avvolto nella sua aurea oscura, con una mise completamente nera e con una vistosa spilla sul colletto, come un amuleto a proteggere la voce. Lo show si apre con brani inediti, suonati in acustico, accompagnati solamente dalla cinque corde stellata e dal pianoforte. Una scelta coraggiosa, consapevole, volta a sottolineare l’impronta intimista che caratterizza il presente del musicista. Una scelta che, però, non stupisce i fan più esperti che commentano: <<Che cosa ti aspetti da uno che, al Firenze Rocks con gli Smashing, nonostante avesse soltanto 75 minuti a disposizione ha proposto due outtake di Zeitgeist (Francesco non potevo non citarti) >>. Dopo il duetto con Katie Cole in Buffalo Boy e Dance Hall, Corgan si scioglie un po’, ammira la bellezza della location, inizia a dialogare con il pubblico. Sedutosi al pianoforte, spiega: <<Questa è una canzone dedicata a mio figlio. Come nelle mie, anche nelle sue vene scorre sangue di origine in parte italiana>> – e conclude, scherzando – << Sapete che non è sempre così facile…!>>.

La solennità torna a far da padrona. La meravigliosa Aeronaut è eseguita in modo impeccabile. Esplode la vocalità accorata, toccante, a tratti nasale, disperatamente acida, acuta, da sempre suo tratto distintivo e elemento preponderante nei pezzi estratti da Ogilala che si susseguono, uno dopo l’altro. Half-life of an Autodidact è l’occasione per apprezzare la serenità raggiunta, finalmente, a 52 anni: <<Quando ero giovane, speravo di morire prima di invecchiare. Oggi, a questa età, posso solo dire che è una figata>>. Una piccola svista in The long goodbye è compensata dal coro della folla che continua, comunque, a cantare, ricevendo un cenno divertito di ringraziamento da Billy. Zowie, non dedicata a David Bowie ma un tributo al grande artista come tiene a precisare, rappresenta il brano di chiusura del primo set: <<Tra poco tornerò sul palco per la seconda parte, riservata alla colonna sonora del momento in cui avete perso la verginità, di quella volta in cui vi siete innamorati e di quando, invece, vi hanno spezzato il cuore>>.

La successiva sezione è, infatti, il tripudio dei brani più celebri degli Smashing Pumpinks. Si parte con Wound, per poi riconoscere subito le prime note di Thirty-Three, scesa direttamente dal cielo stellato di Mellon Collie and the Infinite Sadness. Occhi lucidi, commozione, abbracci in Tonight, Tonight e 1979, inni del ricordo dell’adolescenza, del vivere in equilibrio su un filo, tra una festa e l’altra, tra jeans e polvere, nella convinzione, nell’illusione che tutto quello non potesse avere fine. Una toccante versione di To Sheila sfuma negli accordi inconfondibili di Wish you were here dei Pink Floyd, mentre Disarm, che attendevo forse più di ogni altro brano, risuona tra il bianco e il nero dei tasti del pianoforte, come colonna sonora di rapporti burrascosi, di sorrisi che spezzano il fiato, di ferite e di demoni con il coltello fra i denti che passano da un cuore all’altro, da un’interiorità all’altra.

<<Questo è l’ultimo brano…poi dobbiamo salutarci>> – dichiara Corgan – <<Ma come fate a dire no! Non andate a lavorare domani?! Wow che bella nazione!… Invece io devo rientrare. Mi aspettano l’hotel e anche un po’ di droga>> – ride (sì, è stato capace anche di ridere!).

Today è il capolavoro che suggella e chiude una performance ricca di emozioni, indiscusso talento, conferme ma anche soprese e nuove scoperte su questo gigante della musica internazionale. La prova e riprova di essere, con altissima probabilità, il più geniale songwriter della sua epoca. L’interazione con i suoi sostenitori, da non dare mai per scontata. L’abbandono, in parte, di quell’aria autoreferenziale di cui si era circondato durante il corso della carriera. Il cinismo che diventa ironia. La dimostrazione che, nel tempo, grazie alla catarsi e all’effetto liberatorio della musica e della vita, l’inquietudine può trasformarsi in ispirazione, in motori artistici, in nuovi inizi. Certi spettri possono essere ammansiti, domati o semplicemente accettati per apprezzare l’oggi, il più bel giorno mai conosciuto.

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Laura Faccenda

Foto: Luca Ortolani

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The Smashing Pumpkins

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 • The Smashing Pumpkins •

 Unipol Arena – Bologna // 18 Ottobre 2018

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Ieri sera Gli SMASHING PUMPKINS hanno concluso il loro tour all’Unipol Arena di Bologna con 3 ore e 15 minuti di concerto.

Una scaletta che sarebbe stata riconoscibile anche da quelli un po’ meno fan di quello che sono io, che non potevo credere di essere realmente nello stesso posto di Billy Corgan.

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Gli Smashing Pumpkins hanno subito scaldato il pubblico con Disarm, una canzone che è quasi evocativa per i tempi in cui viviamo anche ora e lui ci spedisce subito un sorriso.
Non ho potuto fare in modo di non vedere una sorta di parallelismo in questa scelta come brano d’apertura.
Attorno a me il clima che si respira è proprio quello che mi sarei aspettata da un concerto di un gruppo come gli Smashing Pumpkins, che per lungo tempo hanno calcato le scene e hanno riunito sotto un genere particolare con una voce altrettanto originale, un pubblico sempre più eterogeneo.
Giovani, molto giovani, meno giovani (come noi) e pubblico di mezza età che cantavano e saltavano. Bellissimo.

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Billy corgan ha una voce che pare è rimasta tale e quale, delle chitarre e una batteria che non sembrano nemmeno suonati dal vivo.
Una scaletta che ancora adesso mi fa commuovere al solo pensiero, perché se già non avevo ricevuto una botta di emozioni tutte assieme con Disarm all’inizio, Billy ha pensato bene di incasellare una dopo l’altra canzoni come Tonight , Tonight, Today, la splendida e mia preferita 1979 e Ava Adore, tra gli altri.
Tre ore e un quarto quindi.
Un tempo davvero unico, trascorso con tutti i membri di VEZ Magazine.
Eravamo cinque realmente presenti, ma la nostra chat “aziendale” è stata ricca scatti e note audio. Per stare comunque tutti assieme.

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SETLIST:

Disarm

Rocket

Siva

Rhinoceros

Space Oddity
(David Bowie cover)

Drown

Zero

The Everlasting Gaze

Stand Inside Your Love

Thirty-Three

Eye

Soma

Blew Away

For Martha

To Sheila

Mayonaise

Porcelina of the Vast Oceans

Landslide
(Fleetwood Mac cover)

Tonight, Tonight

Stairway to Heaven
(Led Zeppelin cover)

Cherub Rock

1979

Ava Adore

Try, Try, Try

The Beginning Is the End Is the Beginning

Hummer

Today

Bullet With Butterfly Wings

Muzzle

Encore:
Silvery Sometimes (Ghosts)

Baby Mine
(Betty Noyes cover)

Foto per gentile concessione di Luigi Rizzo

Testo: Sara Alice Ceccarelli[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]