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Tag: mark lanegan

The Afghan Whigs “How Do You Burn?” (Royal Cream/BMG, 2022)

Se hai il fuoco dentro, brucia con The Afghan Whigs

Sono passati cinque anni dal loro ultimo lavoro In Spades ma hanno ancora voglia di catturare il pubblico con la loro grinta attraverso la propria musica. Loro sono The Afghan Whigs ed escono ora con How Do You Burn?, che conferma l’appartenenza della band di Cincinnati al rock alternativo con il loro sound ossessionante e straziante. Un disco con una genesi non semplice, perché registrato con ogni componente della band a distanza durante il periodo pandemico. Un disco che è voglia di guardare al futuro, ma anche ricordo e omaggio a Mark Lanegan che ne aveva scelto il titolo.

L’attacco di chitarra elettrica di I’ll Make You See God è subito sferzante e si trasforma in un riff potente che si ripete come in una specie di allucinazione, mentre la voce di Dulli raggiunge timbri al limite dello sguaiato, ma che creano un sottile perfetto equilibrio con la complessità strumentale del brano.  Il disco si sviluppa poi in tracce dove il rock lascia spazio a atmosfere rarefatte di suggestione distopica tra cui domina proprio la chiusura In Flames. Lo spiccato uso del synth e la voce distorta si muovono come fiamme, in modo accattivante e seducente, con quel pizzico di sensazione di pericolo quel tanto che basta a catturarti fino all’ultimo, come se non volesse lasciare andare via l’ascoltatore, trattenerlo e avvolgerlo per “bruciare” con lui fino alla fine. Ed è questa la sensazione che ti accompagna durante l’ascolto, la voglia di rimanere che combatte con quella di andarsene perché in qualche modo il progetto entra dentro alle emozioni e te le fa mettere in gioco, ma non tutti siamo pronti per farlo. Concealer è una canzone dolce che parte in acustico per poi trasformarsi in un rock delicato quasi un abbraccio consolatorio, che ti cattura e ti culla fino a che non chiudi gli occhi. Altrettanto emozioante è The Gateway, che parte con un’atmosfera musicale sospesa per poi svilupparsi in sonorità psichedeliche e un testo non complesso, ma con parole forti che formano un dialogo immaginario tra un io e un tu o voi dove la voce di Dulli si leva in uno spietato “Waiting for the night as I destroy the day”. Attesa, volontà e fatalità riunite in una sola frase che ti prende e non ti lascia più.

Come ogni recensione, anche questa ha una fine, e forse dovrei terminare con i consigli per gli acquisti o qualcosa di simile che la logica di mercato impone. Ma ammetto che la logica non è mai stata il mio forte, perciò vi dico solo di ascoltare How Do You Burn? lasciando aperti quei canali emotivi che permettono alla musica di rovistarci dentro e farne uscire nuove sensazioni o vecchi ricordi, oppure un bel mash up di entrambi. Sì, avete ragione, il rischio è che si può passare dal Nirvana al dolore nascosto in qualcuna delle nostre profondità, ma non è anche questo vivere, o meglio bruciare di vita? Come bruciate? Di fuoco nascosto sotto la cenere della quotidianità in attesa di spegnervi del tutto, oppure come fiamme che sono pronte a vivere in pieno le proprie emozioni? A voi la scelta di premere quel tasto che aiuti la musica a liberare ciò che avete dentro.

 

The Afghan Whigs

How Do You Burn?

Royal Cream/BMG

 

Alma Marlia

VEZ5_2020: Andrea Riscossa

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Pearl Jam “Gigaton”

Non il loro miglior album, sia chiaro. Ma mentre il mondo si chiudeva su se stesso, implodendo in dati giornalieri, zone rosse, lockdown e autocertificazioni, il 27 marzo, in giorni sempre più difficili, trovavo un appiglio solido e familiare nell’ultimo lavoro dei Pearl Jam.
È la mia wild card per quest’anno. Li salverò, sempre. Quantomeno per restituire il favore.

Traccia da non perdere: Dance of the Clairvoyants

 

Fiona Apple “Fetch the Bolt Cutters”

Si rivede la luce a metà aprile, a maggio riavremo parte delle nostre libertà. Il 17 esce un album sorprendente, mio personal rimpianto per non averlo recensito. Però l’ho divorato. Entrare in casa Apple, con un folletto che canta dello spirito del tempo usando pianoforte, tavoli e isterie. E poi la voce di Fiona è strumento, è espressione, è emozione. Che album.

Traccia da non perdere: I Want You to Love Me

 

Fontaines D.C. “A Hero’s Death”

Il primo ascolto l’ho ritardato. Lo volevo solitario, in un luogo solitario, su un isola solitaria. E il 6 agosto ce l’ho fatta. E nonostante l’estate, nonostante il luogo magico, il disco dei ragazzi di Dublino va preso a stomaco vuoto, e con la giusta dose di tempo per digerirlo. E’ un viaggio oscuro, con lucine sparse verso la fine, ma rispecchia perfettamente la sinusoide dell’umore del 2020.

Traccia da non perdere: A Hero’s Death

 

Idles “Ultra Mono”

25 settembre. Il mondo forse ce la fa, io forse pure, e mi esce un disco che è uno scanzonato vaffanculo al mondo, cantato lanciando peli e amore sulla folla sottostante.
La faccio breve e mi cito: gli Idles sono “post” tutto. Post punk, post rock, post dress code, post etiquette, post igiene intima, post melodici. Eppure.
43 minuti ben spesi 

Traccia da non perdere: MR. MOTIVATOR

 

Bruce Springsteen “Letter to You”

È stato come prendere un’ultima boccata di aria, poco prima di una seconda apnea. Il 23 ottobre arriva la lettera di zio Bruce, che è un messaggio di salvezza ma soprattutto di speranza. E, a sentirlo bene, un signor disco con la E Street Band. È un racconto di tempi andati, di persone che non ci sono più, di momenti che sono diventati ricordi e poi, per nostra fortuna, musica. Ma potevo chiedere di meglio?

Traccia da non perdere: Janey Needs a Shooter

 

Honorable mentions 

Bob Dylan “Rough and Rowdy Ways”. Devo veramente spiegare perchè?

Phoebe Bridgers  “Punisher”. Delicatamente a fuoco.

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow”. Un disco che fa sembrare il 2020 gaio. E quindi vince lui.

Chris Cornell “No One Sings Like You Anymore”. Ok, seconda wild card.

Viadellironia “Le Radici sul Soffitto”. Quota italiana. Sono giovani, sono intelligenti, prodotte dalla casa madre di Elio.

Stone Temple Pilots “Perdida” Acustico struggente.

 

Andrea Riscossa

VEZ5_2020: Francesca Garattoni

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Muzz “Muzz”

In un periodo dove la pacchianeria sembra essere l’unità di misura delle nuove proposte musicali, l’album di esordio del trio Banks, Barrick e Kaufman lascia il segno per eleganza e raffinatezza. Amore e profondo rapimento al primo ascolto, scelta facilissima come miglior album dell’anno.

Traccia da non perdere: Knuckleduster

 

Doves “The Universal Want”

Dopo undici anni di silenzio dal precedente Kingdom of Rust, tornano i Doves e sfornano un signor album. Solido, limpido, senza troppe stramberie di voler innovare per forza, ritroviamo il sound della band di Manchester come se non fossero passati dieci anni di hiatus.

Traccia da non perdere: Cathedrals of the Mind

 

Nick Cave “Idiot Prayer”

Un pianoforte e la sua voce, è tutto quello di cui le canzoni di Nick Cave hanno bisogno. Già belle con l’accompagnamento de The Bad Seeds, in questa versione scarna ed intimista le canzoni di Idiot Prayer assumono uno spessore e un’intensità da far venire la pelle d’oca.

Traccia da non perdere: The Ship Song 

 

The Strokes “The New Abnormal”

Si, si, lo so: The Strokes non sono più quelli di Is This It e a stento First Impressions of Earth può essere considerato il loro ultimo album interessante, eppure… eppure con questo nuovo The New Abnormal, un titolo che si adatta molto bene a questo 2020 decisamente fuori dal normale, sfornano un album degno di essere ascoltato ancora e ancora e ancora e ci ricordano perchè ci piacevano tanto ad inizio millennio.

Traccia da non perdere: At the Door

 

Deftones “Ohms”

Dei tre album pubblicati quest’anno da altrettanti gruppi major — Deftones, Pearl Jam e The Smashing Pumpkins — solo quello dei primi è degno di una posizione nella mia personale classifica, sia Top 5 che Honorable Mentions. Ancora una volta i Deftones ci tengono incollati allo stereo in bilico tra sonorità classiche e svolte innovative e ancora una volta non deludono.

Traccia da non perdere: Ohms

 

Honorable mentions 

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow” Quest’album di Lanegan è come mangiare un carciofo: lo si apprezza una canzone alla volta e dopo l’amaro iniziale rimane il retrogusto dolce della bellezza.

Sophia “Holding On / Letting Go” Ennesima riprova della qualità artistica di Robin Proper-Sheppard, un po’ ritorno al rock e un po’ sperimentazione.

Matt Berninger “Serpentine Prison” In un momento di pausa da The National, Matt Berninger si dà al pop e One More Second è una canzone che vale l’album.

Phoebe Bridgers “Punisher” Ascolto/scoperta dell’ultimo minuto, ma brava brava brava.

Adrianne Lenker “Songs” Splendida anche in versione solista senza i Big Thief.

 

Francesca Garattoni

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow” (Heavenly Recordings, 2020)

Catabasi Elettrificata

 

Mark Lanegan si aggiunge alla folta schiera di personaggi che possono vantare una gita agli inferi. Con un paio di differenze: non è il protagonista di un racconto, è l’autore. E là sotto, invece di amori perduti e antenati, è andato a cercare gli anni della sua gioventù, e si sarà fatto un paio di whiskeys, prima di risalire. 

Il nostro eroe viene dallo stato di Washington, che, evidentemente, qualcosa nelle falde acquifere deve averlo, dato che produce ottima legna e artisti leggendari.
Un’infanzia infelice, un’adolescenza turbolenta, un gruppo seminale e profetico, gli Screaming Trees, una Seattle come palcoscenico, prima che diventasse caput mundi del grunge. Anche se nel movimento lascia una zampata, facendo vibrare i vostri subwoofer a colpi baritonali, perfetto contraltare per Layne Staley nel disco dei Mad Season.

Droga, alcool, e un discreto numero di “affari loschi”, come li definisce lui stesso, ridendo, mentre parla del suo libro autobiografico Sing Backwards and Weep. Proprio questa sua ultima fatica letteraria è al centro della genesi dell’album Straight Songs of Sorrow.
Lo stesso Lanegan racconta che il libro non ha portato la catarsi sperata. Anzi, lo descrive come un vaso di Pandora colmo di dolore e miseria. Ha però portato un album in dono, quindici tracce figlie di un lavoro di introspezione che ha trovato uno sfogo inizialmente nelle parole, forse non sufficienti, forse compagne non così abituali. L’album nato tra le righe dei capitoli è composto di canzoni dedicate ai personaggi del libro, molti dei quali non ci sono più. È una personalissima Spoon River per Lanegan, inspiegabilmente ancora in piedi, microfono in mano. Non c’è resilienza, né resistenza, qui si canta di una insperata sopravvivenza, di anni difficili, di una tendenza autodistruttiva che ha sbagliato mira.

Questo viaggio nei ricordi e nelle cicatrici è accompagnato da alcune collaborazioni, Greg Dulli su tutti, e da stili inizialmente antitetici, elettronico e folk, presenti però nella carriera di Lanegan, che lentamente, nel percorso del disco, si fondono sempre più, a volte dividendosi la scena (sonora), a volte prevalendo sull’altra.

L’overture di I Wouldn’t Want to Say spiazza per la dissonanza tra cantato e base synth, ma lentamente, entrando nel disco, si prenderanno le misure dei suoni di questo strano luogo della memoria. È un inizio fatto di antitesi, di stili e di ritmi, che ci conducono fino alla coppia di canzoni che sono la quintessenza dell’album, Stockholm City Blues e Skeleton Key, un destro-sinistro che lascia al tappeto. Nella prima si elabora il rimorso per tutto ciò che è stato, nella seconda, sette minuti di ballata, si cerca la redenzione, partendo da un caposaldo: “I’m ugly inside and out”, e da una domanda senza risposta: “I spent my life trying every way to die. Is it my fate to be the last one standing?”. 

È come passare il dito lungo i lembi di una cicatrice e sperare di dare sollievo. Al limite si tracciano i confini di un dolore passato, ma di pace non c’è traccia, c’è solo una rinnovata consapevolezza. 

Cito perché notevoli Ketamine, dedicata a un amico che chiese, dal letto d’ospedale in cui giaceva, della ketamina, al cappellano giunto a dare conforto e At Zero Below con Greg Dulli, una ballata folk che lascia sottopelle un battito poco analogico.

Il disco è buio, è blu di fumo di sigaretta, ruvido come le guance di Lanegan, che più passano gli anni più mi appare come un ibrido tra Jack Palance e HellBoy.
È un’opera che racconta senza indorare, che però del raccontare fa il suo perno. La parte musicale si esalta quando le due anime, acustica ed elettronica, trovano il modo di fondersi e trovo affascinante, se voluto, l’evoluzione interna di questo processo nel percorso delle quindici tracce. 

È una discesa negli inferi personali di Lanegan, ma con una guida esperta che ha addomesticato i propri demoni, prendendoli per stanchezza. 

 

Mark Lanegan

Straight Songs of Sorrow

Heavenly Recordings

 

Andrea Riscossa

Mark Lanegan

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Mark Lanegan @ Verucchio Festival // July 26, 2018

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SETLIST:

 

Death’s Head Tattoo

The Gravedigger’s Song

Hit the City

Sister

Nocturne

Emperor

Deepest Shade
(The Twilight Singers cover)

Bleeding Muddy Water

Riot in My House

One Way Street

Ode to Sad Disco

Harborview Hospital

No Bells on Sunday

Harvest Home

Floor of the Ocean

Come to Me

Death Trip to Tulsa

Encore:
Atmosphere
(Joy Division cover)

 

 

 

 

 

 [/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Francesca Garattoni

 

Thanks to Indipendente Concerti

 

 

 

 

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