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Tag: lennon kelly

Diario di una Band – Capitolo Nove

“Stare lontano da lei non si vive, restare senza di lei mi uccide”

 

Lucio Dalla

 

 

Ti affezioni a certi oggetti, a certe semplici abitudini, a certi gesti. Ti affezioni nel prendere la via dell’ordinario senza snaturare, sgretolare e inaridire giornalmente lo stimolo di fare.

Suonare uno strumento non è del tutto un gesto meccanico, nemmeno sempre un rito sacro per carità. Suonare uno strumento è un collage di situazioni, condizioni e stati mentali, correlati indissolubilmente anche allo stato fisico. Lo paragono a volte al modo in cui scendevo in campo nel mio passato calcistico. Che sia stato allenamento o partita ufficiale, ogni primo passo e ogni prima palla toccata, ogni prima giocata, sanciva il tipo di relazione mentale che avrei avuto da li alla fine dei giochi.

Cosi succede per la prima pennata sulla chitarra. Lo senti il manico, se morbido o ostile, le senti le dita della mano che scandiscono il ritmo, se seguono la linearità del vento oppure no, lo senti il feeling con lo strumento, un po’ come appoggiare l’orecchio sul petto dell’amata e sentirne il pulsare del cuore, capendo che quel frangente di tempo è perfetto cosi e nessuno te lo potrà portare via.

E penso probabilmente in maniera folle o del tutto surreale che spesso sia proprio la tua “arma” spara note a dettarti i tempi, a darti e trasmetterti quel che ti manca in corpo in quel preciso momento, un po’ come ad accompagnare lentamente la palla in rete sulla linea di porta dopo un assist al bacio di un compagno di squadra (se vogliamo ritornare nella metafora calcistica).

Hai magari fatto una partita imbarazzante fino a quel momento ma l’aver insaccato quel pallone, palesemente per meriti che ti appartengono ben poco, fa decollare il match nel corpo e nell’anima, e da quel punto la musica cambia, la scossa è arrivata, si cambia registro, arriva qualcosa a compensare il vuoto di giornata.

Ed è cosi con lo strumento quindi, capisci che ti trasmette , che ti parla, probabilmente rendendoti indietro quello specchio di intensità e passione datole in precedenza.

Mi ha sempre affascinato e davvero mi ha illuminato di vita una leggenda giapponese che narra un concetto molto semplice ma che se preso sul serio rischia veramente di farti vedere il mondo con un’altra ottica. La storia vuole semplicemente dare un’anima alle cose, agli oggetti. Un’anima toccata dalle tante o poche persone che ne hanno fatto o ne fanno uso. Può sembrare pazzia, ma ripeto che lo è per chi si adegua a rispettare regole morali fondate sulla moderazione dell’anima.

Questa per me è divenuta una certezza abbastanza consolidata e a dir la verità è una convinzione che permette ai miei momenti di out cosmico di non sentirmi mai veramente solo. Mi incentiva all’applicazione pensare e credere che la mia chitarra preferita, storica (per giunta giapponese) ha la facoltà di sentirmi e consigliarmi, seguirmi ed aiutarmi, capirmi e perdonarmi.

Emma, questo è il suo nome.

Lei è una modestissima Takamine acustica, amplificata, mancina. Una chitarra semplicemente onesta, adatta perfettamente a me che sono un musicante che canta canzoni proprie in chiave punk folk, ma con la vena cantautorale stretta al nodo dell’orgoglio.

Chitarra che non si esalta in troppi virtuosismi, ma lo fa in linee guida che facciano da cuscino alle parole per renderle più morbide possibili. Legno chiaro, un’”ascia” normale che però nel corso di questi anni ha raggiunto una maturazione d’esperienza importante, trasformandola per me in un sacro e venerabile prolungamento del mio essere.

Ne ha viste più o meno di cotte e di crude in questo lasso di tempo e mi chiedo alle volte cosa racconterebbe se avesse la facoltà di parola per solo dieci minuti. E qui un classico legame “professionale” o di circostanza diviene un rapporto vero, legame profondo, una promessa reciproca che regala alla passione, al progetto, che poi è semplicemente la tua vita, una vena poetica e romantica.

Il tempo passato assieme, dai primi palchi blasonati, alle serate a chilometri infiniti da casa per esibirsi davanti a nessuno. Alle serate al fiume, alle giornate nel bosco, agli acustici col side project cantando i brani dei cantautori della mia vita. Alla “Pasquella”, vero e proprio rito sacro musicale Romagnolo nelle notti del 5 e 6 gennaio, ai campeggi estivi ed invernali, ai video clip girati in ogni condizione atmosferica, ai matrimoni degli amici, alle notti insonni a casa e a tutte le prove di questi anni.

Sommersa di risate, sommersa di lacrime, sommersa di gioie ma anche di tanto odio tramutato poi in ispirazione e necessità di emergere da ceneri un po’ troppo dense. Parte della famiglia insomma, parte di un modo di pensare e parte integrante di ogni ricordo che meriti di essere scalfito nel firmamento della memoria. Posso dire, appellandomi alla questione che ho esposto in precedenza che la mia chitarra mi conosce come un fratello o una sorella, nell’intimo, nella profondità del labirinto che traccia l’impellenza di fare musica.

Il principio di condivisione spinge ad affezionarsi e a legarsi per la vita a certe cose, per questo rimarrà sempre con me anche quando sarà ora di congedarla. Non puoi essere indifferente a questo se vivi coi nervi scoperti la musica come un’attitudine, come dovrebbe essere vissuta la politica per capirci bene, senza fini, se non quelli del benessere personale e comune.

Sarà difficile mandarti in pensione mia cara, ma l’usura e il tempo stanno parlando chiaro. Mi accorgo però del tuo sforzo, noto realmente che in certe situazioni chiedi una tregua, me lo fai capire e sento la stanchezza nel tuo corpo di legno che no sarà mai solo un involucro di suoni senza linfa.

Dopo mille revisioni, botte, sudate e sventagliate di sangue, cerchi la tua giusta cerimonia di chiusura, pronta per essere appesa al muro della stanza più importante di casa, in modo da essere sempre sotto la supervisione del mio sguardo, in modo che nei momenti di solitudine possa parlarti in maniera franca come fatto fino ad ora.

Può sembrare una cosa da matti parlarti, ma in fondo, chi sono realmente i normali?

Non di certo noi, e nemmeno vogliamo esserlo, per questo anche se le tue corde andranno a risuonare sempre meno e non sarai più cosparsa di birra e sudore, tu sarai sempre la mia fedele compagna di viaggio. Per sempre mia cara Emma, fedele ed intramontabile amica.

 

 

Diario di una Band – Capitolo Otto

Canzoni che ti salvano la vita Che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” Che ti danno la forza di ricominciare Che ti tengono in piedi quando senti di crollare Ma non ti sembra un miracolo Che in mezzo a questo dolore E tutto questo rumore A volte basta una canzone Anche una stupida canzone Solo una stupida canzone A ricordarti chi sei

 

Brunori Sas

 

 

Avete presente quei giocattoli degli anni ‘80 ‘90 che tornano come pezzi da collezione introvabili?

Ovviamente parlo come uno che è nato nella precisa metà degli anni 80, quindi perdo letteralmente il senno quando alla visione di certi giocattoli, veri e propri cimeli, riassaporo tempi andati ed incredibili flashback roboanti di scalpore emotivo. Sapori, odori, sensazioni. Come un sottilissimo filo invisibile legato al polso che senza preavviso ti strattona verso una capsula del tempo dall’efficienza immediata. Ricordo i “Masters”, il caschetto biondo discutibilissimo di He-Man e la faccia di mio fratello Mattia quando ci regalarono il castello di Grayskull. Coltivo e rinnovo un affetto smisurato per i “Ghostbusters”, dalla Ecto 1 in bacheca al fucile protonico che sparava cartucce gialle di plastica leggera, il giubbotto di jeans nero con il simbolo intramontabile degli acchiappa fantasmi e la visione a dir poco dozzinale di entrambi i film, capendo solo dopo i trent’anni di sapere a memoria ogni battuta dei lungometraggi. Ci sono le videocassette delle “Ninja Turtles” e la sigla di “Mazinga”, le canzoni (perché erano due e straordinarie entrambe) di “Carletto il principe dei mostri” e “Devilman”, la corsa a scuola cantando “Denver” e l’idiozia della ricreazione imitando “Pingu”. In realtà Pingu tutt’ora emerge in qualche aperitivo lungo con gli amici.

C’era 90°minuto a cena dai nonni e la Domenica Sportiva che sanciva innegabilmente la fine del week end coi gol di Van Basten e Maradona e l’attesa già spasmodica del piccolo spazio dedicato alla serie B con la speranza facessero vedere i gol del Cesena in trasferta. C’era guardare di straforo “Colpo Grosso” e l’harem di Umberto Smaila, c’erano “Bayside School” e “Willy il principe di Bel Air”, c’erano le “Micro Machine” e la fissa per lo “YO YO”… insomma un’infinita officina di ricordi che ora in maniera onesta ma spesso agrodolce vanno giustamente a mortificare l’asettico sviluppo dei nostri calvari giornalieri.

E cosa possiamo dire in merito della musica?

Sono certo che la musica fino all’avvento di internet e dei famigerati masterizzatori avesse un peso umano sicuramente differente, si prendeva con i guanti, ci si documentava per interessi, c’era una cultura del tutto più “paziente”.

Per carità, non scannatemi, adesso è tutto pocket, è tutto smart, è tutto di facile accesso e le possibilità di ricerca sono assolutamente quintuplicate. Il concetto che voglio trasmettere è che forse si è arrivati ad un punto di saturazione tale, ad un livello di possibilità talmente amplio che anche la ricerca verso un genere o una band particolare perde di senso ed efficacia.

Io per primo sono legato come una sorta di schiavo moderno alla magnificenza di Spotify. In casa, sul lavoro, in macchina, appena sveglio, prima di dormire, in campeggio, in vacanza, in tour con la band. Comodità e possibilità ad un prezzo più o meno ragionevole, insomma il costo esatto di due birre medie al pub. Però è chiaro che bisogna diversificare la strada e l’esperienza di come si è arrivati a sto punto partendo da un fulcro generazionale di base e avere la totale cognizione di ciò che non si è perso lungo il cammino.

I cinquantenni ora come ora sono i soggetti più a “rischio” nella giungla di Facebook e dei social network, per l’inesperienza sul campo, non per demeriti intellettuali o cognitivi, ma semplice abitudine di azione. Col serio rischio di demolire sottilissimi argini di decenza con fake news e un mondo nuovo all’apparenza disordinato che scombussola l’ormone ormai indirizzato al declino, si può incappare nella più totale e illogica strumentalizzazione del canale. In maniera speculare, con connotati diversi ma concettualmente similari le nuove generazioni hanno lo stesso tipo di bombardamento, subire delle circostanze senza conoscerne la fonte ne la motivazione. Non generalizzo in merito ma per lo meno una grande fetta non ha la cultura e la sacralità del gestire e manovrare la musica col rispetto che merita. Non è una colpa che si deve additare ai soggetti in questione. La struttura egemonica dei colossi musicali non lascia troppo all’immaginazione, il martellamento mediatico è a prova di scudo e ribellione, la RICERCA MUSICALE non è più tale semplicemente perche è divenuta una RICERCA di MERCATO. Ed è qui che muore la sovranità dell’anima e del passare le notti a guardare il cielo.

E qui arrivo al punto bisogna trovare una soluzione, una speranza, un simbolo.

Su due piedi penso solo a una cosa. IL VINILE.

Cazzo il vinile ancora oggi quanto spinge? Quanto regala? Quanto gusto trasmette tenerlo in mano, sfilarlo con cura e poggiarlo sul gira dischi con flemmatica cura? Impagabile. Potrà sembrare un viaggio anacronistico ma è il vero e unico viaggio della speranza che ci resta. Una forma di contatto coi nostri genitori, una formula alchemica che soddisfa più sensi in blocco, quello della vista, il senso del tatto e il senso dell’udito. Quel fievole saltellare accompagnato da un soffio leggero che esce dalle casse prima che parta l’inconfondibile sonorità che solo il disco può regalare esploda nella sua magnificenza.

Si potrebbe e si dovrebbe fare un discorso di questo tipo a chi vuole approcciare alla musica, raccontare le scorribande in scooter verso la “Sound and Vision” non appena la paghetta entrava nel marsupio della Napapijri e setacciare ogni angolo infausto del negozio di dischi che diventava in quel lasso di tempo una caccia al tesoro troppo importante. Non si poteva tornare a casa con un album scontato e quindi partiva la guerra di chi difendeva il punk all’italiana, chi si faceva paladino del metal, chi con lo skate oramai adottato come un estensione del proprio corpo non vedeva altro che la California in ogni sua forma. C’era dialogo e c’era competizione, sana e genuina, di quelle battaglie costruttive che ora comprendo meglio e ne faccio tesoro come una lezione di filosofia.

Semplicemente non ci siamo accontentati e abbiamo cercato e cercato la nostra strada fino a capire quale fosse il lido giusto in cui approdare, senza però perdere la libertà di scoprire e sperimentare.

Scrivendo queste righe mi accorgo della fortuna che ho avuto, non me ne faccio vanto come una mia conquista, il merito va ai miei genitori che di vinili e musica “buona” sono tutt’ora ghiotti ed è stato forse facile crescere con questa mentalità. Essendo sempre stato libero di scegliere ogni mia mossa, senza che mi fosse recriminato mai nulla anche quando della musica non me ne fregava troppo e pensavo solo a diventare un calciatore.

Insomma non si può recriminare un intera generazione se le cose vanno da schifo, se la politica collassa, se lo sport è un concorso di bellezza e se la parola e il dialogo sono stati soppiantati da uno smartphone. Loro, i giovani, ci sono nati in questo brodo fetido e non possono agire diversamente se non hanno esempi.

Quindi lunga vita a chi ci prova con la forza dell’interesse e della determinazione, a chi spende parole, tempo e penseri affinché vengano presi e coltivati da menti che hanno bisogno di essere plasmate. A chi non resta nelle quattro mura di casa, a chi spalanca le finestre ed alza al massimo volume la propria musica, la colonna sonora della propria vita. Una dedica ai miei colleghi di Vez Magazine, pionieri moderni di una vecchia ed immortale regola di vita, L’amore per la musica, fiero di farne parte al vostro fianco.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

 

Diario di una Band – Capitolo Sette

 

“Non vivo la crisi di mezza età dove “dimezza” va tutto attaccato

Voglio essere superato, come una bianchina dalla super auto

Come la cantina dal tuo superattico

Come la mia rima quando fugge l’attimo

Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo

Superare il concetto stesso di superamento mi fa stare bene”

 

Caparezza

 

Che sia la forza di un concetto, la vita presa di petto, un desiderio, un sospetto

Che sia la forza di mille comete, continuare a bere di gusto dopo aver sedato la sete

Che sia toccare per davvero la luna, quando anche le stelle prima o poi ci porteranno fortuna

Che sia un fiume in piena alla luce dell’alba, in mezzo al casino gestire la calma, col peso di piuma

sfiorare la calca, combattere il male con un colpo d’anca

Che sia la birra gelata dopo il lavoro serrato, il dovere gestito con tocco fatato, un tocco di fino, un

gol su punizione, colpendo la porta e il tifoso nel cuore

Che sia prospettiva e rimprovero onesto, l’immensità sacra nella vittoria di un gesto

Che sia una montagna all’occhio profana, scalare la vita con rabbia puttana, una roccia che fa da

scalino alla notte, il whisky perfetto proteggendolo in botte

Che sia lo sviluppo di una pace maggiore, quando l’universo si presenta come il vero Signore

Che sia marmellata sbordante sul pane, il sospiro finale sul punto di atterrare

Che sia un ballo stupido ma pieno di vita, gli applausi che fanno bruciare le dita, come fiori di luce

sparati da un mitra, bello come Marco Pantani in salita

Che sia un viaggio lungo e non scarno di ostacoli, afferrare la curiosità con mille tentacoli,

custodire i segreti del vino e degli acini, il sacrificio perenne della schiena degli asini

Che sia un’esistenza colorata di rosso, del tramonto, del sangue, debellare il “non posso”

Che sia un passo veloce, spedito e raggiante, che sia comunicare con tutte le piante, una corsa

infinita sull’otto volante, una risata da lacrime dal frastuono incessante

Che sia non avere buttato via il tempo, l’aver costruito mantenendo il fermento, anche quando ero

spento, anche quando dalla finestra vedevo solo cemento, quando la paura superava l’intento,

quando ho scelto un animo attento, quando ho deciso di comandare il vento

Che sia frustrazione quando si fallisce il bersaglio, cadere e ogni volta e fomentare il bagaglio,

magari curare il dettaglio, credere a un abbaglio e godere dello sbaglio se placherà il travaglio

Che sia legittima intesa, che sia una guida tenace e distesa, lontano da offesa, offesa verso il

pensiero totale, lontano dallo sporco inconcepibile del mare

Che sia un’abbuffata di more nel bosco, una voce mai udita che però riconosco, un’ossessione erotica dal profilo un po’ losco

Che sia leggiadria della mano sul manico, di basso, di chitarra, soppiantare il rammarico, un cannone di musica perennemente carico, incrociare lo sguardo dopo l’attesa sul valico, che sia un onesto “ragazzi ora niente panico”

Che sia lo scorrere di mille immagini, di ponti, di corde, distruzione degli argini

Che sia il più schietto vagabondare, l’arte dell’ozio unita a quella di amare, un colpo di sole che fa tentennare, l’onda perfetta su cui ricominciare

Che sia un ritrovo, un patto, un incontro cercato, ritrovare la strada su cui si è camminato, ritrovare lo spirito di un nonno ormai andato, far brillare il suo sguardo ancor determinato

Che sia finire la storia di chi non c’è riuscito, stringer mano alla vita ed accettarne l’invito, il patrimonio invisibile di chi l’ha capito, la libertà reticente di chi non può aver finito

Che sia la nuvola che soddisfi ogni mia sete, che sia il fuoco che sorregga le scelte mie incomplete, che sia la spinta verso il vuoto, che l’acquario dove nuoto, non accontentarsi della sufficienza, che sia un matrimonio con la determinazione e con la pazienza.

 

 

La speranza, come un compartimento stagno deve essere sempre presente, come un nucleo operativo centralizzato che coordina le scelte artistiche e non. Fare i conti con i propositi ha velature abbastanza paradossali, il gratificante sentore iniziale, la chimica che interagisce sul corpo dando sventagliate di compiacimento e soddisfazione, per poi elaborare l’idea e pensare in mezzo secondo a come sviluppare il proposito all’atto pratico. Sicuramente scrivere canzoni può avere il rovescio buono della medaglia, non essendoci una legge scritta e immacolata su come comporre brani.

Si può mettere in mostra la propria vena anarchica, partendo dal testo, da un soggetto, da una storia, da un giro di chitarra, da un po’ quello che si vuole. E la noia resta davvero alla larga quando si cerca una corrente sempre nuova per fare musica, stimolante e utile anche al fine personale di crescita artistica e perché no umana. Reinventarsi nella forma e nel colore come dicevano i Litfiba, perché è questo fare musica, reinventarsi, stupire se stessi, impressionare se stessi è la chiave di lettura per catturare l’ascoltatore ed il lettore.

Insomma abbiamo passato la vita a credere che si potesse colorare solo dentro alle righe, non uscire dai margini e vedere le sbavature come una proiezione di errore imprescindibile. Non voglio lazzo e non voglio neanche confini, sia in termini artistici che in termini esistenziali. “Combattere” la vita con la curiosità e la necessità fottutamente accesa nello scoprire cosa c’è oltre la montagna è la presa di posizione più romantica e interessante che un singolo individuo può regalarsi.

Significa vivere, non accontentarsi, migliorare chi si ha vicino e migliorarsi.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

 

Diario di una Band – Capitolo Sei

“Quando domani ci accorgeremo che non ritorna mai più niente, ma finalmente

accetteremo il fatto come una vittoria”

 

Francesco De Gregori

 

 

Bisogna saper lasciare andare, lasciarsi andare nel momento in cui il freno del dubbio inizia a fare presa. E’ una fatica bestiale lo so, e sembra facile scriverlo nero su bianco, come se poi chi scriva un articolo o un libro abbia tutte le risposte in tasca e riesca a catalizzare in pratica le parole che gli passano per la mente. Lasciamo questa convinzione alla pari della leggenda del Bigfoot o del mostro di Lockness.

Vero un cazzo, ammetto, è proprio una fatica bestiale, arriva spesso e non volentieri. Scrivere è un messaggio verso se stessi, il messaggio è quello dello sfogo, dallo sfogo poi ne scaturisce tutto il mondo conseguenziale, che ognuno interpreta in base alle proprie esigenze e al periodo.

Diciamo che scrivere è una radura dove esercitare le proprie inquietudini, le proprie paure. Le paure formano uomini e storie, costruiscono fantasmi e valorizzano la luce quando ritorna dopo un buio che sembrava non dovesse finire mai. La paura ha creato canzoni e speranze, ha distrutto vite e ha regolamentato guerre.

La paura va lasciata andare, va affrontata e addomesticata se possibile, bisogna imparare a conviverci e si deve per rispetto non trasportarla sulle spalle di chi si ha vicino. Invero la paura va condivisa come parte di un legame, di un collante aggiuntivo a un sentimento già forte e consolidato, ma non va scaricato come si scarica una vagonata di ghiaia su di un prato verde o come si fa con l’iva o le spese mediche ecco, non è un tornaconto e l’uomo non è nato per indole e spirito ad essere ilpungiball di qualcun’altro.

Si perché le persone non si legano solo nel bene, capita che le relazioni o i rapporti indissolubili nascano dopo un crash, dopo una mancanza di aria e ossigeno che quasi finisce per ammazzarti, se non fuori, sicuramente dentro.

Quindi? Devo stare a guardare che le paure prendano decisioni al posto mio o che il timore di stare bene faccia capolino? Devo preoccuparmi oggi perchè ho il terrore di non essere sereno domani? Ma oggi non sono sereno, e quindi pretendo di esserlo domani? No, per carità no, non voglio diventare un cane che si morde la coda all’infinito. Il rischio è grosso ma non posso permettermelo, nei confronti di me stesso e delle paure stesse.

Quindi devo agire, devo andare a prendermelo io il crash tanto agoniato e temuto, le devo provare a cambiare io le cose prima che loro cambino me e tutto quello che orbita intorno alla mia esistenza. Quel mondo costruito con sacrificio e una passione smisurata deve essere figlio della mia sconfitta o del mio riuscire, ma deve essere una mia fase, non ci possono essere elementi alienanti in questa guerra silenziosa.

Lo stress ha dato modo ai mostri sacri della musica di realizzare i capolavori che li hanno resi tali, la depressione ha fatto le fortune dell’ascoltatore, mai dell’artista. E’ bene idolatrare e santificare la genialità di un individuo, è giusto riconoscergli il valore artistico, compositivo e carismatico.

Proviamo però ad addentrarci nella paura interiore, a vedere sotto un’altra ottica la creazione di una canzone. Inseriamoci nella lotta quotidiana, nella speranza che come una fievole candela giornalmente si spegne per l’artista chiamato in causa, nella sua stessa causa. Il disagio come croce, una dote che non ci si può godere appieno come delizia.

E cosi il sapore dolce del talento si inasprisce di tormento, retrogusto di capolinea, come una spugna gettata troppo presto intrisa di troppo poco sudore perché la partita per quanto avvincente è durata davvero troppo poco.

Il talento a volte non basta, i soldi non bastano, la fama, la celebrità, la copertina, la Macchina, il sistema, le luci e i riflettori…non può essere tutto li, infatti la storia dimostra che non lo è. Come dice la frase di una band di Roma, i miei cari amici del Branco citano cosi: “avere ciò che vuoi non vuol dire che si avverano i sogni”. Sacrosanto.

E quindi cosa è meglio? Cosa devo cercare dentro a una paura? Cercare di arredare la facciata e rischiare di morire di freddo, nell’ombra dell’insoddisfazione e della “possibilità” come scopo unico e primario? Oppure arredare una stanza, magari più piccola, comoda, sigillare una quiete senza pressioni, mantenere un equilibrio che può avere le sembianze di un compromesso?

Non mi sono mai piaciuti i compromessi e la pago da una vita questa condizione.

Quindi magari resta solo scrivere, produrre pensieri e propositi, combattere i fantasmi giorno dopo giorno, senza fretta, sulle macerie, sulle risate e sulle favole che sempre troppo hanno giocato un ruolo increscioso per quanto allettante, ma è bene mantenerlo un contatto diretto con con le favole perché è un bene invisibile atto allo sviluppo delle percezioni in un costante ricircolo con l’obbligo del sopravivvere.

La paura di crescere e perdere di vista il bivio di una famiglia, scoprire i vizi troppo tardi e non sapere reggere il confronto con le assuefazioni, lo sgarro morale e lo sgretolarsi delle certezze. Abbiamo paura di crederci in sti maledetti e benedetti sogni ogni giorno che spunta un capello bianco contornato da una piccola ruga in più, quasi a sancire una piccola sentenza quotidiana che punzecchia ma non ferisce ma che alla lunga lascia lividi e impercettibili gocce di sangue.

Ai giovani posso solo consigliare di fare tesoro delle paure, rendendoli sensibili al fatto che  in questi tempi storici infausti diviene un privilegio raro avere delle percezioni sensoriali acute e interessanti.

Anna Antoniazzi, scrittrice che cura il folklore Romagnolo in tutte le sue sfaccettature cita una grande verità:

“Abbandonare le storie tradizionali e le fiabe, al contrario, significa privarsi della palestra per esercitare le proprie inquietudini e i propri timori e, spesso, ancora più drammaticamente, abbandondare le armi e procedere a mani nude verso l’ignoro”.

Abbiate nella paura di scoprire un alleato, diffidate dalle paure che limitano la necessità di scoprire, voi stessi e il mondo intorno a voi, altrimenti si resta fermi sul posto.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

Diario di una Band – Capitolo Cinque

“Vecchia sporca Dublino, per un figlio che ritorna sei una madre che attende al tramonto, con la puzza di alcol, coi baci e le canzoni per chi è stato un prigioniero lontano”

 

Modena City Ramblers

 

 

Ci sono luoghi che inevitabilmente ti rendono schiavo per tutta la vita. Dato di fatto.

Adesso però facciamo un ragionamento impopolare. Esuliamo dal canonico e regolamentato significato negativo che si attribuisce ordinariamente al termine “schiavo” e proviamo a incastonare in maniera positiva e forse paradossale questa parola in un contesto dalle vibrazioni dall’alto coefficiente costruttivo, anche se di per se, per come la conosciamo non può suggerire nulla di positivo.

Tutto avrei pensato in realtà, ma non sicuramente di trovare del buono in questo termine. Invece esistono catene, fili invisibili che non per forza limitano le movenze di vita e nemmeno lasciano cicatrici come una sgradita eredità nel binario del tempo che evolve.

Che sia un legame dovuto a una particolare esperienza, che sia un incontro che abbia segnato il destino di un amore, un bivio che abbia scandito una scelta importante, che sia la città dove la tua squadra del cuore abbia raggiunto un insperato quanto tanto atteso risultato sportivo. Nulla sarà più come prima, e certi luoghi ogni volta che torni a metterci piede non avranno mai un sapore scontato.

La musica come ogni forma d’arte ha diritto e necessità di avere una propria dimora, un focolare dove svilupparsi, un fuoco che vada a riscaldare e a rinnovare di luce una tradizione fatta di parole e sensazioni.

Penso su due piedi alla magia nordica dell’Islanda quando ascolto i Sigur Ros, intravedo Boston quando mi lascio ispirare dai Dropkick Murphys, mi immedesimo nell’appenino tosco-emiliano quando ascolto certi versi di Guccini, scopro mezzo mondo, in un turbinio temporale unico nel suo genere, quando analizzo De Andrè.

Amo pensare appunto, tramite la mia esperienza e concezione di vivere e sviluppare l’ascolto, che la musica e le parole figlie dalla farina del mio sacco abbiano la stessa presa sull’ascoltatore, un rapporto tra scoperta e ricerca.

Essere identificato, messo in correlazione a un luogo o più luoghi risulta una conquista dall’inestimabile valore interiore che poi esplode nell’entusiasmo costruttivo del quotidiano, perché nella verità dei fatti l’intento di questi brani prevede e richiama a certe isole felici.

La condivisione capillare e l’adrenalina che ne concerne a questo punto supera la maggior parte delle fonti di successo ordinario. La gratificazione concettuale, per chi la riconosce, sa che detiene e comanda le sorti dei dettagli.

Ampliare lo specchio dei significati emozionali, vedendo ogni sfaccettatura spirituale della musica come un tassello di un puzzle in 3D.

La mia storia racconta l’aver ritrovato fiducia nella musica dopo un viaggio fondamentale, e mi chiedo cosa sarebbe stata la mia vita adesso, se quel giorno di marzo del 2009 non avessi preso quell’aereo per Dublino.

Quando l‘attitudine batteva il cinque al superfluo, quando l’impellenza di fare musica per fare successo aveva lasciato spazio ad una partita che non ha mai retto il confronto con ciò che in realtà, nel mio profondo desideravo fare.

La penna prendeva polvere, i cassetti in camera si riempivano ogni giorno di più come uno scantinato troppo piccolo per contenere un grande mondo lasciato a se stesso. La scrivania che diviene giorno dopo giorno una prolunga dell’armadio, sempre più un semplice punto di accumulo di vestiti e vecchi propositi.

Il tempo passa, la musica si allontana, l’anima diventa sottile, lo spirito diventa una camicia bianca uguale ad altre mille, dentro a una discoteca qualunque, piena di gente qualunque che cerca di passare un sabato sera qualunque, per tornare poi ad una vita inevitabilmente qualsiasi.

Credere nella musica tramite certi luoghi è un modo di darsi un senso, come disegnare la propria figura e scegliere uno sfondo che sia più vicino possibile alla meta che si vuole raggiungere.

Vale per chi fa musica, per chi dipinge, per chi scrive.

Il contesto in cui si sviluppa un pensiero artistico è inevitabilmente legato a un luogo, a un mondo, che non per forza debba esistere realmente. La magia dell’immaginazione risiede anche in questo, non avere vincoli di spazio e tempo per sentirsi a casa ed essere libero, a proprio agio, leggeri.

Ecco qui si sposa l’ossimoro perfetto, essere schiavo dell’immaginazione più efferata e determinare la libertà creativa totalizzante. “sono schiavo dell’infinito e della fantasia, posso fare tutto ciò che voglio, perché nella mia visione di arte le regole le detto io”.

Sarebbe bello in tempi infausti come questi, avere una generazione curiosa che sappia riscoprire un linguaggio unitario basato sul concetto di calore domestico e farlo conoscere al mondo.

Detto ciò bacchetto anche i più grandi perché non è mai troppo tardi per reinventarsi, darsi un nuovo punto di vista. Non è mai troppo tardi per imparare un’arte, tutto è delineato dalla soglia di una curiosità che forse non si sa nemmeno di possedere, la fatica a questo punto è farla emergere.

E su questo credo anche i più navigati debbano ragionarci, avendo la consapevolezza che un viaggio o un luogo non contemplato possa aprire e nel miglior caso delle ipotesi, spalancare porte preziose.

In fondo il senso di appartenenza si può ridurre a una singola stanza, paese, castello, uno spazio delineato e particolare, dalla storia propria e dalla vita propria, oppure ancor più con stampo anarchico si può essere semplici cittadini del mondo. Di un mondo sbagliato magari, ma di una sfera che ancora ruota nel senso corretto anche grazie a energie e intenti di pionieri presi poco sul serio.

 

Non sentitevi mai da soli quando avete un luogo sempre presente nel vostro modo di pensare, in fondo ovunque sarete, prima di dormire, vi farà sempre sognare.

 

 

 

Diario di una Band – Capitolo Quattro

“Con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria

E a un Dio senza fiato non credere mai”

 

F.De Andrè

 

 

Contaminazioni. La vera storia, il vero percorso musicale di una persona nasce in tempi remoti, laddove la memoria del soggetto in questione probabilmente non riesce ad arrivare, se non scavando veramente a fondo, rosicchiando forse quei primi passi che i timpani assorbivano, zampettando dolcemente nella più totale e caotica beatitudine che un pargolo può avere.

Una spugna che assimila le influenze dai genitori, dai fratelli maggiori o dagli zii. Molte volte è un concorso di colpe che crea veri e propri “mostri” di personalità, a volte arroganti, a volte riflessivi, a volte melanconici, a volte trascinatori inesauribili o testardi senza freno inibitorio.

Quando l’ascolto e la passione per l’ascolto diventano uno stile di vita, quando si scalfisce in maniera preponderante il peso specifico caratteriale andando cosi a contemplare la potenza della magia del pentagramma.

La colonna sonora di una vita è costellata di periodi più o meno lunghi e più o meno stratificati, più o meno incisivi forse, ma ognuno lascia un segno, un particolare che rende unico e originale ogni persona che vede la musica come un’autostrada da percorrere giornalmente.

A volte su una fuoriserie sportiva, a volte andando al galoppo di un drago, a volte semplicemente passeggiando sotto la neve. La cosa bella è che ognuno ha la libertà di scegliere la strada musicale da percorrere e corredare a proprio piacimento i dettagli, decidere se sacrificarli, se farli esplodere, se crederci o meno, per l’appunto, ai dettagli, vero ago della bilancia in questione.

Tutto ovviamente in base alle esigenze mentali e fisiologiche del caso. Il contorno che avvolge le proprie intenzioni durante il viaggio è un gioco di specchi che riflette ogni sfaccettatura caratteriale di un individuo andando a consacrare cosi una statua granitica di melodie.

Mia madre mi dice sempre che sono un “giovane vecchio”, come biasimarla. Sono riuscito nell’intento, senza nemmeno volerlo, di imparare ad amare tante tipologie di musica, figlio della curiosità, ho solo una sola certezza in questa vita, ovvero i miei antagonisti acerrimi: la noia e la soffocante routine.

Ho fatto un gioco, un piccolo esperimento che al fine risulta anche simpatico. Ho provato a scavare nel baule del tempo i primi tre dischi che ho ascoltato all’esasperazione, scarnificato, spolpato. Dopo averli focalizzati, ho provato a capire se hanno inciso sui gusti, su l’attitudine, su la personalità, tratti identificativi che oggi compongono il MIO essere, musicale e non.

Col massimo stupore il rapporto si sostiene bene. Gioco che invito ogni lettore a provare, sicuro che il collage dei ricordi sarà più amplio del solito, sicuro del fatto che si apriranno automaticamente tante piccole finestre sul passato.

Ci rimasi di stucco quando, una volta composto questa particolare graduatoria ho realmente appioppato un peso equilibrato ai tre dischi in questione plasmati alla mia vita.

Dookie dei Green Day fu un regalo di mio fratello Mattia nel lontano luglio del 1995. Ho compiuto dieci anni e come prima cosa, arrivato in doppia cifra ho scoperto il punk rock.

Mi innamorai istantaneamente della disinvoltura come respiro primario, mi innamorai della chitarra distorta, folgorato da quell’ approccio sfrontato al quotidiano che rimbombava come uno “WOW” interminabile e di quella vena ribelle che ovviamente ai tempi non potevo conoscere e concepire, ma quel lenzuolo di stoffa ruvida me lo sentivo veramente comodo sulle mie piccole spalle.

Resta l’album che ha spalancato le porte della rozza vena che amo ancora mettere davanti a ogni mio proposito musicale. Un disco che scivola via dalla prima all’ultima canzone.

Oggi come ieri un rifugio di immagini e ricordi, di campeggi con le chitarre acustiche scordate e l’avvento dei primi sogni di gloria, quando per sfida o presunzione cercavo di assomigliare a Billy Joe, recependo gli input della sua immagine come una vera e propria figura mistica.

Credo di essere una persona del tutto propensa al divertimento, tentando di sorridere al massimo delle possibilità, cercando sempre di prendermi poco sul serio quando può giovare chi mi circonda e godendo in compagnia, facendo dell’auto ironia un’arma di condivisione di massa. Questa attitudine jokeristica la devo senza a dubbio all’album di Elio e le Storie TeseEat The Phykis 1996.

Togliendo il fatto che la suddetta band è una vera officina di tecnica e precisione, accademia pura per ogni tenace ascoltatore, volevo focalizzarmi su un’altra sfaccettatura. Ciò che prendo in esame e che ora posso vedere in maniera più cristallina è la delicata causa dell’ironia, della metafora e della denuncia mai diretta, ma velata e nascosta dietro all’aneddoto e alla similitudine.

“La terra dei cachi” nel suddetto anno fece la fortuna e scalfì la sfumatura un po’ eversiva del Festival di San Remo, fin li rimasta abbastanza sterile di personalità dai tempi di mostri sacri come Rino Gaetano e Luigi Tenco.

Lo dimostra il fatto che, nella finale, agli artisti veniva concesso un singolo minuto di tempo per poter convincere il pubblico a spingerli verso la vittoria. La logica e l’ordinario, il canonico e conseguenziale pensiero strategico metteva questo minuto a disposizione dello spezzone più incisivo del brano, in linea di massima il ritornello governava questi 60 secondi di “dentro o fuori”.

La follia o la prospettiva, non so come chiamarla, ma Elio e Co. presero la loro canzone, raddoppiarono la metrica, suonarono “la terra dei cachi” in maniera impeccabile e velocizzata, restarono dentro il minuto disponibile. Per me, undicenne fu epico. Sconvolto!!!

Un messaggio chiaro, affascinante, ero divertito, stregato. Mi feci comprare il cd dai miei vecchi che ai tempi ordinavano spesso dischi e quant’altro su di un catalogo musicale che si chiamava “OK MUSIC”. Volevo saperne di più, volevo capire cosa potesse esserci dietro a quegli “scappati di casa”.

Quello che venne in futuro in compagnia dei dischi di Elio e le Storie Tese è semplicemente storia.

La bellezza del rischio, di osare, di vedere un finale diverso e perché no, un finale ontologico, mantenendo il sorriso e il coraggio. Senza dubbio virtù trasmesse alla leggera dagli zii di Milano.

Ultimo ma non ultimo, sempre nello stesso periodo, forse l’anno dopo, scoprì la bellezza e l’ammirazione che provo con rinnovato affetto anch’oggi per la rima. Divenuta in seguito una compagna fedele, amica sempre pronta alla “battaglia” che pareggia ogni mio stato d’animo quando ne percepisce l’affanno.

Iniziai a scrivere molto presto, e ricordo che la prima canzone che buttai giù, per esigenza, rigorosamente in rima e senza sapere minimamente tenere in mano una chitarra fu un inno all’Uomo Ragno, potevo avere 9 anni, non di più. Mia nonna Clara e mio nonno Mario tenevano un’edicola a San Carlo, il mio paese di nascita.

Avevo a disposizione una vasta gamma di fumetti, ma Peter Parker aveva qualcosa che andava oltre gli altri paladini dell’universo Marvel. Il mio super eroe al fianco di Dario Hubner e Marco Van Basten. Quindi tra un fumetto e un giornaletto porno che di soqquatto finiva nel mio Seven assieme ai libri di scuola, (mossa faceva le gioie dei miei compagni di classe ovviamente), scoprì l’amore per la scrittura e di conseguenza per le donne.

In quel periodo storico esplose la melodrammatica guerra giovanile nella mia zona tra chi ascoltava il Rap e chi ascoltava il Punk California modalità skate. A me il rap ha sempre destabilizzato, se non qualche sberla del primo Neffa e dei Sangue Misto, o di precursori come I Cavalieri della notte, altri tempi.

Però esplodeva a livello commerciale e radiofonico in quel periodo il successo nazionale degli Articolo 31 e Così com’è mi ha insegnato quella linea di scrittura martellante, incalzante, accattivante, rigenerante.

Ai tempi non scriveva cazzate J AX e per un adolescente brani col ritornello che fa “Con le buone si ottiene tutto” era un monito chiaro. E’ ovvio che bisogna avere la scaltrezza e la fortuna di assorbire e apprendere certi segnali dall’universo, ma quella frase, di una canzone che poi è passata in tempo celere nel dimenticatoio, mi ha sempre battuto sulla spalla, come un soffio di educazione mai svanito.

Ho scritto una canzone rap nella mia vita e mi ha pure soddisfatto ma prendo da quei tempi passati la voglia e la necessità di non banalizzare una canzone con testi scontati, frivoli o poco significativi, per lo meno per me.

Cosi come un tatuaggio, una canzone credo vada fatta per necessità interiore, per un tangibile sostentamento emotivo. Scrivere per trasmettere credo debba valere come cicatrice che nel bene o nel male farà sempre parte di te, parlerà sempre di te.

Fatevi un giro nel passato, tirate fuori le vecchie foto dagli album di famiglia, mettetevi intorno a un tavolo con amici e parenti e aprite il baule magico del passato, della spensieratezza, del collaudo verso la vita.

Son sicuro scoprirete più sensazioni e propositi che sono stati sepolti per anni, e che nella frenesia di oggi porteranno una boccata d’aria senza dubbio rigenerante.

 

Vasco Bartowsky Abbondanza

Diario di una Band – Capitolo TRE

“E da qui… e da qui…
qui non arrivano gli ordini…
a insegnarti la strada buona…
E da qui… e da qui…
Qui non arrivano gli angeli”

Vasco Rossi

 

 

Non è sempre un gioco in cui si vince, non lo è, non lo è  affatto. Diventa maledettamente difficile in certe circostanze mantenere la lucidità, essere “legittimi” e macinare senza mandare al risparmio la materia della costanza.

Ci sono giorni, periodi soprattutto, che hanno lo stesso attrito di un peso di cemento legato alle caviglie, dentro al mare della vita, obbligato ad avere la forza per nuotare  troppo in alto per prendere l’ossigeno necessario.

La musica, quella fatta con la luce delle sensazioni e dell’entusiasmo appartiene alle persone che in dote hanno un empatia spiccata. Germogliano emozioni, il concerto raggiunge picchi di collaborazione col pubblico da far venire la pelle d’oca e ogni tanto perché no si arriva alle lacrime quando la mente è sgombera, immune, impermeabile da inganni e cattivi pensieri.

Essere in grado di sviluppare una situazione musicale avente al centro un cuore pulsante di emozioni rende tutto più facile e fluido. Si inerpica però con la stessa moneta quando il buio soppianta entusiasmo e propositi.

In questi casi però si ha l’obbligo e la responsabilità di marciare a testa alta contro un sole che prova a bruciarti gli occhi, e hai il maledetto compito di tenere duro, soprattutto quando si parla di un concerto live.

Puoi avere problemi con la fidanzata, può essere un casino la situazione in famiglia, puoi avere in coma un caro amico per un incidente avuto la sera prima del concerto a 500 km da casa, può morire il tuo cane che è praticamente parte della famiglia da quindici anni. Possono succedere tutte queste cose e tu non puoi farci proprio un cazzo di niente.

Quindi cerchi di distrarti, cerchi di evadere, ti ritrovi pure a pregare l’universo, a sperare che tutto possa sistemarsi per il meglio. In mezzo a questa situazione devi essere vigile e catalizzare la disperazione in energia positiva che anche a km di distanza possa raggiungere chi ha bisogno in quel momento di ogni molecola di speranza.

A volte va bene, a volte no. Sali sul palco col groppo in gola, con gli occhi vitrei e con la mano che trema. Parti e automaticamente credi sia l’ultimo concerto, il più importante di tutti, il concerto del giudizio. E lo è davvero perché hai la responsabilità di non lasciare al caso nemmeno un millimetro di banalità, lo fai per chi sta lottando, per chi è in bilico.

Il pubblico diventa un film muto, gli amplificatori sparano bolle distorte di vento caldo. Ti lasci accarezzare da questa brezza, cerchi gli sguardi dei tuoi compagni che sanno perfettamente cosa stai vivendo e provando. Uno strizza l’occhio, l’altro acconsente con la testa come a dire “stai facendo la cosa giusta, fagli vedere chi vince”.

Canti e pensi, gridi e pensi, prendi fiato e pensi, presenti un pezzo e strappi il colore del concetto del brano con le unghie e con i denti perché chi ti sta ascoltando si fida di te, forse è in una situazione speculare alla tua e ha bisogno di essere sollevato.

Qualcuno può avere perso il lavoro o aver subito un torto, qualcuno può essere andato in ferie dopo mesi di prigionia serrata, ognuno può avere la propria battaglia più o meno pesante da combattere.

E tu sei li perché devi deviare la tristezza sul binario della spensieratezza, ma sei il primo ad essere in un turbinio di paura e inquietudine. Quindi prendi l’ossimoro in questione, lo svisceri e ti metti la maschera di ognuno che hai davanti.

Lo fai come scappatoia perché loro non lo sanno, ma tu hai bisogno del loro supporto tanto quanto loro lo hanno del tuo. Nasce una comunione, un paracadute che parzialmente accontenta tutti, una tregua, un “cessate il fuoco” provvisorio ma che ha tanto il sapore di una boccata di ossigeno.

Finisce il concerto, cambio improvviso di scenario degno del miglior Tim Burton, ringrazi e abbracci i tuoi fratelli per la loro preziosa spalla diventata di granito, indissolubile. Decomprimi un attimo prima di smontare le tue cose dal palco.

Pensi che non serve a niente magari aver scritto il nome di Christian sulla chitarra, ma speri che una piccola vibrazione possa scuotere il sonno prematuro di un ragazzo buono. Vibrazione come quelle del Nokia 3310 per intenderci, quelle che ti facevano sobbalzare di notte ai tempi delle superiori e poi “si ciao, chi dorme più adesso?”.

E qui entra in gioco la tua fragilità, dalla quale però ora non devi più nasconderti perché sei fatto di carne, ossa e sentimenti come tutti, e nella lotta di chi cerca di distinguersi, essere mescolato alla massa è un sollievo, ti arriva una spasmodica e necessaria voglia di normalità, colmabile con una buona notizia sullo smart phone magari o con un abbraccio di chi oramai ti conosce come le tue tasche.

Sai che hai suonato al massimo per chi fa parte della tua vita, della tua quotidianità. Figure che non rivedrai forse mai più, e li vuoi fermare il tempo, cercando di capire se il limbo della paura può durare per sempre oppure no. Ora non devi vergognarti per nessuna cosa al mondo di ogni reazione, perché è legittimata dall’amore.

Qui si inizia a percepire il legame tra sacro e profano che unisce la morte alla musica. Sei spaventato, ma hai fatto della musica la tua ferma compagna, quindi esigi conoscere ogni sfaccettatura, ogni cunicolo buio da illuminare e la morte volente o nolente fa parte del gioco, un fottutissimo gioco in cui non vince nessuno.

Tutto si ridimensiona e ti appare il mondo come un posto che seppur influenzato e deteriorato da pessimi principi è giornalmente una chance da sfruttare. Capisci che ogni soddisfazione anche se misera è una piccola vetta scalata, un mattoncino su cui costruire, perché anche sulla macerie è doveroso provare a costruire.

Diventi piccolo e senza potere, si fottano la boria e la presunzione, davanti alla morte ogni obiettivo raggiunto è un prodigio, farlo con la musica è un privilegio da trattare coi guanti dell’umiltà.

Per avere una panoramica reale, a 360 gradi della vita che vuoi fare, sei obbligato a conoscerne ogni volto, anche il più scomodo e quest’arte è la dimostrazione vicina e più a contatto con le sensazioni della gente.

Canteremo anche del ricordo, perché sia presente ogni giorno nei gesti più comuni, in fondo la morte si può anche esorcizzare, con l’amore

 

A volte va bene, a volte no.

 

A Seppe

A Icio

A Pablo

 

Vasco Bartowski Abbondanza

Diario di una Band – Capitolo Due

“Ma con chiunque sappia divertirsi mi salverò
Che viva la vita senza troppo arricchirsi, mi salverò
Che sappia amare, che conosca Dio come le sue tasche”

Rino Gaetano

 

 

Caparezza disse che è sempre stato contrario ai talent show perché la musica non è una gara. Questo pensiero mi ha fin da subito affascinato, un po’ come un coro da stadio riuscito dopo un gol al 90esimo minuto. Rimasi di stucco appena lessi quelle sue parole, cosi semplici se ci pensiamo, ma cosi terribilmente rivoluzionarie in rapporto allo sterile dominio televisivo che ha gradualmente e capillarmente condizionato il palinsesto musicale.

Qualcuno potrebbe dire “ è facile parlare male del main stream quando non ci sei dentro”, giustissimo.

Però, e sottolineo però, bisogna capire la vera logica di un artista, di una band o di un cantautore. Il tipo di contributo che può dare una forma d’arte quando alla base è semplice gioia di creare, andando oltre ad ogni concetto d’ imposizione, oltre ogni numero di graduatoria e oltre a ogni conto in banca.

In sintesi è libertà allo stato puro, impermeabile da tossine, eretta su di un concetto che sosteneva fino a tempi non sospetti le possibilità e le speranze di giovani e meno giovani sognatori di professione, in balia di un settore che ancora consentiva colpi di scena .

Sembra assurdo come la ricerca della libertà espressiva sia deragliata fuori concorso, un presupposto anacronistico che personalmente destabilizza e preoccupa. Nessuno negli anni ’70 avrebbe pensato che in Italia la figura del cantautore avrebbe raggiunto tale resa, un po’ come il tracollo di Blockbuster per fare un esempio pratico, in fondo chi l’avrebbe mai detto?

Si modifica il corso degli eventi, si riduce al minimo lo sforzo per avere accesso alle possibilità, la gavetta è percepita come un gesto di autolesionismo, il paladino armato di chitarra è stretto tra gli slogan e la pochezza di un movimento denominato “Indipendente” o “Indie”, come preferite.

Vera macchina fotocopiatrice che vomita cloni più o meno bellocci da spremere per quel poco di tempo che serve ad alimentare il motore di un mercato sempre più lontano dalla bellezza della musica per quella che è, per quella che ci ha fatto innamorare e credere di poter cambiare le cose, (per lo meno migliorarle).

Da “pischello” i miti del punk rock erano una sorta di miraggio, idoli che spesso portavano alla frustrazione. La California dentro e fuori , il riflettore, la festa perfetta marchiata post America Pie. Bello, figo e allettante. Impazzivo sognando e sognavo impazzendo.

Si suonava, ci si provava e si cadeva spesso fino al punto che però la musica passava in secondo piano. Quando l’apparire diventò più importante dell’essere, inevitabilmente il giochino si ruppe senza possibilità di rimettere i cocci al loro posto.

Un chiaro segnale, molto tenue, ma palese e lungimirante su ciò il futuro avrebbe riservato, come possiamo toccare oggi con mano e orecchi.

Decisi di mollare la presa, lasciando la penna e la chitarra in un angolo per tre anni. Fino al primo viaggio a Dublino, dove l’assenza di pretese e castelli troppo grandi, mescolati alla scoperta di una cultura musicale e umana molto simile a quella del popolo Romagnolo mi hanno spinto a riprendere lo smalto abbandonato.

Reinventarsi con stimolo, sulle macerie di una passione che ha tracciato una cicatrice profonda e dolorosa. Mescolare le carte del passato e dell’imminente scoperta è stata una sfida troppo allettante. Gli astri poi si sono allineati, i compagni di viaggio arrivati come fossero li pronti a rispondere alle armi, inneschi e propositi incastrati come una partita perfetta a Tetris e condivisi dalla gente che gradualmente, aumentava ad ogni concerto.

E dopo appena tre anni di lavoro ho avuto la soddisfazione di poter suonare in molte occasioni, in Italia e all’estero al fianco di artisti che in giovinezza mi avevano condizionato e riempito di inavvicinabili aspettative solo perché io prendevo quello che non andava osannato, la presunzione.

Situazioni che sono arrivate inderogabilmente dal momento in cui l’assillo di arrivare e di dover eccellere non esisteva più. Aver una mentalità flessibile, che si accontenta ma che non si abitua all’ordinario, combattere la noia e consacrare i propri principi, i propri luoghi d’appartenenza, rapportare alla musica uno stile di pensiero e non ragionare solamente sul pentagramma.

Contornarsi di persone che abbiano la veduta semplice, serena e determinata, che sappia ridere e piangere quando è necessario, che ami la natura e per natura ami la vita.

C’è chi i castelli deve costruirseli per arrivare al cielo e chi in un castello vero e proprio ha la fortuna di creare e personalizzare tutto il tempo utile.

La predisposizione di chi ha scritto le pagine felici della storia non sono da ricercare nelle aspettative o nella scaltrezza di saper cogliere il momento giusto per comporre la melodia giusta, tra tenacia e paura lo scalino è breve. L’assillo di convincere la massa senza prima convincere se stessi è un rischio grosso che porta a conclusioni sterili o comunque a un prodotto fasullo.

Apprezzo chi lo fa, l’ha fatto e lo farà per la causa unica, la ricerca spasmodica di qualcosa di puro e personale che sia degno di essere ricordato e che possa rendere un po più semplice la vita di chi non per scelta è costretto a vivere nelle difficoltà.

Scrivo queste righe da persona libera e suono la mia musica da persona libera, per questo sono sereno di dire sempre quel cazzo che mi pare.

Il mondo non lo cambieremo ma per lo meno proviamo a colorarlo, perché in ogni caso le matite funzionano anche con la punta sbeccata.

Non aspettarsi niente, ma essere consapevole di poter dimostrare tutto.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

Diario di una band – Capitolo Uno

“Caselli d’autostrada tutto il tempo si consuma ma Venere riappare sempre fresca dalla schiuma 
la foto della scuola non mi assomiglia più  ma I miei difetti sono tutti intatti.
E ogni cicatrice è un autografo di Dio nessuno potrà vivere la mia vita al posto mio.
Per quanto mi identifichi nel battito di un altro sarà sempre attraverso questo cuore.
E giorno dopo giorno passeranno le stagioni ma resterà qualcosa in questa strada. 
Non mi è concesso più di delegarti I miei casini. Mi butto dentro vada come vada.”

Jovanotti

 

Capitolo Uno

 

Abbiamo sempre bisogno di attaccarci a qualcosa, per esigenza, per noia, per paura, per sfida, per non sentirsi dalla parte di un’utilitaria da rottamare. Massimo rispetto sia chiaro, a chi macina chilometri in maniera incessante, riconoscendo i propri limiti che spesso sono dettati dalle possibilità e non dalle intenzioni.

Fare parte di una band è un po’ cosi, un crocevia tra l’officina di un meccanico e la potenza di un decollo di un 747, avendo ovviamente il controllo della cloche.  La parola “band” parla di tutto e parla di niente, può prendere le sfumature più improbabili come può cadere nella banalità più sgretolante. Chiunque può utilizzare il termine band, non tutti però hanno il privilegio e la credibilità di poterla rapportare alla concretezza della vita vissuta.

Un po’ come se la musica ad un certo punto passi in secondo piano, un po’ come se la musica stessa sia a decidere come comporre la tua vita e quella dei tuoi compagni di viaggio. Una rovesciata come stile di vita, un capovolgimento di fronte, talmente incisivo che ti permette di sederti, di metterti comodo e farti scegliere dalla musica stessa senza temere paure verso il futuro.

Alchimia che si sviluppa in base a quello che hai voluto diventare fino al punto di incontro indissolubile con la musica, come un rito pagano, come un matrimonio, una promessa: “Musica ho scelto te in ogni momento, cercando di metterti al centro di ogni mio stato d’animo… ora tocca a te prenderti cura di me perché ho bisogno di risposte dalla vita e tu sei stata sempre presente nel bene e nel male, mi fido”.

Chi può conoscerti come ti conosce la musica?  Forse la mamma, forse un fratello o una sorella, forse la tua band.

Diventare parte di un meccanismo, abbattere il ponte del tempo, abbandonare lo smarrimento esistenziale e non aver paura di rischiare quel qualcosa in più che ti ha tenuto per troppo tempo per le palle. Mettersi in ballo con le scarpe più comode e decidere di ballare fino a quando le gambe avranno la forza di sorreggerti. Insomma, siamo tutti bravi a raccontarci le favole, a perdonarci la pigrizia e a mollare alle prime difficoltà.

Vero e per nulla sbagliato, però la vita all’interno di una band è un concorso di colpe e di coscienze, di pacche sulle spalle e calci in culo costruttivi, di risate e discussioni, atte sempre al fine massimo ch’è costruire una storia che meriti la pena di essere vissuta. Ne deve valere la pena, ne deve valere soprattutto l’allegria.

Vivere all’interno di una famiglia ti mette di fronte a scelte, a caratteri distinti e a sacrifici.

Quando capisci che una band funziona? Lo capisci quando ti puoi scornare prima e dopo un concerto per dei punti di vista distanti, ma riesci con senso del dovere a mantenere senza sforzo l’integrità umana basilare, il dire “grazie” o  “per piacere”, rispetto sacrale verso gli addetti ai lavori, vero tappeto fatto di storie e persone che permette lo scorrimento giusto di uno show. Questo è quello che fa dei componenti di una band degli uomini e non delle comparse senza luce.

Concetto scontato? Purtroppo no, negativo.

Se nella musica di inizio anni 2000 si poteva ancora parlare di politica, di voglie impresse e di straordinari concetti corali appoggiati su di una base etica solida, ora non abbiamo la stessa stabilità di appoggio. Lo stiamo dando per scontato, la stiamo dando come una banale circostanza quella dell’educazione, la sua assenza è il vero cancro sociale, supportato in malo modo da una popolazione che si è abituata a guardare solo i colori del proprio giardino e disposto a tutelare spesso nemmeno i colori del proprio recinto ma accontentandosi in maniera remissiva di fiori in scala di grigio.

Suonare in una band e viverla ai miei giorni è un atto di responsabilità verso me stesso in primis, è un atto di responsabilità verso chi spende il proprio tempo ad ascoltare la mia musica e venire ai miei concerti, e terzo, è un atto di responsabilità verso chi ha formato la tenacia e la paura della mia penna e della visione del mio mondo.

Suonare in una e per una band è un atto d’onore, di rivoluzione, un atto d’amore verso la vita. Per questo ora soffro nel vedere la scena musicale italiana trasformarsi in “o-scena” musicale italiana. Senza presunzioni, né autocompiacimenti sia chiaro, non risiede nel nostro DNA questa triste attitudine, non siamo nati per le auto-celebrazioni, né per dissetarci con le nostre stesse lacrime.

Quello che vorrei fosse rispolverato è che l’ascoltatore accenda la lampadina della curiosità, della ricerca. Tralasciando la tecnica o il virtuosismo, ma ricercando artisti che mettono cuore e sentimento, che abbiano speranza nella gente e un senso di comunità genuino che possano fare di tre accordi banali una nave da crociera che porta in lidi sconfinati. Utopia o banale speranza, chiamatela come volete ma poco importa, suonare in una band deve essere equilibrio, come lo deve essere il rapporto con il  proprio partner.

Voglio che si torni a trovare equilibrio non come premio straordinario da privilegiati, nemmeno imporlo come un fottuto bilanciamento necessario, voglio che l’equilibrio sia una scelta perché non è per tutti ed è maledettamente giusto sia cosi. Voglio che l’equilibrio sia una scelta di essere. Voglio essere uno zaino protonico che cattura i fantasmi della gente, li trasporta dentro a un amplificatore che di conseguenza li scaraventa fuori, finalmente innocui.

Suonare in un band per come la vivo io è credere nelle persone, credere che si possano annullare le distanze, credere nel rispetto verso la penna, la vera arma che deve sancire un ritorno alla serenità e all’indipendenza intellettuale.

Confido in me, nella musica e soprattutto nella mia band, la famiglia che mi sono scelto perché mi da l’equilibrio necessario che mi tiene vivo.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

 

Lennon Kelly

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Lennon Kelly  @ Vidia Club – Cesena // March 10, 2018

 

 

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Thanks to Lennon Kelly, Make A Dream Concerti  and Vidia Club

 

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