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Il Musical e l’Italia: il successo targato Disney

Se vi dico Walt Disney, quale immagine si forma nella vostra mente? Prima di tutto, sicuramente, vi strapperei un sorriso.

Dopo di che la vostra fantasia inizierebbe a viaggiare, toccando gli angoli più vivi e colorati dell’infanzia, guidata da quella magia eterna che, oggi come ieri, rende la Walt Disney Company sovrana  indiscussa dell’intrattenimento. 

Ebbene, per quanto possa sembrare pacifico e prospero tutto questo, anche la Disney ha attraversato un periodo buio causato, nel 1966, dalla morte del suo iconico papà, Walt Disney.

Tra alti e bassi l’azienda non tornò a galla fino al 1989 quando un’idea pazza, quanto efficace, rivoluzionò la storia del cinema: costruire la narrazione dei lungometraggi animati esattamente come quella di un musical di Broadway.

Infatti, il 15 Novembre 1989, uscì nelle sale cinematografiche statunitensi il 28° Classico Disney: La Sirenetta. 

Il lungometraggio presentava tutte le caratteristiche che un musical di successo dovrebbe avere: numeri di ballo, canzoni indimenticabili e una capacità d’intrattenere incredibilmente efficace.

 

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L’incredibile struttura che riproduce l’albero della nave del Principe Eric, da “The Little Mermaid” a Broadway

 

Inutile dirlo, questo schema ebbe così tanto successo che la Disney tornò sulla cresta dell’onda e ci rimase producendo quei capolavori che insieme vengono chiamati ancora oggi “il leggendario trio” ovvero La Sirenetta, La Bella e la Bestia Aladdin.

Fu così che si entrò in quel florido periodo conosciuto come il “Rinascimento Disney”.

Non passò molto tempo, però,  prima che il leggendario trio sentisse il richiamo delle proprie origini. Nel 1993 nacque la Disney Theatrical Production, con l’intento di portare sui palchi di Broadway il successo planetario di Beauty and the Beast.

Ma come tramutare quelle incredibili animazioni in spettacolo, senza correre il rischio di rendere il tutto un gigantesco flop? 

Inevitabilmente fu necessario sbattere la testa sul fatto che il musical è si una forma d’arte meravigliosa e complicata, ma soprattutto costosa. La mediocrità è facile da sfiorare quando scegli la strada del musical. 

Precedentemente abbiamo parlato di quanto sia difficile produrre un musical tradizionale, soprattutto in Italia, poiché il denaro da investire per questo tipo d’intrattenimento scarseggia e l’incognita successo è parecchio determinata dal prezzo del biglietto. 

Raccontare allo spettatore la difficoltà di produzione, esaltandone impegno e virtù, è il primo passo per riempire i teatri. 

L’esempio di Mary Poppins, il musical italiano che ha fatto sognare adulti i bambini riscuotendo un enorme successo, vi sembrerà ridondante ma  ci serve per capire che l’amore tra il musical e l’Italia è davvero possibile.

 

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Numero musicale tratto dal musical Disney “Newsies”, in cartellone al Teatro Nazionale di Milano prima del successo di “Mary Poppins”.

 

Potremmo chiederci però cosa porta le persone ad assistere ad un musical Disney, quando la storia è la medesima, vista e rivista da generazioni di bambini ed adulti sulle VHS ed al cinema.

Sì, è vero, quando Disney porta sul palco le proprie storie queste non hanno bisogno di presentazioni. Per prima cosa la musica viene utilizzata per dare definizione e carisma allo spettacolo e per portare qualcosa di nuovo al pubblico, che sia in linea però con il lungometraggio omonimo.

Infatti è tradizione che siano aggiunte canzoni create appositamente per le versioni teatrali della storia; fortunatamente la Disney può permettersi di chiamare a raccolta lo stesso team che precedentemente ha lavorato al film. 

Dopo la riuscitissima realizzazione sperimentale di musical come Beauty and the Beast e The Little Mermaid, fu proprio con Aladdin che la Disney celebrò maggiormente il legame originario tra musical e lungometraggio. In questa storia lo schema del musical è molto più marcato, rispetto a quello dei suoi fratelli maggiori, proprio per celebrare il fatto che fu la scelta di questa tipologia di narrazione a salvare la Disney dai suoi anni bui.

Trasformare Aladdin in spettacolo fu come riportarlo alle sue origini: un gioco da ragazzi, si può dire. Friend like me, il brano cantato dal Genio della Lampada, ormai fa parte del DNA di Broadway.

I suoi genitori, il compositore Alan Menken e il paroliere Howard Ashman, sono i creatori delle canzoni che resero “il leggendario trio” il perfetto esempio di spettacolo allo stato puro.

Per loro, tornare a lavorare per Broadway, dopo Sister Act e La Piccola Bottega degli Orrori fu come tornare a casa dopo un lungo viaggio nell’animazione.

Per renderlo ancor più spettacolarizzabile Menken pregò i dirigenti di liberare Aladdin il Musical dai diritti d’autore, consentendo alle scuole di metterlo in scena senza problemi.

Sta di fatto che Disney portò Broadway sul grande schermo e ne fece un’infallibile ricetta per il successo. In seguito, riconsegnò quella ricetta al palcoscenico. 

Da qualche anno a questa parte, iniziando con La Bella e la Bestia, dato il trionfo  illimitato dei suoi musical teatrali, la Disney sta riportando Broadway sul grande schermo, continuando quest’anno con l’uscita nelle sale cinematografiche dei musical in live action di Aladdin e de Il Re Leone.

Broadway/cinema/Broadway/cinema. Mio Dio, un Inception Disney.

 

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Un giovane Simba sale sulla Rupe dei Re, dal musical “The Lion King” a Broadway.

 

Spesso il successo di uno spettacolo dipende anche dalla qualità degli effetti speciali che devono essere convincenti per sbalordire il pubblico. 

La magia, in un musical come Aladdin, è una prerogativa così, per i suoi effetti speciali, Disney si rivolse al maestro dell’illusionismo Jim Steinmeyer, che divenne membro attivo del team creativo.

Per le scenografie, le luci ed i costumi l’intero team intraprese un viaggio in Marocco, per rubarne le atmosfere e le tradizioni.

Così, da 8 anni a questa parte, ogni replica di Aladdin è un tributo a tecnici, artisti, costruttori e supervisori  che hanno lavorato senza sosta per una ragione soltanto: estasiare noi, i loro spettatori.

 

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Numero musicale “Arabian Night” tratto dal musical “Alladin” nel West End di Londra

 

Per quanto il teatro possa essere appagante e liberatorio per un artista, lo spettacolo è, in realtà, confezionato per il pubblico: occorre affinare il più possibile la capacità di carpirne sogni e bisogni, se si vuole arrivare ad un prodigioso successo. 

Per quanto possa essere complicato mettere in scena una rappresentazione stabile in un teatro, lo è ancor di più pensare ad uno spettacolo di questa portata che possa spostarsi da una città all’altra.

Quando nel 1991 Rob Roth, veterano regista di Broadway, vide al cinema La Bella e la Bestia, impazzì per il film perché, nel vederlo, si accorse di quanto fosse comparabile ad un vero e proprio musical. 

Quando Disney gli chiese di dirigerne la versione teatrale, esplose di felicità. 

 

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Insegna del musical Disney “Beauty and the Beast”

 

Poi, dopo mesi di pre-produzione ed il successo di Beauty and the Beast a Broadway, gli venne chiesto di riadattare la sua creatura ad un musical da tournè. La cosa non fu affatto semplice:

Abbiamo portato lo show in tutto il mondo, ho volato personalmente in Australia, Giappone, Vienna, Los Angeles e Germania, per ricercare in loco il perfetto team creativo. Per me è stato un onore lavorare con così tanti artisti ed attori nel mondo, ho imparato che le emozioni sono un linguaggio universale.

Ma, ogni volta che lo spettacolo si vestiva di un nuovo teatro, in una nuova città, le modifiche da apportare erano troppo numerose. Le luci, le scenografie, le scelte stilistiche, tutto completamente da rifare..

Per noi, c’era solo una strada: tornare alla pre produzione e reinventarsi, così da creare uno spettacolo su misura per ogni nuova location.

Per rendere giustizia alla sua opera Roth fece un’ accuratissima ricerca, prese aerei e passò notti intere, insieme ai suoi tecnici, a modificare lo spettacolo senza danni far danni. Tutto, perché la magia creata dal team non si disperdesse. 

Pensate un attimo a quanto un musical da tournè perda di qualità nel passare da un teatro all’altro. 

In Italia, questo succede ogni volta. Le luci, i colori, le scenografie, il sonoro, l’impostazione dei performer sul palco, ovvero il lavoro di tantissimi professionisti che hanno studiato giornate intere, tutto sarebbe da rifare e, vi assicuro, il pomeriggio che si ha a disposizione non è per nulla sufficiente. 

Come risolvere l’eterna lotta tra la ricerca della qualità e l’enorme investimento economico e creativo necessario per portare sui palchi italiani un vero musical tradizionale?  

 

Valentina Gessaroli

Ma quanto siete VEZ?

Sono le 20.15 di un uggioso lunedì sera di Maggio, il cielo è fosco e cinereo, l’aria è fredda, rigida, quasi autunnale e tra me e me penso a quanto sono arrabbiata con il meteo per averci dato solo un lieve assaggio d’estate, illudendoci miseramente. Sono appena arrivata a casa della mia amica Sara Alice, stasera ho il piacere di cenare con lei e il suo socio Luca, che incontro per la prima volta. Si crea immediatamente un’atmosfera super friendly, apparecchiamo e cuciniamo insieme come se fossimo coinquilini da una vita, parliamo di lavoro, di musica, ci raccontiamo aneddoti divertenti e ridiamo insieme, tanto.

VEZ Magazine è il protagonista assoluto delle svariate conversazioni. Perché oltre ad essere qui come amica, stasera sono qui anche come collaboratrice: ho il compito (e l’onore) di intervistare le colonne portanti di questa grintosa rivista, nonché ideatori e fondatori. Tra una battuta e l’altra, ma anche con un po’ di imbarazzo (solo iniziale), ci buttiamo a capofitto in un’impetuosa raccolta di racconti, informazioni, aneddoti, un appassionante e fresco approfondimento su come tutto è venuto alla luce e sia poi diventato quello che è.

Mi rivolgo in primis a te Luca, dato che non ti conosco, non so nulla di te. Puoi dirmi com’è nato questo è progetto? Soprattutto: come avete fatto a trovarvi, considerando che Sara è di Rimini mentre tu sei di Forlì?

Tutto è cominciato l’anno scorso al concerto di Levante, frequentavo la scena “Sullasabbia”, “Bayfest” e “Rimini ParkRock” come fotografo freelance e per caso ho conosciuto Sara. Poi l’ho rivista ai Biffy Cliro, Jax & Fedez, Bayfest, ho pensato fosse una sorta di manager di LP Rock Events (la società che organizza questi eventi, ndr) o un qualche personaggio importante e non nascondo che inizialmente ero un po’ intimorito – sono stato sempre un ragazzo molto timido, soffro di balbuzie da quando ero piccolo, fatico a lasciarmi andare e trovare subito confidenza con le persone – mentre lei con il suo fare allegro, espansivo e disinvolto mi ha inizialmente incuriosito e successivamente conquistato.

Ci siamo fatti foto, mi ha presentato alle sue amiche. Mi ha fatto sentire importante, speciale. Siamo diventati amici sin da subito. Ci siamo raccontati, mi ha detto di essere una giornalista. Poco dopo, grazie a lei, abbiamo ottenuto l’accredito per il concerto del Liga (Luciano Ligabue, ndr). Proprio li è nato tutto. Lei giornalista, io fotografo. Le ho espresso il mio sogno di creare un magazine e in quel momento è come se fosse scoccata una scintilla. E’ nata la magia. Il mio sogno era anche il suo. Due settimane dopo avevo già creato il sito.

E Sara continua.

Ho sempre scritto. Ho scritto un libro, sono anni che scrivo sul il Ponte e mi è capitato spesso di trovare persone che volevano collaborare con me, ma non lo dicevano mai sul serio. Io avevo l’idea, ci lavoravo intensamente, cercavo contatti, miglioravo il progetto, gli altri invece si lasciavano trasportare, si adagiavano, non ci mettevano passione, non si adoperavano. Le persone parlano tanto ma non mettono mai in pratica nulla.

Con Luca è stato diverso. Luca  ci credeva veramente. Luca era convinto, autentico, pratico. Mi sono fidata di lui e lui ha dato fiducia a me e alla mia concretezza. Ci siamo trovati. Noi non abbiamo paura, siamo folli, ci buttiamo tanto, siamo disinvolti, ostinati, spregiudicati, anticonformisti. Siamo LIBERI. E VEZ ci da la possibilità di esprimere ciò che siamo in modo genuino, spontaneo. Il primo concerto ufficiale, quello che ci ha “iniziato” a collaboratori e pionieri di VEZ Magazine è stato Lali Puna. Se ci penso mi viene quasi nostalgia. Sembra passata una vita e invece sono solo pochi mesi.

E il nome VEZ com’è nato?

Per un’estate intera gli epiteti più amichevolmente utilizzati nelle realtà Bayfest e varie sono stati Regaz (ragazzi, ndr) e Vez (vecchio, ndr).

Quando ci chiedemmo quale nome avremmo potuto dare al nostro magazine, dopo averci pensato un po’ e aver buttato lì qualche nome a caso, Sara mi disse. “E se lo chiamiamo Vez?” Ci convinse subito. Scegliemmo “VEZ Magazine” per dare un’identità, un’essenza al sito. Perché appunto attualmente è un magazine ed è nato per questo, seguire concerti. Poi l’ambizione è grande, potrebbe diventare VEZ Service o VEZ Agency, chi lo sa.

Quindi possiamo ufficialmente dire che è Luca Ortolani che si occupa dell’aspetto fotografico e artistico del sito. Sara Alice Ceccarelli, invece, di cosa si occupa?

Bella domanda. Sono felice che tu me l’abbia fatta. In tanti spesso mi chiedono se faccio parte dello staff di VEZ, perché di primo acchito, chi visita VEZ vede solo il lavoro di Luca. Sembra quasi che io non esista. E questo mi fa male perché mi sento inutile, subisco tanto il non sentirmi partecipe all’interno di un sogno e progetto che è anche il mio. Ora finalmente ho il piacere di poterne parlare.

Principalmente mi occupo di intrattenere i rapporti con le varie agenzie, management, uffici stampa ed è estremamente intenso e fervido poiché è un lavoro di scambio, interazione e condivisione. Loro mantengono aggiornata me su concerti ed eventi – dandoci anche la possibilità di parteciparvi con accrediti stampa e foto – e noi offriamo loro visibilità creando una sorta di storytelling, approfittando della straordinaria potenza dei mezzi comunicativi per connetterci direttamente alle emozioni dello spettatore, donando popolarità a tali emozioni e aumentandone la richiesta. Un concerto non è solo fatto di band, strumenti e musica. C’è ciò che viene trasmesso, ci sono le persone, le loro espressioni ed è lo stesso motivo per cui non richiedo mai l’accredito stampa sulle tribune ma prediligo sempre il parterre. Voglio stare a contatto con il pubblico, vivermi il calore umano, l’entusiasmo, il delirio, l’ebbrezza, il sudore, le grida, i sorrisi, le lacrime.

Sia io che Luca siamo alla spasmodica ricerca di passione, in qualsiasi veste si manifesti. Insieme a questo, l’umiltà, la disponibilità e il rispetto sono i nostri capisaldi e le fondamenta su cui VEZ si erge. La nostra professionalità non è dovuta solo alle competenze ma anche a tali principi. Tutto questo viene percepito e apprezzato e ci permette di ricavarne tantissimi feedback positivi. Inoltre, il fatto che io sia una donna è certamente ottimizzante. Ho notato che in questo settore c’è molto aiuto reciproco tra donne ed è una cosa fantastica a mio parere, perché non è affatto scontata.

Mi pare di capire che questo è solo l’inizio di un lungo percorso. Cosa vorreste diventasse VEZ, un giorno?

“Io una casa chiusa” risponde Luca. Scoppiamo a ridere.

A parte tutto – continua Luca – Non sappiamo di preciso cosa vorremmo diventasse. So che ci piacerebbe che partisse inizialmente come trampolino di lancio per i nuovi gruppi. Sarebbe bellissimo avere un roster nostro di gruppi, che trattiamo e che la gente può seguire solo da noi e magari averne anche l’esclusiva. Gruppi che ci hanno dato fiducia e ai quali noi abbiamo dato fiducia sin dall’inizio.

Ci piacerebbe tantissimo che qualcuno credesse in VEZ a tal punto da darci la possibilità (e il sostegno economico) di poter girare l’Italia per scovare e dare voce ai nuovi piccoli gruppi. Darci la possibilità di stupirci. Lo troviamo estremamente arricchente. VEZ non vuole arrivare ovunque e chi visita VEZ non si può aspettare di trovare tutto. Ma sicuramente può aspettarsi di trovare la nostra passione e il nostro cuore. Cuore che vorremmo mettere nell’aiutare le piccole band, i gruppi spalla, quelli a cui hanno promesso tante cose senza poi mantenerle, quelli che nonostante tutto non si sono mai arresi. Quei gruppi che vanno avanti con le loro forze e che ancora credono nella straordinaria energia e dirompente potenza della musica, fatta e trattata con onestà ed umiltà  e continuano a crederci come il primo giorno. Un pochino come noi.

E poi altre mille idee. Che non spoileriamo, un po’ anche per scaramanzia.

In ogni caso qualsiasi cosa sarà noi lo faremo con impegno, convinzione ma soprattutto divertendoci.  E con amore. Perché amore sembra una parola sopravvalutata, invece no, l’amore in questo lavoro è fondamentale. Anche nel prendere la macchina, guidare di notte, farti millemila chilometri per andare ad un concerto, senza nemmeno avere la certezza che si siano ricordati di accreditatarti. Quando magari non è una cosa che avresti fatto, perché sei in piedi dalle 7 di mattina, hai lavorato tutto il giorno e sei stanco morto, ma tu sei li, ci metti del tuo, ti piace, ti diverti e offri un servizio agli altri. Questo amore si è perso nel tempo. Si è perso nel giornalismo come nella fotografia, nelle arti. E VEZ vuole essere anche questo. La riscoperta del lavoro come passione. La riscoperta e la valorizzazione di sentimenti e principi spesso offuscati e dimenticati.

Proprio come farebbero due veri VEZ.

 

Federica Orlati