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Tag: Death Cab for Cutie

Death Cab for Cutie “Asphalt Meadows” (Atlantic Records, 2022)

I Death Cab for Cutie tornano nel loro venticinquesimo anno di attività con il decimo album Asphalt Meadows.

Il disco, scritto in periodo pandemico, è il risultato del lavoro solitario dei singoli musicisti che si ritrovano isolati a provare e riprovare le tracce fino ad arrivare al magico momento del ritrovarsi per registrare la stesura finale dell’opera, che viene descritta come “la nostra prova più affiatata da molto tempo a questa parte”.

Ben Gibbard, frontman della band, è lo stesso di sempre: la voce, inalterata, si mescola sempreverde e inconfondibile tra arpeggi, synth, suoni curati a livelli maniacale.

Gibbard, nonostante veterano del genere emo e un po’ nerd di cui i Death Cab sono stati pionieri in quel Pacific North West reduce dall’ondata del grunge degli anni ’90, non rinuncia a studiare nuovi suoni e melodie, in un mondo dove si pensa che ogni anfratto del suono sia già stato scoperto e finito.

L’album si apre con I Don’t Know How I Survive, brano che, nonostante l’andamento ridondante e pacato del main riff iniziale, descrive una scena di vita quotidiana molto comune per tanti di noi: un attacco di panico irrequieto, “Pacing across the room while she’s asleep / Tears raining down your cheeks / You’re trying to hold on.”
Il ritornello suggerisce la costante risposta di chi riesce a controllare questo angosciante stato d’animo e fisico, per cui ogni volta ci si rende conto come inconsapevolmente si sia sopravvissuti.

Proseguiamo con Roman Candles (uno tra i primi singoli estratti), che ricalca i passi del tipico brano emo, dove l’evidenza della realtà prende il sopravvento su aspettative e idee più astratte, dove l’amore, che viene solitamente mitizzato per essere perfetto ed eterno, si ritrova invece su un pianeta morente. È su questa desolazione che i Death Cab ci insegnano a lasciare andare tutto ciò che si è sempre cercato di trattenere.

Il disco spazia da sonorità indie pop al post punk della bellissima I Miss Strangers, fino al post-rock di Foxglove Through The Clearcut; non mancano brani in cui viene usato un tappeto di synth, che per chi conosce bene Gibbard, si riconosce la maestria dei giusti incastri dovuti alla poliedricità dell’artista maturata nel side project Postal Service.

Asphalt Meadows è la riconferma della band, una nuova tacchetta nella loro già conclamata carriera, e forse qualcosa di ancora più perfetto e raffinato rispetto agli ultimi due album pubblicati.
Mentre ascoltiamo questo disco, non possiamo non immaginarci un Seth Cohen (co protagonista nella fortunatissima serie O.C.), steso sul letto della sua dependance, a gustarsi ad occhi chiusi il nuovo album della sua band preferita.

 

Death Cab for Cutie
Asphalt Meadows
Atlantic Records

 

Roberto Mazza Antonov

Death Cab for Cutie @ VEGA, Copenhagen

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• Death Cab for Cutie •

Thank You For Today tour

 

VEGA (Copenhagen, DK) // 10 Febbraio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]È domenica, fuori piove da una settimana e sebbene il mio istinto mi spinga verso il divano, mi metto in macchina con due ore e mezza di strada davanti a me verso Copenhagen e verso i Death Cab for Cutie.

Il concerto si tiene nel blasonatissimo VEGA, locale della capitale danese di cui ho sempre sentito parlare ma che non avevo ancora avuto l’occasione di vedere con i miei occhi.

La sala grande è al primo piano di un edificio grigio, squadrato, con un’aria da periferia di città comunista pre-caduta del muro, atmosfera che in un certo qual modo si respira anche all’interno salendo le scale con i pavimenti chiari, la boiserie a listelli e il corrimano da palazzone anni ’50-’60: chiunque ha una zia o una nonna che vive in un condominio del genere e sa a cosa mi sto riferendo. Varcate le porte di quella che sembrava un’ambientazione al limite del modernariato insipido, la meraviglia di una sala tutta in legno, balconata intarsiata e lampadari vintage. Per dirla con le parole di Ben Gibbard, leader della band, “sembra di suonare dentro un pezzo di arredamento molto costoso”. 

Ad intrattenere il pubblico prima dei Death Cab, salgono sul palco The Beths, neozelandesi che fanno un rock tranquillo e carino, perfettamente adatto a distrarre il pubblico per una buona mezz’ora dalla noia dell’attesa.

Il palco si svuota dal guazzabuglio di strumenti che era per il set de The Beths per lasciare un ampio spazio circondato dalle postazioni per i cinque membri del gruppo: batteria, basso, microfono, chitarra, tastiere e un pianoforte. Un allestimento essenziale, come essenziali sono le luci che illuminano il concerto per tutta la sua durata: semplici, pulite, per non togliere attenzione alla musica.

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_single_image image=”11259″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Le 21:00 spaccate: I Dreamt We Spoke Again, tratta dall’ultimo Thank You For Today apre le danze.

Una delle prime cose che noto sono i segni del tempo addosso a tutti i membri del gruppo, eccetto Ben Gibbard: lui non solo non sembra affatto scalfito dagli anni di carriera e da una vita in tour, ma è pure migliorato! Sarà forse il fatto che non sta fermo un secondo, si muove, corre avanti e indietro sul palco, saltella, sembra che il suo corpo non riesca a contenere la musica che ha dentro.

Le canzoni scivolano una dopo l’altra senza il minimo attrito. Come un meccanismo ben oliato, la band sul palco infila brani dall’ultimo disco sapientemente integrati in una scaletta che copre la loro intera produzione discografica. Passiamo attraverso Kintsugi, Narrow Stairs, Transatlanticism, andando indietro nel tempo fino addirittura a quella perla che è Photobooth, tratta da The Forbidden Love EP del 2000, uno dei primi segnali che nel Pacific Northwest, sotto alle ceneri del grunge, ancora ardeva una fiammella di speranza musicale.

Se con i brani da Thank You For Today il pubblico è timido e rispettosamente silenzioso, con le hit storiche come What Sarah Said, o I Will Possess Your Heart la sala si riempie di cori improvvisati, talvolta stonati, espressione di una partecipazione genuina ed incontenibile come l’energia sprigionata sul palco.

Soul Meets Body chiude la parte principale del concerto e mi ritrovo a pensare, ascoltandola, quanto i Death Cab for Cutie attraverso la freschezza delle loro composizioni, cantino un aspetto di Seattle diverso, rispetto a quello che è giunto a noi attraverso il grunge.

Nelle canzoni dei Death Cab for Cutie, c’è la freschezza della vita all’aria aperta, i boschi, il sole brillante che si specchia nel blu del Pudget Sound, l’attitudine filo hipster di una città che vuole togliersi di dosso la nomea di essere grigia triste e piovosa, cantata per anni in ballate cupe, disagio generazionale e rock ribelle chiuso in piccoli locali scarsamente illuminati.

Ben Gibbard rientra in scena da solo, chitarra acustica in mano, ed è il momento per, a proposito di leggerezza e solarità, I Will Follow You Into The Dark, delicata, malinconica ballata.

Anche il resto della band ritorna sul palco e c’è ancora tempo per altri tre pezzi prima di congedarsi da un pubblico estremamente caloroso per essere scandinavo.

Transatlanticism chiude con il suo crescendo travolgente un impeccabile concerto durato due ore.

Fuori piove ancora, ma adesso, con la musica dei Death Cab nelle orecchie e nel cuore, non mi importa più: chiudo gli occhi e faccio finta di essere a Seattle.

 

Testo: Francesca Garattoni

Foto: Joseph Miller

 

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