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Tag: eddie vedder

Eddie Vedder “Earthling” (Seattle Surf/Republic Records, 2022)

Mi prenderò un paio di libertà.
Divido le righe a me concesse su questo album in due parti. Nella prima, da bravo lettore di cartelle stampa e storie precotte, si presenta il tutto. Le sane, basilari 5W che ogni articolo dovrebbe raccontare. Così abbiamo i fatti. Anche se, dopo vari ascolti, una domanda su tutte ha preso il sopravvento.

Sono stati giorni difficili, i giorni del Perché. Quindi la seconda parte, quella bisognosa di libertà, la chiameremo la parte del Perché.

Partiamo però dalle basi: Eddie Vedder esce con il suo terzo album solista, Earthling. Un album che di solista ha ben poco, in realtà, considerando che con lui ci sono l’amico di sempre Glen Hansard, il batterista dei Red Hot Chili Peppers, Chad Smith, Josh Klinghoffer, di recente reclutato anche dai Pearl Jam, l’ex Jane’s Addiction Chris Chaney, ed Andrew Watt, che il disco lo ha anche prodotto.
Siamo quindi molto lontani dal capolavoro del 2007, Into The Wild, o dallo sperimentale Ukulele Songs, datato 2011. Qui abbiamo una nuova band, un nuovo produttore (Watt ha nel suo curriculum nomi come Miley Cyrus, Justin Bieber e Post Malone) e tre collaborazioni con icone della musica contemporanea: Elton John, Stevie Wonder, Ringo Starr.
L’uscita del disco è stata anticipata da tre singoli: Long Way, The Haves e Brother the Cloud, mentre la band è già in tour negli USA per alcune date.
L’album è composto da tredici canzoni, ordinate come fossero eseguite live, con un Intro (Invincible) e una sorta di scaletta interna, che segue un climax che porta alle tracce conclusive con le collaborazioni citate poc’anzi e un ultimo brano in cui compare la voce del padre di Eddie Vedder e che porta al termine del disco-concerto.
Questi, più o meno, i fatti. Ora passerei volentieri a cosa è accaduto durante l’ascolto ossessivo e ripetuto del disco. Una serie di strane domande, di strani spettri e una affannosa ricerca di risposte.

Dentro di me da giorni convivono, discutono e si scontrano tre diversi e bizzarri personaggi. Sono fondamentalmente punti di vista, ma come in un Pirandello-bonsai hanno preso vita e quasi ci tengo a presentarveli.
Sono il sogno di una notte di mezzo inverno, figli della relazione che mi lega a Vedder. Anche se un po’ come negli amori dell’asilo, Lui, ancora, non lo sa. E forse andremo alle elementari e mai lo saprà, ma questa è un’altra storia.
Anzi, questa forse è proprio l’incipit della seconda parte di questo scritto.
La relazione che lega Lui a me, Vedder a chi lo ascolta, è sbilanciata e sbagliata. L’ho compreso nella mia ricerca di fonti che rispondessero ai tanti “perché” di questi giorni, e ho trovato spunti molto interessanti nell’intervista Vedder di David Marchese per il New York Times Magazine. Cito, in disordine sparso:

“Really all I can do is hope that other people appreciate the music that I like”.

“At least we’re not chasing anything”.

“A singer in a rock ’n’ roll band is not going to be able to reshape all the things that he’d like to”.

E chiudo con un tombale:
“Our job is not to make records that people like. Our job is to make the music that makes us feel proud”.

Ecco, il primo personaggio che mi saltella in testa è il Vedder cinquantenne. Una sua versione meno iconica, meno idealizzata, più onesta e forse con la pancetta. E ancora, mi permetto, in realtà quest’anno si va per i 58, ma pensare che il cantore della tua giovinezza va per i sessanta…. non sono pronto, davvero, chiedo scusa.
È nato leggendo e informandosi, cercando un nuovo sguardo per meglio comprendere un disco deludente ai primi ascolti, disperatamente cercando un fondo di oggettività.

Del secondo posso solo dirvi che l’oggettività non è il suo forte. Ha accolto Ukulele Songs come un’arditissima esplorazione etnomusicale, esulta qualunque cosa Vedder canti, fosse anche una cover dei Nickelback eseguita con una balalaica, l’ultimo concerto visto è sempre il migliore. Esiste, il personaggio intendo, solo per svolgere una funzione basilare: non riuscire ad ammettere una delusione. Perché Vedder, e così come lui qualunque cantante abbiamo mitizzato, sono diventati una funzione, un meccanismo pavloviano di piacere che se smontato, porta a una reazione da tossici.
“Se hai creato Into The Wild non puoi essere che un dio”. Errato, grazie per aver partecipato.

La nemesi di “numero due”, detto Eddie Pavlov, è il numero tre, che vanta un soprannome di tutto rispetto: l’ho chiamato Cristo si è fermato a Vitalogy (ma forse anche prima). Lui è quello che ha visto finire i Pearl Jam al terzo album. Tutto quello che è venuto dopo è figlio del Vedder-pensiero, è manierismo, è il fantasma della prima epifania divina del ’91. Stringo.

Numero tre pensa che Earthling sia un disco evitabile. Un lavoro inutile, un disco impacchettato da un produttore che non dovrebbe (potrebbe?) condividere un progetto con Vedder. Non riesce a credere di doversi ascoltare l’ assolo proto-punk dell’armonica di Stevie Wonder. Gli è sembrato addirittura di sentire un intro dei Prozac+ alla terza traccia. Si è divertito ad ascoltare The Dark mettendo in sincro il balletto di Springsteen di Dancing in The Dark. Andava a tempo anche Courteney Cox nonché il testo, un bignami della poetica springsteeniana.
In una moderna riedizione della Querelle des Anciens et des Modernes sarebbe partigiano della superiorità degli antichi, ma senza saper spiegare il perché.

Tra i tre è nata una dialettica. Un po’ come le fantomatiche liste dei pro e dei contro, con i radicali a duellare, mentre il Vedder-reale, quello che ha già risposto, attende sornione che la realtà prenda a sberle i fan del passato e gli yes-men.

Dipende da dove avete collocato la vostra asticella.
Da quanta fame avete e da quanto le vostre papille gustative si sono anestetizzate negli ultimi due anni.
Dipende dalla risposta onesta a una domanda onesta: tornerete ad ascoltarlo volentieri?

Ultimo pensiero. Questo è un disco di un Vedder che ha fatto pace col sé stesso di quarant’anni fa, che non ha più bisogno di distruggere il mondo, perché ha appreso il dialogo, e che ha trasformato Even Flow nella Vitalogy Foundation.
Calmato il proprio fanciullo interiore, ancora appeso a un traliccio del passato e registrati i confini della propria umanità, Eddie Vedder si è permesso il lusso di provare a realizzare un disco che piaccia innanzitutto a sé stesso.

Poi, sia chiaro, può rimanere solo un lusso.

E non piacere a nessuno.

 

Eddie Vedder

Earthling

Seattle Surf/Republic Records

 

Andrea Riscossa

Pearl Jam: l’amore rischioso per tutto ciò che è possibile

<< I Pearl Jam sono stati uno dei pochi gruppi con la resistenza fisica e le doti critiche e di autoanalisi necessarie a superare il momento di maggior successo e continuare a servire un pubblico che è in cerca di musica essenziale. E di se stesso >>. – Bruce Springsteen

 

Lo ammetto. Se avessi una macchina del tempo, non dubiterei nemmeno un secondo su quale periodo e su quale luogo scegliere come mete del mio viaggio. O permanenza, da inguaribile grungettona esistenzialista. Inizio anni Novanta. Seattle. La città dove lo Space Needle sembra toccare quel cielo spesso scuro, plumbeo, argentato di stelle del nord. Suona così, all’epoca, la musica. Dipinta di indaco, luminosa, melodrammatica, cinica e ironica, a volte. La rivoluzione che sta per esplodere risiede fra gli scatoloni dei garage in cui musicisti dai lunghi capelli si ritrovano per comporre, scrivere, creare, trovare una personale espressione. E ascoltare, soprattutto. Sentire musica e catturarla nel modo giusto.

Nell’autunno 1990, in una sala prove, avviene un incontro che profuma di miracolo. Stone Gossard e Jeff Ament, già conosciuti nell’ambiente per essere stati compagni di band nei Mother Love Bone di una gloria locale, il carismatico Andy Wood, morto a 24 anni di overdose, tentano di rimettere insieme i pezzi. Fanno circolare una cassetta con una demo, l’antenata Times of trouble e la futura Footsteps, che finisce nelle mani di un surfista e benzinaio di San Diego. Una voce sovraincisa, la voce che fa scoccare di nuovo la scintilla, fa credere di nuovo in un inizio. Eddie Vedder arriva a Seattle e vuole cominciare subito, mettersi alla prova, indossando la sua espressione stupita, dietro la chioma ondulata. Parla poco ma fa di tutto per diventare ingranaggio di quel mondo. << Ogni volta che Vedder tirava indietro i capelli e ti guardava con quegli occhi luccicanti e maliziosi…capivi >> – confessa il regista e storico amico Cameron Crowe – << Quel ragazzo condivideva lo stesso amore rischioso per tutto ciò che era possibile >>.

Da lì, nel giro di un anno, l’album di esordio, Ten, catapulta i Pearl Jam nel firmamento delle celebrità. Infiniti gli aneddoti, le avventure, le perdite, le esperienze, la fuga dalle luci della ribalta, il rifiuto di girare videoclip, la battaglia contro Ticketmaster, la tragedia di Roskilde, l’impegno nel sociale. Eddie Vedder fonda addirittura una radio indipendente da cui trasmette in diretta dal furgone che guida, da solo, mentre raggiunge i compagni che, invece, atterrano in aereo nelle località scelte per il tour di Vitalogy.

Ecco, non ricordo quanti anni fa, proprio alla radio di un’auto, stava girando un disco di colore rosso con una freccia nera rivolta verso l’alto. Un greatest hits, raccolta che di solito non compare mai tra i cd che colleziono. << Chi sono questi…? >>. << Dai… I Pearl Jam >>. È stato amore a primo ascolto, è stata magia. Una chiamata. È stato abbandonare quei sedili, scendere, per accettare un passaggio da sconosciuti. Un viaggio di sola andata, il cui diario di bordo si riempie di canzoni, versi, storie narrate e vissute. Da loro, da me. E poi attese, concerti, vicinanza, empatia, volume che scorre nelle vene, parole e simboli impressi sulla pelle.

I Pearl Jam non sono, infatti, soltanto quelli di Alive, di Even Flow, delle arrampicate e dei voli folli dalle americane, degli stadi sold out. I Pearl Jam sono anche, e soprattutto, il racconto di un percorso di evoluzione, in evoluzione. È arduo descrivere a parole il legame osmotico che mi connette a questi cinque artisti. Credo che chiunque mi osservi nel momento in cui ascolto la loro musica, capisca tutto dall’espressione dei miei occhi. Voglio provarci, però. In fondo, è stato concepito con tale intento l’articolo che sto scrivendo.

E lo voglio fare creando la mia personale playlist: un brano, per ogni disco pubblicato. Il mio brano “preferito”, o meglio, quello che per me ha rappresentato e rappresenta una chiave di lettura, in musica, di frangenti di esistenza. Un puzzle. Dei tasselli che, uniti con cura, disegnano l’immagine della band. Un invito, una scintilla di curiosità sia alla lettura che all’ascolto. Quindi… cuffie alla mano e alle orecchie. Si parte!

 

Pearl Jam 1

 

  • RELEASE (TEN, 1991): All’interno del dvd che celebra i vent’anni di carriera del gruppo di Seattle, Twenty, si assiste a una scena in bianco e nero. Una radura, un fuoco accesso, il tronco di un albero su cui è appoggiato il cantante. Come colonna sonora, un arpeggio iniziale. Sembra quasi il suono distratto di chi sta accordando uno strumento. In quella sala prove, dove tutto è iniziato, è stato scambiato proprio per una semplice successione di note. Una formula magica, però. Un mantra. La preghiera a cui viene affidata la liberazione dalla volontà di rivincita di Alive, dalla rabbia di Once, dalla solitudine di Deep, dalla sofferente conclusione di un amore di Black. << Una sera, mentre sedevamo a gambe incrociate a casa di un amico ascoltando cassette di Neil Young, Eddie mi ha raccontato la storia di quando ha scoperto che il suo padre biologico era un amico di famiglia che era morto >> – ricorda Crowe – << È stato un breve momento di riflessione malinconica da parte di Eddie, quasi la confessione dell’origine profonda della rabbia che si trova in certe sue canzoni >>. Con la figura paterna, evocata nella seconda strofa con l’informale “dad”, viene ricercato un contatto, un dialogo, una risoluzione dal dolore (I’ll hold the pain / Release me). Collocato in chiusura della setlist dell’album, Release è il primo brano del primo concerto, il 22 dicembre 1990, in apertura agli Alice in Chains all’Off Ramp Cafè, un bar per motocicliste nella capitale dello stato di Washington, lo stesso dove verranno girate alcuni frame del film, firmato proprio da Cameron Crowe, Singles – L’amore è un gioco. Il regista è presente quella sera assieme a Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora compagna di Chris Cornell, la quale ripercorre il clima di attesa prima che la nuova formazione di Jeff e Stone esordisse in scena: << Tutti erano nervosi. Volevano vedere la fenice alzarsi. Era quella la prima volta che molti fan avrebbero visto Eddie e si chiedevano chi fosse quel ragazzo, se fosse abbastanza in gamba per prendere il posto di Andy Wood >>. Continua Crowe: << La prima canzone che hanno fatto è stata Release. Ho guardato mia moglie Nancy e ho detto: “Quello è il ragazzo timido? Oh mio Dio”. Presto lo vedemmo dondolarsi dalle impalcature. In qualche modo fu una specie di finale per Eddie-il ragazzo dalla timidezza atroce >>. È un battesimo artistico ed umano. Una catarsi. La rielaborazione di lutti tanto personali quanto comuni. In molti lo accolgono fin dal primo momento; quasi nessuno, però, in platea sospetta la maestosità della fenice che sta rinascendo. Dopo il debutto, per ancora un po’ di tempo, i cinque continuano a girare con il nome Mookie Blaylock, in onore dello storico cestita dell’NBA. Dal giocatore viene anche il titolo Ten, dieci, come il numero della sua maglia. Tuttavia, con la firma del contratto discografico la band deve pensare a una ragione sociale priva di complicazione di diritti. Nessuna delle versioni sulla genesi di Pearl Jam sembra appurata con certezza. La parola ai diretti interessati: << La miglior giustificazione per il nostro nome sta nel riferimento alla perla stessa e al processo naturale da cui proviene: parte da scarti ed escrementi per diventare qualcosa di bello. È così che è iniziata la nostra band >>. (“Cultivate the Pearl” è la frase che accompagna il mio tatuaggio con lo stickman, simbolo identitario del gruppo).

 

  • INDIFFERENCE (VS., 1993): Al contrario di quanto possa far intendere il titolo, la traccia che chiude Vs. è tutt’altro che un’ode all’indifferenza. È il manifesto dell’indole dei Pearl Jam a dire la propria, a prendere una posizione nelle questioni sociali, politiche, umane. Non a caso, forse, quando viene scelta come brano finale di un concerto, la band rimane sul palco ma le luci sono già accese. È una liturgia: l’unico momento in cui, in oltre due ore, ci si riesce a guardare in faccia l’uno con l’altro, a lume di candela, di fiammifero. Affrontare. Seguire, come un manuale, le istruzioni indicate già dall’inizio. “I will light the match this morning, so I won’t be alone/ Watch as she lies silent, for soon light will be gone / I will stand arms outstretched, pretend I’m free to roam / I will make my way through one more day… in hell. How much difference does it make?” Che differenza fa? Me lo sono chiesta anche la scorsa estate, il 24 giugno, al termine del live allo Stadio Euganeo di Padova. Ogni volta, la risposta risiede in ognuna delle affermazioni, delle intenzioni, dei sentieri declinati al futuro che, verso dopo verso, si aprono con I will. Un invito a tenere accesa una scintilla, seppur impercettibile. Farsi strada anche attraverso le difficoltà. Stringere nel palmo di una mano il fuoco che alimenta la passione, fino a bruciarsi se necessario. Prendere pugni, fino a farli stancare. Fissare il sole, fino ad accecarsi. Ingoiare veleno, per diventarne immune. Urlare a pieni polmoni, riempendo i vuoti siderali dei silenzi. Fare la differenza. Essere la differenza, sempre.

 

  • NOTHINGMAN (VITALOGY, 1994): Tra i cattivi presagi, le figure sataniche, gli scarafaggi e i canti sciamanici che dominano le grigie atmosfere del terzo lavoro in studio dei Pearl Jam, appaiono due uomini. Il più conosciuto, alla traccia numero undici, è il Better man contro il quale sfocia la rabbia di Vedder adolescente, figlio e uomo che per anni ha visto una donna, Karen, imprigionata nella relazione con Peter, “il bastardo che ha sposato mia madre”, così presentato durante il concerto ad Atlanta nel 1993. Risalendo, fino al quinto titolo, ci si imbatte in un individuo meno definito, meno circoscritto a una identità. È un’ombra, i cui contorni assumono progressivamente il suono di un’interpretazione da brividi e la forma di una granitica consapevolezza: la fine di una storia d’amore. Sembra uno spin off di Black con lo stesso protagonista, ma adulto: anche lui ha perso tutto, i pensieri lo tormentano e vaga da solo. La discrepanza, probabilmente, è solo astrologica: nel capolavoro di Ten, la figura femminile è descritta con la metafora della stella, qui prima è comparata a un fulmine, poi al sole, alla luce, che, una volta persa, acceca e brucia. In senso di perdita in un ultimo volo, degno del mito di Icaro. << Nothingman è stata scritta in un’ora e per questo mi piace ascoltarla, perché ha catturato uno stato d’animo che c’era in quel momento, almeno per quanto riguarda la mia parte vocale >> – dichiara Vedder in un’intervista di quel periodo per il Los Angeles Times – << L’ho scritta prima di sposarmi (con la prima moglie Beth Liebling). Può essere che abbia messo qualcosa che so sulle relazioni ma è stata scritta pensando a qualcun altro che sta attraversando quella fase, qualcuno che ha mandato tutto a puttane. Io non ce le ho mandate. L’idea alla base è che se ami qualcuno e quel qualcuno ti ama, non devi mandarle a puttane, perché ti ritrovi a essere meno di niente. Le relazioni possono essere difficili. Ci sono delle volte in cui… la musica mi prende un sacco di tempo, spesso non dormo la notte; penso di essere una persona difficile con cui avere a che fare. Le cose sembrano non adeguarsi mai alla normalità e Beth si trova a dover affrontare tante cose. Non voglio entrare nel nostro privato ma a volte c’è della tensione. Immagino che a volte siamo tutti un po’ egoisti ma so per certo che senza di lei, io sarei un aquilone senza corda: un uomo da niente >>.

 

  • OFF HE GOES (NO CODE, 1996): Quando qualcuno mi pone la domanda da un milione di dollari su quale sia il mio album preferito della discografia, la prima copertina che visualizzo è il collage delle 144 polaroid di No Code. I pezzi che lo compongono sanciscono la differenza tra quello che i musicisti erano e quello che saranno. Un nuovo inizio artistico, senza regole precise, senza definizioni. L’unica decodificazione è il senso della freccia su cui corre la nostra esistenza: da sinistra a destra, in avanti. Il doloroso ma inevitabile passaggio alla vita da adulti è personificato dal protagonista di Off he goes. Un uomo dall’espressione tesa, sempre in movimento, come una motocicletta contro il più forte dei venti. Un insieme di caratteristiche nelle quali ho rintracciato, ad ogni ascolto, la mia incapacità di restare ferma, di voler vedere che cosa c’è al di là del limite, del farmi carico di situazioni fino a non riuscire più ad essere avvicinata. In realtà, come ha ammesso anche Bruce Springsteen, durante i suoi spettacoli a Broadway, in relazione alla volontà di andarsene lontani dai luoghi natali, alla fine è sempre lì che si torna. Il bagaglio si arricchisce e pesa così tanto di esperienze che, ad ogni ritorno, muta la modalità di vivere la dimensione familiare, le birre con gli amici, le persone di cui si è sentita la mancanza. E torna la voglia di andarsene, nuovamente. Per poter fare ritorno, in una spirale dall’andamento costante. “To go off” può anche non significare andarsene fisicamente, ma soltanto lasciarsi distrarre da preoccupazioni, “spegnersi”. << Salto fuori, chiedo se è tutto apposto e non mi faccio vedere per un po’ >> – confessa il frontman in merito al suo modo di concepire i rapporti con gli altri. Quante volte mi sono specchiata in quella frase, nel tentativo di un compromesso fra il desiderio di empatia e quello di solitudine. Un compromesso che, nel punto critico di crollo, Eddie ha abbracciato, suggerito e descritto nell’invocazione che chiude e compie il senso dell’intero disco: I’m open. La porta è ora aperta. Non per uscire ma per far entrare. “Sono aperto”, al contatto, al confronto, all’aiuto e alla rinnovata capacità di accogliere, di immaginare. Decidere di sognare se stessi, per se stessi. I’m open è una preghiera, una lettera a cuore aperto spedita senza il nominativo e l’indirizzo del destinatario. Afferma l’autore: << È come un mantra. Non so se riguardi la religione o una storia d’amore. Riguarda l’essere aperto a qualsiasi cosa ci sia là fuori. Come dire: “Sono qui, sto ascoltando” >>.

 

  • GIVEN TO FLY (YIELD, 1998): Nel documentario Single Video Theory, dedicato alla stesura di Yield, scorrendo le mani sul manico della chitarra e riproducendo l’incantesimo generato dall’accostarsi delle note introduttive, Mike McCready dichiara: << Questa canzone mi ricorda una specie di onda, inizia dal basso e poi cresce sempre più alta, sempre più grande. Viene fuori da un periodo in cui stavo finalmente rimettendo insieme la mia vita, dopo aver attraversato l’oscurità. Musicalmente, rappresenta una specie di risveglio per me, un periodo di rinnovamento, dove ho capito come tornare a vivere la mia vita. Ora che avevo le idee più chiare, mi venivano in mente questi spunto che avevano un che di celebrativo… ecco perché ci sono tutti questi picchi e queste discese>>. A Eddie Vedder è affidata, invece, la stesura del testo, i cui versi emanano la potenza evocativa di un racconto fantastico, di una fiaba, come la definì egli stesso. Tra realtà e fantasia, viene narrata la storia del riscatto di un uomo che, nonostante i colpi ricevuti, è destinato a volare alto, a compiere un’eroica missione d’amore. Tra realtà e fantasia, ciò che conta è il lieto fine. << La musica riesce a darti il senso del volo e mi piace davvero cantare la parte finale che parla del sollevarsi al di sopra di quello che dicono gli altri di te e continuare comunque a dare il tuo amore. Non finire amareggiato e solo, non condannare tutto il mondo per le azioni di pochi>>.

 

  • PARTING WAYS (BINAURAL, 2000): Lo spettro più spaventoso per chi vive della passione per la scrittura, per le parole, per la musica è il blocco creativo. Le ragioni per cui, talvolta, sopraggiunge la totale aridità di ispirazione possono essere molteplici. Le conseguenze, ancora più catastrofiche: << Può far diventare la tua relazione un inferno >>. Sono profondamente legata a questo pezzo proprio per il nodo che crea, o scioglie, tra il macrocosmo dei legami e quello della realizzazione artistica. Da una parte, ho sempre ammirato con quanto orgoglio, pudore e stoica malinconia sia dipinta la scena di un allontanamento che sfuma tra le note di un violino. Dall’altra, ricollego questo brano a un sussulto ben preciso che non dimenticherò mai. Mi trovavo a casa, da sola. Il lettore cd con Binaural, con gli ultimi minuti, con gli ultimi versi di Parting ways. Immersa nelle mie attività, non sono andata a stoppare. Ormai tutto taceva, ero ripiombata nel silenzio. Il trascorrere di qualche minuto ed ecco arrivare alle mie orecchie forse la più struggente ghost track che abbia mai ascoltato. Un ticchettio, il suono delle dita che premono sui tasti di una macchina da scrivere. È la macchina da scrivere di Eddie Vedder. Per una musa che se ne è andata, l’altra è ritornata. La fantasia, l’immaginazione. Nelle ultime pagine del booklet, è riportata la sigla J.F.M., “Just Fucking Music”. È “Solo Fottuta Musica” il motivo per cui la relazione di chi canta è andata in frantumi, è “Solo Fottuta Musica” l’unico frutto che volesse vedere nascere dalle sue dita. È “Solo Fottuta Musica” l’unica cosa a cui continuerà a dedicarsi, malgrado tutto.

 

Pearl Jam 2

 

  • THUMBING MY WAY (RIOCT ACT, 2002): Dal 2017 ad oggi, ogni qualvolta che nelle cuffie inizia a girare questo pezzo, scorgo davanti a me uno scenario preciso: il mare di notte, l’abbraccio di mura antiche, le luci violacee ad illuminare il Teatro Antico di Taormina. Ricordo nitidamente l’attacco della chitarra acustica, l’istante di magia che si crea quando si riconosce una canzone. La canzone che ha racchiuso il significato del live indimenticabile a cui ho assistito. Forse perché, quella sera, ero io ad indossare i panni logori dell’autostoppista esistenziale che cammina lungo le note e le parole di Thumbing my way. La decisione di partire, nel tentativo di lasciarsi alle spalle qualcosa, o qualcuno, per ripercorrere la strada verso il proprio paradiso. Un itinerario tutto in salita, con una valigia carica di ricordi, rimpianti, domande in sospeso. Un tunnel da attraversare, in inverno, che si affaccia su una nuova stagione, la primavera. Voler scegliere tra il bene e il male e non tra quello che è giusto o sbagliato. Non perdere la fiducia in chi si può incontrare nella via apparentemente deserta di ritorno al paradiso. Il/la protagonista deve trovare qualcuno che ce lo accompagni, anche per un tratto soltanto. Un’anticipazione della lezione, musicata da Vedder, appresa da Christopher McCandless al termine del suo viaggio Into the wild: la felicità è reale solo se condivisa.

 

  • INSIDE JOB (PEARL JAM, 2006): il brano in questione è il primo che porta il sigillo del chitarrista Mike McCready. I suoi fantasmagorici assoli diventano i reagenti perfetti per un esperimento tanto coraggioso quanto vitale: fare pace con il proprio passato, anziché continuare a fuggirne, con l’obiettivo di scendere alle radici di ciò che non lo rende ancora libero. La droga, l’alcool, la dipendenza come gabbie. L’inspirare e l’espirare insicurezza (“breathing insecurity out and in”), probabilmente origine del problema. Una parola chiave, per me, “insicurezza. Motore e sabotaggio, allo stesso tempo. E che cosa c’è oltre il velo nero del timore di non essere abbastanza? Oltre quel velo, c’è una scelta: How I choose to feel / Is how I am. Ho scelto di sentirmi per come sono. Essere come sono. Una forma mentis che deriva, unicamente, da un profondo lavoro interiore. << Buttare uno sguardo all’interno se non altro aiuta a cambiare te stesso >>. “Shining a human light”, brillare della propria umanità, dopo aver scoperto, o riscoperto, la più personale luce.

 

  • AMONGST THE WAVES (BACKSPACER, 2009): Sull’artwork di Backspacer, nell’angolo in basso a destra, tra gli altri “fumetti” che raffigurano la tracklist traccia per traccia, appare l’immagine di una donna a testa in giù. È immersa nell’ondeggiare dei flutti, che la avvolgono, la cullano, la completano quasi a trasformarsi nei suoi capelli. Tra le onde. Quello dei Pearl Jam con l’acqua, come elemento naturale, è un legame che è sempre esistito e si è evoluto e disteso nel tempo. Dall’onda di dolore da cavalcare di Release, al malinconico sentimento di distanza di Oceans, alla pioggia attraverso cui correre di Inside job, ora, finalmente, il “riding amongst the waves” rimanda alla grandissima passione di Eddie Vedder, il fare surf. Un collegamento che si è sviluppato seguendo le tappe della loro carriera, ripercorse, in metafora, nelle strofe della canzone. La musica pacata, all’inizio, con il mare solo leggermente ondulato. Dopo aver apprezzato il piccolo grande istante di respirare a pieni polmoni, in Just Breathe, ora, sulla battigia, ci si gode la calma dopo la tempesta. Condividendo quella serenità (“just you and me and nothing more”), ricordando da dove si è partiti, focalizzando il punto in cui si è arrivati. L’amore, che ha permesso di non annegare. Tuffarsi, senza troppi pensieri e cavalcare le onde: << Nel fare surf c’è sempre qualcosa di liberatorio. Mantenendo l’equilibrio, restando in piedi, apprendi di essere vivo >>. Il confronto con il mare, qui, non serve a ridimensionare l’uomo davanti all’inafferrabile, all’imprevedibile. Immergersi significa, piuttosto, restituirsi al posto a cui apparteniamo, un gesto di resa e rinascita insieme. Sentire di nuovo la forza dei raggi del sole che filtrano le nuvole, per sorridere. Recuperare tutta la voce necessaria ad urlare al mondo la bellezza della propria anima, tratta in salvo. Better loud than too late.

 

  • FUTURE DAYS (LIGHTNING BOLT, 2013): Qualche giorno fa, una persona mi ha scritto: << I Pearl Jam non azzeccano una ballata dal 2002 >>. Ho risposto: << Non so se riesco a reggere un’affermazione del genere >>. Ho percepito un senso di ingiustizia nei confronti di Future days, chiosa finale della discografia finora all’attivo della band. Con lo storico produttore Brendan O’Brien come ospite, al pianoforte, la canzone viene eseguita per la prima volta al Wrigley Fields, lo stadio dei Chicago Cubs, alla serata di apertura delle Baseball World Series nel luglio 2013. Un tempio sacro, quello, che i cinque giovani musicisti che avevano esordito all’Off Ramp Caffè di Seattle non avrebbero mai pensato di varcare. << Penso che sia uno di quei pezzi che farà piangere le persone >> – dice McCready – << Quando l’abbiamo suonata al Wrigley Fields mi sono sentito un tutt’uno con il pubblico >>. Se, infatti, tutti gli inguaribili romantici vorrebbero essere i destinatari di una dichiarazione d’amore così profonda e incondizionata, il significato racchiuso in questa dolce poesia è ben più ampio. Come sottolineo spesso, parlare di futuro è una scelta coraggiosa. Perché per guardare oltre, si deve prima metabolizzare, analizzare, accettare quello che è stato. Le porte in faccia, le parentesi buie, le cadute, le perdite: << Quando le grandi lenti della tragedia ti puntano, tu cambi. Diventi più empatico >> – spiega Eddie – << È anche questo che dice il disco. Non aspettare che la tragedia ti colpisca direttamente prima di capire cosa stanno passando gli altri >>. Perché per guardare oltre bisogna avere ferma fiducia in qualcosa. In questo caso, nel loro caso, nel mio caso, la musica. << Abbiamo cominciato a fare musica per soddisfare noi stessi. Credo che questo fosse il piano all’inizio. Quel che non avremmo mai immaginato è che tante persone avrebbero stretto amicizie, scambiato idee e condiviso la propria umanità attraverso la nostra musica >>. Da Release in poi, tutte le tracce di chiusura, come nel compimento di un cerchio, o meglio, nello slancio nella spirale, hanno gettato l’occhio a quello che sarebbe stato. In Future days, il potere salvifico sta nella capacità stessa di sperare un domani, di riuscire a scorgerlo, conoscendosi e riconoscendosi, ogni giorno, nel presente. Per dirlo con le parole, con la voce di chi ci ha accompagnato fin qui: << La cosa più importante è imparare a capire chi sei adesso, nel presente >>.

 

*BONUS TRACK. HUNGER STRIKE (TEMPLE OF THE DOG, 1990): Non mi dilungherò sul significato di questo capolavoro. Non è stato scritto dai Pearl Jam. Appartiene a una band che è durata il tempo di un disco, di un’opera d’arte: i Temple of the Dog. Il mio desiderio è solamente quello che, adesso, lo ascoltiate. Tanti i temi, attuali ora come allora: lo sguardo attento al mondo, la premura per i più deboli, la coscienza politica e sociale, il pensiero per qualcuno che se n’è andato e a cui sono state dedicate dodici melodie senza tempo. L’assonanza, nel ritornello, tra “I’m going hungry” e “I’m going angry”. La proclamazione di uno sciopero della fame, di un digiuno, di una protesta dietro la quale tutto era già scritto e tutto era ancora da scrivere. Due sono le voci. C’è il tono basso, solenne di Eddie Vedder. E poi c’è la potenza, l’anima, il grido, l’unicità di colui che è stato bandiera di quella rivoluzione. C’è un artista che, sabato 18 maggio, manca terribilmente da due anni. C’è l’Uomo a cui vorrei dedicare questo articolo. C’è Chris Cornell.

 

Laura Faccenda

Foto di Henry Ruggeri

 

Dave Orlando, i Pearl Jam e un po’ di Messico

Questa intervista nasce da un’idea condivisa. E da tanta empatia. Due elementi fondamentali per la riuscita di un progetto. Sì, perché dal momento in cui sono entrata a far parte del mondo di VEZ Magazine, il mondo di Vez Magazine si è intersecato alla perfezione con il mio, sfiorando con delicatezza anche le sfere più personali.

Lau, quando suona Dave a Rimini?” – mi disse Sara, direttrice della rivista e amica, un paio di settimane fa. “Venerdì 18 gennaio, all’Hobos”. “Ok, io e la Vali ci organizziamo per le foto, tu lo intervisti”.

È andata così.

Nella cornice di un locale che porta con sé il calore del Messico, l’entusiasmo dei leggendari avventurieri, il profumo del limone con la tequila, Dave Orlando ci ha presi per mano, accompagnandoci lungo un cammino musicale, tra i brani dei Pearl Jam, di Eddie Vedder e delle colonne sonore del film Into the Wild.

Non solo. Ha condiviso con il pubblico, con noi, uno dei suoi brani inediti, Il funambolo.

Abbiamo voluto approfondire…

 

Un brano con cui apri molto spesso i tuoi live è Off he goes, dei Pearl Jam. Una canzone in cui si racconta di un viaggio, di partenze, di ritorni, di cambiamenti. Dove ti ha condotto, ad oggi, la strada della musica?

Off he goes è un brano a cui sono particolarmente affezionato perché è sia complesso a livello musicale che a livello emotivo. Musicale perché non è facile da eseguire e l’ho preparato con grande impegno. Doveva venire in quel modo, secondo anche un po’ il mio perfezionismo nella musica.

Per quanto riguarda il significato, parla di un personaggio in cui ho rivisto sempre Eddie Vedder. Un uomo che lascia la sua città, gli affetti, la quotidianità per intraprendere questo viaggio lungo la strada della musica. Una volta tornato, si accorge di un profondo cambiamento. Nella canzone, in realtà, l’aspetto che più mi affascina è l’interpretazione, che rimane sospesa: è il mondo ad essere cambiato o è mutato il punto di vista del protagonista? È il protagonista ad essere cambiato, durante il viaggio.

Ecco, ho rivisto qui il mio percorso da quando mi sono dedicato completamente alla “vita musicale”: mi sono allontanato da una quotidianità che avevo vicina ed è cambiato proprio il mio modo di approcciarmi ad essa. Ho rinunciato a molte cose, tra cui, la più importante, il tempo. C’è un dispendio di energia enorme, sia sul palco che dietro le quinte diciamo. Io affronto tutto in modo viscerale, personale e tento di spiegarlo così, all’inizio di ogni serata. Con Off he goes.

Soprattutto nei miei live da solista, in cui decido soltanto il pezzo di apertura, mai la scaletta. Mi racconto attraverso dei brani che mi rappresentano, che sento tantissimo e che parlano la mia stessa lingua, seguendo le emozioni e l’atmosfera che si crea. Ad oggi, sicuramente, guardandomi indietro, il bilancio è positivo perché vivo di una passione. Della mia passione.

 

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Riportando l’attenzione alla partenza, appunto. Quando hai deciso di intraprendere questo viaggio? Quando ti sei detto: “Da grande voglio fare il musicista”?

Il viaggio è partito dalla passione, appunto. Scoperta anche un po’ per caso, nonostante i miei genitori avessero sempre avuto ed hanno tutt’ora a che fare con la musica. Loro, però, non mi hanno mai spronato a suonare uno strumento o cose simili ecco. Forse era inevitabile che mi avvicinassi a questo mondo. All’inizio per curiosità, amici che suonavano…e soprattutto l’ascolto di tanta, tanta musica.

L’idea di formare la prima band è arrivata intorno ai tredici anni e da lì, attraverso le tappe fondamentali per lo meno per la mia generazione… nessun ragazzino a sedici anni partecipava ai talent ecco… quindi, tappa dopo tappa, è cresciuta anche la consapevolezza di certe doti e capacità. Il mio approccio è sempre stato più “professionale” durante il percorso al punto che, qualche anno fa, ho sentito fortemente il desiderio di far diventare il tutto un lavoro, anche se non mi piace troppo chiamarlo così. Da un sogno si è trasformato, con il tempo, in un progetto realizzabile.

Chiaro che la mia carriera ruota molto attorno alle cover. Ho avuto sempre, distribuiti negli anni, anche progetti di musica inedita. Mai miei al 100 % in quanto non essendo il cantante non li sentivo troppo miei. Ma è stato utilissimo perché l’approccio è davvero diverso rispetto al contesto delle cover o dei tributi. Ti vedi in sala prove, inizi a jammare finché non esce un riff che funziona, porti le tue idee.

Probabilmente il tutto era impostato in modo troppo adolescenziale: ti incontri spesso, produci poco perché il metodo è sbagliato. Il passaggio ai progetti con le cover è stato dettato anche dall’età. A un certo punto devi per forza scegliere, investire costruttivamente tempo e qualità.

 

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Hai molti progetti all’attivo, sia da solista che con delle band. Tributi a Nirvana, Pearl Jam, Foo Fighters, Eddie Vedder, Chris Cornell. I più grandi nomi del panorama grunge anni ’90. Che cosa può suggerirci oggi, e ancora oggi, quella musica?

Gli artisti che sono emersi in quegli anni e che sono ancora in attività… non molti purtroppo… hanno iniziato a scrivere canzoni per esprimere un’urgenza, un disagio che era diffuso tra i giovani, specialmente a Seattle, che è stata una fucina di talenti. Provavano rabbia, volevano ribellarsi a una società a cui non sentivano di appartenere. Ovviamente, oggi il messaggio è molto cambiato. Sono uomini adulti che hanno anche superato difficoltà, momenti bui, perdite.

Hanno costruito spesso una famiglia, sono maturati, vedono la vita con altri occhi… e tutto questo si ascolta nei loro lavori più recenti… che non possono essere, tra l’altro, simili o di totale ripresa delle prime produzioni. Non capisco quelle persone che criticano per forza i cambiamenti da un disco all’altro di un gruppo o di un artista. Riprendendo questo discorso, appunto, il messaggio che la musica nata negli anni Novanta può veicolare oggi è l’importanza della comunicazione, della musica come comunicazione.

L’immenso potere che ha la musica di far sentire unite persone legate da esperienze simili che si rivedono in determinati brani…e magari riscontrano in quei brani lo stesso percorso, la stessa forza nel superare gli ostacoli, nel non arrendersi, nel voler costruire qualcosa. Purtroppo, secondo me, specialmente in Italia, abbiamo perso questo valore. Ascolto sempre più testi vuoti, basati su cliché, su schemi prefissati per entrare a far parte di un contesto che è basato molto sul business.

 

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Immagina di avere una macchina del tempo e tornare a Seattle, nel 1990. Squilla il telefono… “Ehi, vuoi venire a suonare con noi?”. Chi vorresti fosse dall’altro lato della cornetta? Di quale gruppo avresti voluto far parte?

Ehhh questa domanda mi mette parecchio in difficoltà. In qualche modo sono legato a tutte quelle band, da ognuna prenderei qualcosa. Se volessi fare un disco grunge, ad esempio, prenderei un po’ delle caratteristiche di ognuna, benché tutte diversissime. Dovendone scegliere una… Ti dico i Pearl Jam, forse anche per un discorso di longevità.

È stato il gruppo che si è espresso nei modi più diversi, dall’hard rock alla ballata acustica e credo che sia quello che mi rispecchia di più. Essere Eddie Vedder non sarebbe stato male dai… Ecco, mi vengono in mente ora anche gli Stone Temple Pilots che sono rimasti sempre più nell’ombra. È una band che adoro e, secondo me, il disco più bello uscito nel 1991 forse non è Ten… Ma Core degli Stone Temple Pilots.

 

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Oltre ad avere la grande capacità e il talento di rendere personali le cover che esegui, hai anche un progetto di musica inedita. Abbiamo ascoltato Il funambolo. Che cosa significa per te comporre, scrivere?

Ad un certo punto, ho sentito che era arrivato il momento e il bisogno di comunicare qualcosa di mio. Ok, riesco a farlo anche attraverso le cover rispecchiandomi molto negli artisti, nei brani, nelle parole e nelle atmosfere musicali che omaggio. Ma volevo dire la mia. Ovvio che dietro quello che tu scrivi, c’è sempre la speranza che arrivi a più persone possibili. Sarebbe ipocrita non ammetterlo… non è però il motivo per cui ho iniziato a scrivere.

È la musica che mi ha cercato. Non ho preso in mano una chitarra o mi sono messo di fronte a un foglio di carta, pensando: “Adesso scrivo una canzone”. È quella magia che avviene quando ti svegli, di notte o di mattina, con un’idea. Unendo tutti i pezzi, viene fuori qualcosa. Descrivo la mia musica come molto istintiva e poco ragionata perché c’è tanto di me. Non mi importa che sia più o meno condivisibile o ancora meglio, o peggio, vendibile. Non riesco a scendere troppo a compromessi quando si parla della mia musica e non voglio contaminarla. Non le ho dato molto spazio, per ora. Ma voglio che ne rimanga invariata l’autenticità.

 

Talvolta, parlando delle tue canzoni, hai confessato che sono ancora chiuse in un cassetto… Quale chiave potrebbe aprirlo?

Sinceramente, non lo so. Molti segnali, nel tempo, mi hanno portato a pensare di lasciar perdere. Non batoste o cose simili… magari aspettative disattese. E ho pensato: “Sto buttando via soltanto tempo?”. È anche vero, però, che ogni volta che suono i miei brani durante un live, magari solo uno, qualcosa dentro si muove. Mi dispiacerebbe privarmi dell’emozione provata quando eseguo una mia canzone. Il cassetto si aprirebbe se… arrivasse un contratto da qualche milione di euro? Scherzo ovviamente. Forse dipende solo da me. Il tema “inediti” è una questione a cui tengo talmente tanto che se non ci sono i presupposti per farli uscire…piuttosto non li faccio uscire.

È strano da spiegare. Sicuramente avere gli spazi per presentarli e farli ascoltare aiuterebbe molto. Di solito li propongo in qualche mio live quando percepisco che si crea uno scambio intenso con il pubblico. Quando si condivide una stessa lunghezza d’onda e io mi sento più aperto. Allora è figo. Quella magia lì è decisiva per aprire o meno il cassetto. E mi darebbe anche più energia per continuare a scrivere, comporre. Ecco, la comunicazione, lo scambio comunicativo sarebbe una chiave per aprire quel cassetto.

 

Ultima domanda. Se tra il pubblico, durante un tuo live, ci fosse la Musica in persona, come la ringrazieresti? Quale brano vorresti dedicarle?

Cazzo…. Bella domanda, ma difficile! Voglio rispondere in maniera istintiva. Credo che le dedicherei un mio brano. Ti spiego. Detto con tutta la modestia e l’umiltà del mondo, il “dono” di riuscire a creare una canzone dal nulla, secondo me, è una cosa grandissima. Ed è un dono che la vita e la musica ti fanno. Io, al di là di quello che può pensare la gente, sento di averlo. Per quanto riguarda il brano, sceglierei Il funambolo. È quello che propongo anche di più perché me ne sono innamorato da subito…della musica, delle parole, della metafora. Lì ho scritto tutto io e sarebbe tutto per Lei.

 

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Testo di Laura Faccenda

Foto di Valentina Bellini

 

 

I Pearl Jam a Milano aprono il loro mini-tour Italiano

I-days 2018
Pearl Jam

 

Ansia. Questa è la parola che sceglierei per descrivere i giorni che hanno preceduto l’atteso concerto dei Pearl Jam agli I-days 2018. Ansia perché dopo l’annullamento dello spettacolo di Londra anche l’appuntamento di Milano era a rischio. E dopo 7 mesi di attesa non ero pronta a ricevere una notizia simile, soprattutto a causa di un mal di gola.
Quindi dopo che hanno confermato la loro presenza al festival milanese tutto il resto sembrava secondario. Non importava la camminata sotto il sole cocente e non importava nemmeno avere perso i miei amici e aver rischiato di rimanere a piedi. A quel punto l’unica cosa che importava era essere li.

Prima dei Pearl Jam si sono esibiti gli Sterophonics che hanno dimostrato di saper gestire una folla come quella che ieri ha riempito l’aera expo di Milano, la location che quest’anno è stata scelta per ospitare gli I-days.
La band gallese, che è stata sul palco per circa un’ora, oltre ad aver portato i loro pezzi più famosi ha accennato un piccolo tributo ai Pearl Jam con le note iniziali di Given to Fly. La folla è impazzita.

Penso che sia stato quello il momento che tutti aspettavano; l’istante che ha fatto pensare a tutti “ecco ci siamo”.

E poco dopo è iniziata la magia.

Quando Eddie Vedder è salito sul palco, parlando in un italiano maccheronico, intonando Release nella nostra lingua, tutto sembrava essere perfetto e le preoccupazioni dei giorni precedenti sono volate via.
Nonostante fosse sotto tono e abbia fatto fare un grande lavoro al pubblico e al suo chitarrista le emozioni che ha regalato a chi era presente sono state tante. Non importava la lontananza o la vicinanza dal palco: essere al centro della folla, tra 60.000 persone che saltano e cantano Even Flow è stata un’emozione unica.
Tanti intermezzi parlati, forse per dare il tempo al cantante di riposare un po’ le corde vocali. E proprio nel bel mezzo del concerto c’è stato il momento più romantico della serata. Eddie, in un italiano traballante e un po’ da commedia americana, ha letto una lettera in cui ricordava il primo incontro con la moglie avvenuto proprio a Milano 18 anni prima. E dopo averla chiamata sul palco, con una bottiglia in mano, hanno brindato insieme. Musica e romanticismo, non si poteva chiedere di più.
Scaletta ridotta, viste le condizioni di Vedder, ma ricca di grandi classici e tributi a band come i Pink Floyd, Van Halen e Neil Young.

E mentre al termine del concerto ripercorrevo la camminata a ritroso per tornare alla macchina, continuavo a chiedermi “Chissà come sarebbe andata se fosse stato in forma”.
Credo che per avere una risposta tornerò a sentirli alla prossima tournée europea. Perché davvero ne vale la pena.

 

Laura Losi

 

 

Foto di Stefanino Benni

Un grazie di cuore a The Front Row