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Tag: inchiesta

Il Musical e l’Italia: a tu per tu con A Chorus Line

Scendere a Milano Centrale è tra le cose che preferisco in assoluto. Un formicaio senza sosta che ti da il benvenuto nella Milano che ci piace. Immaginate poi di trovare questa Milano invasa da un insolito, inquietante febbraio primaverile, un febbraio latin lover, che ti toglie la giacca e ti fa sudare con poca fatica.

Inevitabile per me boicottare la metro, preferendo una passeggiata per quei lunghi viali che si avvicinano più a quelli d’una capitale europea che a quelli d’un capoluogo italiano. Le giornate sono già più lunghe, il cielo è terso, il vento è caldo, giacca e camicetta bastano ed avanzano: è la serata perfetta per andare a teatro.

Del primato del Teatro Nazionale Che Banca! di Milano abbiamo già parlato, incoronandolo unico teatro italiano capace di ospitare musical paragonabili alle produzioni di Broadway e West End.

Ci siamo domandati quale sarebbe stato il musical scelto per sostituire un successo come Mary Poppins e, in risposta, Stage Entertiment c’ha zittiti portando al Nazionale nientepopodimeno che sua maestà il re dei musical, A Chorus Line, in una produzione tutta nuova diretta da una veterana del musical, Chiara Nochese.

Scelta audace, devo ammettere, quasi spudorata, poiché A Chorus Line è una storia insolita da proporre ad un pubblico italiano, nonostante sia già stato portato in scena ben due colte dalle compagnie del Bel Paese.

A Chorus Line possiede, nella sua semplicità, grandi responsabilità, poiché gli strumenti narrativi utilizzati sono pochi, perciò dovranno tutti funzionare alla perfezione. Prima d’ impensierirmi prematuramente, però, entro in teatro, cinto ormai dal 14 febbraio dalla troneggiante insegna luminosa del re dei musical.

Nei corridoi che accompagnano noi spettatori in platea ci sono ragazze e ragazzi evidentemente emozionati, intenti a ripassare coreografie, a fare stretching, a sistemarsi gli scalda cuore e le scarpette da ballo. “Perché si trovano qui?”, pensano i più. Io, cosciente del fatto che è tutto parte dello spettacolo, non posso fare a meno di sogghignare.

Mi siedo, fortunatamente ho un’ottima posizione e guardandomi attorno noto con dispiacere che, nonostante sia venerdì sera, il teatro è tutt’altro che sold out. Peccato.

Dagli “altoparlanti” una voce maschile ci avvisa: “Tutti i candidati si preparino, il provino sta per iniziare” ed il pubblico intorno a me comincia a bisbigliare. Che vuol dire “il provino”? Come mai questo tono severo e risoluto?

La risposta è una sola: A Chorus Line è teatro nel teatro, il musical è rappresentazione di vita vera, mostrandoci cosa succede durante uno dei tanti provini che i giovani aspiranti performer di Broadway dovranno sostenere, nel bene e nel male, durante la loro carriera.

Qui viene il difficile, poiché una trama così particolare ma elementare ha ben poca scenografia, ben pochi costumi di scena, ben pochi effetti speciali. Tutto sta nella regia, negli attori, che non saranno per nulla agevolati dalla magia di agenti esterni. Sarà uno scontro tra il performer e lo spettatore. Che la sfida abbia inizio.

Buio.  Si apre il sipario.

Ci troviamo all’interno di un teatro di Broadway, il provino è appena iniziato e Zach, severo e risoluto coreografo, sta preparando i candidati con una coreografia. La scenografia, proprio come nell’originale, è costituita esclusivamente da una serie di specchi appesi al soffitto che, all’occorrenza, spariranno o si muoveranno a tempo di musica.

Le coreografie sono accuratamente riprese da quelle originali di Michael Bennett. Gli attori, disarmati ed indifesi davanti a noi, hanno la difficile responsabilità d’impersonare l’impegno, la passione, i sacrifici ed i sogni di ragazzi come loro, andando ad interpretare quasi un alter ego della loro condizione di aspiranti performer.

Per questa connessione potrebbe apparire tutto estremamente facile, se non fosse che nel corso degli anni il contesto storico e culturale in cui siamo cresciuti è cambiato, si è evoluto ed il meccanismo drammaturgico così semplice, efficace ed innovativo che A Chorus Line poteva vantare nel 1975, quando per la prima volta calcò i palchi di Broadway ha perso non di merito ma di freschezza, attualità, originalità.

A Chorus Line è, diciamolo, un musical davvero impegnativo da sostenere e, seppur cerchi continuamente di alleggerire la tensione con della comicità, affronta tematiche estremamente delicate, all’epoca incredibilmente controverse, come l’omosessualità, gli abusi, l’instabilità mentale, la deformazione professionale che avviene il più delle volte nel mondo dello spettacolo.

Quasi subito infatti, quando i personaggi cominciano a raccontarci le loro singole storie, noi spettatori percepiamo una sorta di deja vù, come se avessimo ascoltato più e più volte la stessa storia, in passato.

Questo perché A Chorus Line, all’epoca vincitore di un Premio Pulitzer per la drammaturgia e di 9 Tony Awards, sebbene detenga meriti incredibili in termini d’innovazione e di originalità, sebbene abbia fatto scuola ed abbia regalato spunti a pronipoti come RENT, sebbene sia un pilastro della storia del musical, ormai è decisamente invecchiato, e non come del buon vino.

La regista, Chiara Nochese, afferma d’aver rivisto e rinfrescato, anche con qualche tocco d’italianità il copione ed i testi originali ritraducendoli, ma il risultato è poco convincente e la performance risente sicuramente della traduzione italiana.

Una trama così greve come quella del re dei musical ha bisogno di tanto trasporto emotivo da parte di un pubblico che deve affezionarsi ai protagonisti, soprattutto quando si tratta di teatro nel teatro. Il rischio, altrimenti, è quello di appiattire la rappresentazione, già originariamente manchevole di picchi spettacolari, colmati nell’originale da una grande capacità di emozionare esclusivamente grazie alle performance degli attori.

Lo spettacolo si sorregge bene finchè la performance è corale. Le singole esperienze dei protagonisti, che emergono tra un passo di danza e l’altro, tra una delusione ed un successo, sono tutte tanto martellanti quanto intense e, non regalandoci mai una tregua, rendono lo spettacolo pericolosamente in bilico tra l’insostenibile ed il monotono.

Tutto questo, in passato, fu livellato dalla novità, dal talento e dalla tradizione, in questo caso americana, tanto cara e conosciuta dal pubblico di Broadway e di Hollywood. In Italia, nel 2019, è faticoso per i più capire le meccaniche di un musical inconsueto come questo.

Il colpo di grazia arriva quando il coreografo Zach, interpretato da Salvatore Palombi, dopo un estenuante provino fatto di passi di danza ed interrogatori, domanda ai ragazzi come agirebbero se non potessero più essere dei performer.

Il risultato è uno scontro con la realtà nuda e cruda, una risposta tanto scomoda quanto inevitabile, una delle poche cose rimaste ahimè attualissime anche oggi.

Finalmente, quando tutti i personaggi si sono raccontati dolorosamente, solo quando scopriamo che non tutti passeranno il provino, ecco giungere il finale, unico boccone davvero dolce dello spettacolo, il classico tripudio di luci scintillanti e di sfavillante meraviglia. Finalmente, dopo due ore, arriva Broadway.

In più, finalmente, ascoltiamo l’unico brano che ci rimarrà in testa, One, un surrogato di tutte le hit Broadway, dove i performer ci mostreranno una tipica coreografia da musical tradizionale, meravigliosi nei loro costumi di scena argentati.

Tutto è in netto contrasto con il resto della storia ed è ovviamente voluto, mostrandoci quanto di più oscuro e tormentato si nasconda dietro la preparazione di uno sfolgorante spettacolo di Broadway. Alcune performance colpiscono più di altre, come quella della professionista Floriana Monici nei panni di Sheyla Bryant.

Forse la Nochese, coraggiosa nel selezionare, tra i tanti musical da portare in scena nella sua Italia, un colosso come A Chorus Line, nel rispettare grandemente ogni sua particolarità, manca di audacia.

Il pubblico, uscendo da teatro, è visibilmente affaticato, comprensibilmente deluso c’è chi lo pone in contrasto con maestri dell’intrattenimento come Mamma Mia! o chi ricorda i tempi andati, quando i musical erano quelli di Fred Astaire e Ginger Roger.

Se prendiamo il caso A Chorus Line come una finestra sulla storia del musical, per intenditori o meno è certamente da vedere almeno una volta nella vita. Ma se lo valutiamo in termini d’intrattenimento, allora serve una forte ricerca in termini di contestualizzazione, d’innovazione, lavorando a più non posso sull’emozionare.

Spesso attori e registi, dopo tanti anni nel mondo del musical, si affezionano grandemente a titoli come A Chorus Line idolatrandoli, immaginandoli eterni, ma non sempre il pubblico ha l’esperienza adatta per apprezzarne i contenuti come ci si aspetta.

Per far crescere il musical in Italia occorre capire come educare lo spettatore, serve indagare sui gusti, sulle preferenze del pubblico, in modo da poter catturare la sua attenzione con i giusti titoli, le giuste storie, la giusta tradizione.

Il pubblico è un alunno difficile ed occorre sostenere con convinzione che, per riempire i teatri, si può fare di meglio che assoldare il personaggio famoso, ennesimo specchietto per le allodole. Questo è il compito dei registi e dei produttori.

Forse, sebbene A Chorus Line sia il re dei musical, promette Broadway ma non lo regala. Il pubblico italiano è alla ricerca di qualcosa che mantenga le promesse, com’è stato per Mary Poppins e, prima di lui, per Newsies. Entrambe produzioni Disney, a dire il vero.

Quanto ancora dovremo aspettare per una nuova produzione tutta italiana capace di sfamare la nostra voglia di Broadway o, addirittura, di farne scomparire il bisogno, con un soggetto tutto nuovo e spettacolare?

 

Valentina Gessaroli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I musical e l’Italia: decolliamo o non decolliamo?

Broadway, New York, 2019.
Siamo nel centro di Times Square, spasmodico groviglio della vita statunitense. Davanti a noi, a perdita d’occhio, l’infinito numero di teatri e dei loro cartelloni pubblicitari, spesso costituiti da schermi al plasma che giorno e notte ci bombardano di pixel luminosi, strillando il titolo del musical ospitato, il più delle volte, da anni ed anni. Che si tratti di The Phantom of the Opera, Wicked o The Lion King ogni giorno Broadway, nonostante il numero interminabile di repliche viste e riviste, nonostante il prezzo stellare di ogni biglietto, nonostante tutto, è sold out.
In Italia, attualmente, abbiamo solo un musical stabile nel “suo” teatro, ed è sì, un musical di produzione italiana, ma Disney. Si tratta di Mary Poppins, classico cinematografico senza tempo, riadattato a spettacolo teatrale a cura di Cameron Mackintosh, in scena al Teatro Nazionale Che Banca! di Milano dal 13 febbraio 2018.

Domenica 27 gennaio, il cast di Mary Poppins – Il Musical ha goduto delle luci della ribalta per l’ultima volta, per far spazio al prossimo spettacolo in cartellone al Nazionale, lasciando noi italiani nuovamente orfani di un vero e proprio musical “stabile”.  Dovremmo chiederci per quale motivo il concetto di musical in Italia sia così in differita o, se vogliamo, così difforme dalla tradizione statunitense.

Vale la pena, come nota a margine, nominare la Compagnia della Rancia, collettivo di professionisti che da anni offre la possibilità di assistere a musical di alto livello, eppure solo un colosso dell’intrattenimento come Disney riesce ad assicurarsi una produzione tale, vi assicuro, da non aver nulla da invidiare ai colleghi d’Oltreoceano.

Purtroppo, poco si investe nel “Made in Italy”. Si sceglie d’ importare il prodotto da altri paesi e le produzioni devono vedersela con i costi altissimi sui diritti dell’opera. Le problematiche del musical in Italia sono all’apparenza dovute principalmente ai fondi.

Nel Bel Paese si preferisce portare lo spettacolo in tournée, ammortando costi altrimenti insostenibili se gli spettacoli fossero stabili. Ciò compromette la grandezza degli allestimenti le potenzialità stesse del musical itinerante.

Ma che significa “stabili”? Sia a Broadway che nel suo corrispettivo londinese, il West End, i musical sono concepiti nel loro stato embrionale in teatri costruiti o riadattati a loro immagine e somiglianza (a partire dalle scenografie che arricchiranno il palco scenico, al design del teatro vero e proprio).

Al loro interno, come in un ventre materno, crescono, maturano per anni, a volte per decenni. Quest’operazione costerebbe alle produzioni cifre astronomiche, posto che in Italia abbiamo già in partenza scarsità di teatri per grandi concerti, opere liriche, spettacoli di prosa, relegati in palazzetti e stadi, strutture originariamente ideate per ospitare eventi sportivi.

Insomma, Italia patria dell’arte, ma senza posto per accoglierla.

Anni fa assistetti alla performance del cast originale di Broadway in Beauty and the Beast – The Musical, nella sua tappa milanese. Un’esperienza per me straordinaria, senza dubbio, ma evidentemente sacrificata, ridotta alla metà del suo potenziale espressivo.

Non era nel suo teatro, si percepiva. Il musical ha bisogno di casa sua e per darne alla luce uno tradizionale, ci vuole una gran dose di coraggio, non si tratta di uno spettacolo “minima spesa, massima resa”, anzi. Basti pensare alla difficoltà di ospitare uno show a 360°, una miscela di coreografie mozzafiato, scenografie imponenti, performer altamente qualificati e, estremamente importante, l’orchestra dal vivo.

Sì, perché nel musical tradizionale esiste un posto d’onore per i musicisti che, non tutti sanno, suonano interamente dal vivo, così come vengono eseguiti dal vivo i cori ed i rumori di scena.

Molto spesso, in Italia l’orchestra o la band live vengono sacrificate per problemi tecnici, spaziali o, addirittura, economici, lasciando il posto alle tanto odiate e criticate basi musicali. Infatti, retribuire degnamente i musicisti comporterebbe l’aumento del prezzo di un biglietto già percepito, erroneamente, come troppo alto.

Vi assicuro, non c’è nulla di più affascinante del ritrovarsi immersi nella mischia di giovani musicisti, appena usciti dai teatri del West End che, rincasando dal lavoro, affollano le metropolitane dopo l’ultima replica della giornata.

Sorge un ulteriore quesito: un’intera orchestra, nei nostri teatri, dove la mettiamo?

Ammettiamo poi che, in Italia, abbiamo un modo tutto nostro di plasmare il fattore spettacolo. Da sempre, sin dal Settecento e dai tempi del melodramma, ci piace avere la nostra versione delle cose.  E’ il caso di Notre Dame de Paris.

Ecco, quest’opera ha scosso incredibilmente l’interesse del pubblico italiano che, con ingenua convinzione, è certo di aver a che fare con un vero e proprio musical. Ahimè, si sbaglia perché “Notre Dame de Paris” non è un musical, bensì un’Opera Popolare, ben diversa dal cugino di Broadway. Infatti, trae le sue origini dalla tradizione musicale ed operistica italo/europea, senza alcun legame originale con il musical. Come se non bastasse abbiamo a che fare, nuovamente, con uno spettacolo itinerante.

Ancora oggi, replica dopo replica, tour dopo tour, il pubblico italiano acquista con piacere il biglietto per “Notre Dame de Paris”, spinto un po’ dalla collaborazione di un connazionale, Riccardo Cocciante, un po’ per la mescolanza che questo spettacolo ha con un’altra branca del panorama, l’Opera Rock, molto amata dal pubblico nostrano.

Evoluzione diretta del concept album (come Hair, Evita, Jesus Christ Superstar, Rent, American Idiot) molti artisti rock e metal, nel tempo, hanno sentito la necessità di produrre un Opera Rock, spinti dalla volontà di evolvere, nella sua completezza, una creatura fino a quel momento presentata al mondo attraverso il solo linguaggio musicale.

Scelta identicamente potente, sicuramente elevabile, grazie all’unione con le altre arti performative, proprio come il musical. Ma non è musical, per lo meno, non quello tradizionale che vediamo al Nazionale, con Mary Poppins.

In conclusione, possiamo affermare che il difficile rapporto tra il musical tradizionale e l’Italia non derivi solamente da necessità economiche e tecniche. Probabilmente, è proprio il pubblico italiano ad avere esigenze diverse, più inclini ad assecondare la tradizione nazionale o la moda del momento.

Troppo spesso il pubblico risponde positivamente al musical solo se nel cast è presente l’ennesimo personaggio famoso, lo “specchietto per le allodole” perfetto che, nella maggior parte dei casi, non sarà all’altezza dei suoi colleghi performer, professionisti del settore qualificati da accademie rinomate.

Il dubbio, tuttavia, ci assale nel momento in cui il successo di un’opera come “Mary Poppins – Il Musical” raggiunge un livello tale da incrinare le nostre ipotesi.

 

Valentina Gessaroli