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Tag: pearl jam

Pearl Jam “Yield” 25 anni dopo

“How cool to have a yield sign where there’s nothing to yield to”
Jeff Ament

È il tre di febbraio del 1998.
Un martedì.
È appena uscito il quinto album dei Pearl Jam, ma l’ho lasciato sul tavolo, incartato, intonso.
No Code mi aveva annoiato, i Soundgarden si erano sciolti, il Seattle Sound si era perso, pochi mesi prima era uscito un certo OK Computer.
Un aereo militare statunitense ha appena tranciato i cavi della funivia del Cermis. 

Era la fine del Secolo. Il Novecento, non un secolo qualunque.
La musica che amavo stava morendo (male), dopo un decennio di gloria e sovrabbondanza, di esplosione globale di fenomeni, correnti, movimenti. MTV era lo specchio deformante in cui la mia generazione trovava conforto, e io ero attaccato ai miei Pearl Jam come naufraghi sulla zattera della Medusa.
Vedder, l’uomo che ha cantato il proprio giovane Werther interno in almeno tre dischi stupendi, decide di fare otto passi indietro (Gossard ne fece solo due), e propose una terza via, in zona cesarini, per dare a me, a noi, a tutti i giovanicariniedissocupati del pianeta, una proposta diversa da quella di autocommiserarci e autoflagellarci tra millenium bug e mille non più mille parte II.
I Pearl Jam misero in musica la suddetta proposta, lasciando come unico segnale preventivo un cartello di precedenza, laddove, di cartelli, ma soprattutto di precedenze, non ve n’era bisogno. Ament sogghignava, sottolineando la meraviglia del paradosso in diverse interviste. Vedder la prendeva (ovviamente) più alta, ma lo vedremo più avanti.
Quello che sembra perfettamente centrato, quello che allora ha riallacciato il mio cordone ombelicale con loro, furono le domande e le risposte che questo disco portava con sé. È un inno alla fine del mondo, che contiene le istruzioni per sopravvivere, nonostante tutto, nonostante noi. 
Già.
A fine febbraio 1998 inizierà la guerra in Kosovo. A metà mese diverse nazioni si esprimeranno contro la clonazione umana. In marzo Pakistan e India giocano con le atomiche. E Titanic vince undici statuette, un costosissimo e edonistico naufragio, a simboleggiare il genius saeculi.

Il Maestro e Margherita di Bulgakov forse è l’ultima nota che ci si aspetterebbe di trovare a piè di pagina in un disco dei Pearl Jam. Eppure.
Colpa fu di Jeff Ament, bassista del gruppo, che rimase folgorato dai capitoli del romanzo dedicati a Ponzio Pilato.
Nota: la storia raccontata nel romanzo non è esattamente fedele a quella dei Vangeli, e il Pilato rappresentato nella canzone è quello della parte finale del libro: stanco, solo e dimenticato dalla Storia, vive in una montagna con il suo cane, triste per le occasioni perdute e per la solitudine di cui è prigioniero. In Pilate Ament tratta di tutto quello che abbiamo lasciato in sospeso, di come quel gomitolo di non-fatto possa trasformarsi in rimorso e follia.
I Pearl Jam – tutti i membri della band –  hanno raccontato in diverse interviste precedenti all’uscita del disco di quanto il gruppo fosse sfilacciato, esausto, disunito. I tour, la querelle con Ticketmaster, le frizioni interne, la precarietà esistenziale del ruolo del batterista della band, la difficoltà nel relazionarsi con un Vedder sempre più chiuso, tutti questi fattori avevano minato la stabilità della band.
C’è un cartello di precedenza, nella storia dei bivi che i Pearl Jam hanno preso. E sta lì per ricordare a tutti che esistono molte vie per ritrovare la strada e se stessi.
Una di queste è una sana chiacchierata con un gorilla senziente e di sconfinata cultura.
È ciò che Daniel Quinn racconta in Ishmael, un libro dei primi anni novanta, che si basa sulla relazione tra un gorilla e un uomo. Il primo, attraverso un dialogo filosofico, presenta al secondo una rilettura della storia dell’umanità, in particolare della civiltà del progresso e del suo destino, pare ineluttabile, fatto di autodistruzione. Il libro propone vie alternative, ma la parte più nera e critica del testo convoglia in quel capolavoro che sarà Do The Evolution, cui spetterà l’onore di diventare un video musicale di rara bellezza e forza comunicativa.
Ma l’Ishmael che rilegge la storia dell’uomo, la Bibbia e che illumina i finali possibili della Storia, è solo una parte dei molti riferimenti usati per tracciare la mappa disegnata dalla band.
Yield è un manuale con diversi capitoli, un po’ figlio di quel Vitalogy-pensiero di qualche anno prima, che ha l’enorme pregio di non prendersi troppo sul serio. Sarà la maturità, saranno le botte prese, quello che traspare è uno sguardo più lucido e sereno. E così la traccia iniziale Brain of J. ci pone subito nel mezzo della querelle tra noi e il mondo, mentre è la seconda canzone, Faithfull, a introdurre un elemento fondante del disco: un nuovo umanesimo, una nuova via ripulita da ciò che ha macchiato i secoli precedenti. E i nostri iniziano dalla religione, spazzata via in poco più di quattro minuti, liquidata come inutile illusione. L’unica entità cui dovremmo essere fedeli è seduta a fianco a noi, (ri)partiamo da qui.
Sfruttando questo primo assioma, Gossard riesce a far cantare a Vedder: 

‘Cause I’ll stop trying to make a difference
I’m not trying to make a difference
I’ll stop trying to make a difference
No way

No Way, terza traccia, è sintomatica del nuovo modo di lavorare della band: Yield è un disco corale, in cui tutti hanno portato un contributo, in cui tutti hanno il nome tra gli autori. L’io di Vedder diventa un noi, e l’amico Stone decide di farglielo giurare al microfono, ponendo le basi per la seconda legge di Yield: ammettere di aver bisogno dell’altro. Più umanità che umanesimo, ma siamo ancora alla casella di partenza.
Con un gioco di montaggio alla Tarantino, Given to Fly ci racconta qualcosa che potrebbe stare alla fine della nostra storia, non a metà album. La canzone ha dato vita a fiumi di interpretazioni, nonostante Vedder abbia dichiarato si tratti solo di una fiaba. Ma l’uomo che dall’onda spicca il volo e li libra in cielo è un’iconografia che potrebbe riempire libri di citazioni. Personalmente? Icaro, Prometeo q.b., ma soprattutto, a pelle, una “normale assurdità”, alla Mr.Vertigo, Paul Auster, 1994.
Sempre il duo McCready-Vedder firma la seguente Wishlist, la lettera d’amore scritta come avessimo ancora un Babbo Natale come musa, ma anche la lettera d’amore che vorremo ricevere domani stesso. Del resto, nel nuovo millennio, vorremo portarcelo, il nobile sentimento?
Di Pilate e del suo messaggio abbiamo già affrontato temi e radici, nonché di Do The Evolution, anche se meriterebbe menzione il riff di chitarra più goloso del disco.
MFC è la chiave dell’album. È la X sulla mappa. E di nuovo, per un gioco di montaggio, abbiamo la soluzione prima del dramma. Perché le canzoni seguenti, Low Light, In Hiding, Push Me/Pull Me, sono criptiche, sono oscure, parlano di cambiamento, di trasformazione, ma anche di chiusura al mondo ed eremitismo (pare suggerito da Sean Penn su pratiche apprese da Bukowski, ma è altra storia).
Saltelliamo su temi escatologici in Push Me/Pull Me fino al gran finale di Gossard, che nel nuovo millennio pare volesse portare soprattutto l’ironia e la sottile metafora. La ninnananna finale di All Those Yesterdays non serve a mettere a dormire i propri figli, come accadeva con il pargolo di Irons in No Code. Qui a nanna ci vanno i Pearl Jam, almeno nella loro versione adolescenziale, rabbiosa. Gossard stacca dal traliccio il Vedder-bambino, lo cala in un gruppo aperto al dialogo e mostra a tutti la strada, puntellandola qua e là, senza troppo senso, con segnali per rallentare la corsa.
Parere di pancia: Yield sfiora il concept album.
Anzi, compio un atto di coraggio e ammetto che più sprofondo nei testi, più mi perdo nei contenuti e più mi ritrovo tra le canzoni di The Wall, Pink Floyd, 1979. Lungi dal paragonare i due album, lungi ancor di più accostarli per peso specifico e importanza storica. Ma il lavoro di Waters è un viaggio (circolare) che inizia a esistere nel momento in cui il suo autore decide che il suo rapporto con il mondo, con il pubblico, con lo showbiz, deve cambiare. Il muro è isolamento, il muro è l’incertezza, è la paura. Il viaggio che Waters ci regala, fuori e dentro il suo muro, serve a mostrare a sé stesso e a noi che siamo liberi di isolarci, di perderci in atti creativi autoriferiti, liberi di goderci la nostra solitudine. Ma è soltanto uscendo dai nostri confini che otteniamo la completezza. Siamo umani solo attraverso una continua e consapevole condivisione.
Yield è un disco con una missione, almeno con un messaggio.
In MFC Vedder ci regala la classica metafora del viaggio in automobile. Ma tra le righe ci insegna a rimappare quello che ci sta intorno, a lavorare su come e cosa osserviamo. È un inside job, è un modo per ridistribuire le proprie risorse interne. Se in Rearviewmirror il futuro era nello specchietto retrovisore, nel lasciare il passato scappando, qui è il presente che viene modificato, con un atto creativo.
Libero arbitrio in libero incrocio.

Yield è un disco sulla fine del mondo.
E degli anni novanta.
E di un’umanità che deve cambiare.
Loro non potevano saperlo, ma da lì a un anno sarebbe arrivata la tragedia di Roskilde. Un anno dopo sarebbe cambiato per sempre il mondo, dopo gli attentati dell’11 settembre. E io ringrazio di aver ricevuto la mappa che Yield contiene prima che i Pearl Jam, come tutti noi, dovessero fronteggiare le difficoltà dei primi anni del nuovo secolo.
È stato un disco importante, perché ha un peso specifico enorme, ed è stato un regalo averlo nel 1998.
Il mondo andava a rotoli, come adesso.
Ma ero innamorato. Avevo amici, avevo ventuno anni.
E uno Yield in più a proteggermi.  

…All that’s sacred comes from youth…

 

Andrea Riscossa

Pearl Jam @ Autodromo Imola

The waiting drove me mad
you’re finally here and I’m a mess

 

Tier I

Tutto sta nei primi dieci secondi di concerto.

“L’attesa mi ha fatto impazzire,
Finalmente sei qui e io sono un casino”

Due anni di attesa per tantissimi presenti, ben quattro dall’ultima apparizione in Italia dei Pearl Jam. Alla fine ci siamo ritrovati, un po’ rotti, un po’ incerottati, un po’ stanchi.
Una setlist corta, farcita di pezzi scontati, eseguita in una location che fonti interne e vicine ai nostri hanno definito “worst location ever”. Ever, sia messo agli atti.
Loro sono ormai anziani, Vedder non si appende più neanche agli stipiti delle porte, e ormai riconosciamo il pezzo che sta per essere eseguito dalle chitarre che vengono distribuite.
Il pit, che ricopriva la stessa superficie della Val d’Aosta, non aveva pavimentazione. Abbiamo visto il concerto su tacchi da sei. Docce chiuse alle diciotto, birra a otto euro, oppure due token, ultimo ritrovato per evitare di usare una carta come, che so, due giorni prima a Zurigo.
Vedder ha interrotto lo show almeno quattro volte, salvando più vite di David Hasselhoff in Baywatch, e giuro, non ho mai visto tanta gente andare per terra a un concerto. Un ritmo assurdo, con un lavoro incredibile della security. 

Il deflusso è stato completamente autogestito, abbiamo calcolato la rotta seguendo l’Orsa Maggiore vagando come zombie in una puntata automobilistica di The Walking Dead. E siamo arrivati ai comodi parcheggi, in provincia di Modena.

Sì, siamo messi malino. Anzi, male. Ho sentito mugugni preventivi, lamentele pretestuose, critiche inamovibili senza neanche i White Reaper sul palco.
Eppure siamo lì.
E quando Eddie ci urla che l’attesa ci ha reso pazzi, mi si dipinge un sorriso sul volto. Centro, Mr. Edward Louis Severson III, centro perfetto.
Fa tutto schifo, siamo un po’ impresentabili anche noi, tu, poi.
Però siamo tutti qui, in sessantamila, a cantarci in faccia il nostro amore.

Take my hand, not my picture.
Ecco. Dio quanto siete mancati. 

 

Tier II


If man is 5, then the devil is 6, and if the devil is 6, then God is 7
(
Pixies, Monkeys Gone to Heaven)

 

La vera notizia è che sul palco, a partire dalle 18.00 è anche successo qualcosa.
I White Reaper hanno dato il via allo show, e mentre a Zurigo avevano patito un mixaggio fatto al buio, temo invece che ieri la colpa fosse proprio loro. Sia chiaro, de gustibus, ma stanno ai Pearl Jam come American Pie sta a Goodfellas.
Per fortuna i Pixies sono i gran ciambellani dell’indie, IL gruppo che anche Bartezzaghi usa per la definizione di “seminale”. Tanto seminali e tanto degni di rispetto che a destra del palco, primo tra i primi del pit, c’era un certo Eddie Vedder a ciondolar la testa.
Guardare, ascoltare, imparare. Come tanti anni fa.
E i nostri?
La setlist è figlia della location, e del numero folle di presenti. Ed è giusto così.
Sedici pezzi direttamente dagli anni novanta, quasi tutti gli inni presenti. Una scaletta ad alto tasso di partecipazione, come è giusto che sia per una festa di massa.
E così, oltra alla già citata Corduroy, si susseguono senza sosta Even Flow, Why Go ed Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, pezzo in cui Vedder, all’attacco iniziale, spara un basso così basso e una nota così precisa che mi ha curato il male alle caviglie, di colpo.
E poi arriva la doppietta da Gigaton, Dance of the Clairvoyant e Quick Escape. Funzionano, che dire di più. E movimentano la setlist, che altrimenti rischia di diventare un omaggio alla nostalgia. I Pearl Jam, da sempre in cinque, sei con Boom Gaspar, ora sono sette con Klinghoffer, che, nascosto e nelle retrovie, gioca a fare l’artigiano tra chitarre, percussioni e cori. C’è e si sente, in alcuni pezzi.
Eddie racconta delle sue gite in auto, anni fa, mi illude che suoni Untitled e poi invece attacca MFC.
Jeremy fa tremare l’autodromo, mentre Eddie commuove tutti raccogliendo la richiesta di un ragazzo italiano che, attraverso pearljamonline, aveva chiesto di suonare Come Back in onore del fratello recentemente mancato.
Direi che sì, era lì con noi.
Eddie sfonda la quota-fanculo della serata con Save You, mentre il duo Wishlist – Do The Evolution fa perdere la voce al mio vicino, che, per la cronaca, non aveva centrato una nota neanche per errore. Grazie ragazzi, missione compiuta.
Seven O’Clock perde un po’ di potenza dal vivo, tende al liquido nel finale.
Daughter è sacra, Given to Fly anche. Mi rallegro, gioisco e ringalluzzisco con Superblood Wolfmoon, dove realizzo il sogno proibito di piazzare ravanèi remulass, barbabietole e spinass nel ritornello. Sogghigno. Sardonico.
Lukin e Porch a seguire sono la scarica finale prima della pausa.
L’encore è all’insegna del “suoniamole proprio tutte”, così i nostri inanellano State of Love and Trust, Black, Better Man, Alive, Yellow Ledbetter. Da svenimento.
Luci, saluti, palco vuoto.
Alla prossima.

 

Tier III

Freedom is a Verb

Il concerto però non è fatto solo di canzoni. Eddie parla, e lo fa spesso.
Insomma, conta anche cosa accade quando le chitarre sono ferme.
Aborto. Ricordi. Sogni e realtà. Morte e fratellanza. I Pearl Jam sono militanza, sono azione aldilà dei dischi e dei concerti. Chi canta sotto palco è giusto che si ricordi, ogni volta che compra un biglietto, che sta anche premiando una linea, delle idee e una visione. Non sono solo canzonette. 

Eddie Vedder non sa leggere, ma sa comunicare.
E i Pearl Jam sono una macchina perfetta, che si muove con esperienza e sicurezza.
E poi c’è Mike McCready.
Mike McCready al secondo pezzo suonava la chitarra con la bocca.
Al-secondo-pezzo.
Mike McCready ha maltrattato così tanto la chitarra durante l’assolo di Black che Eddie Vedder pare fosse pronto a interrompere il concerto per salvare anche lei.
Mike McCready in assolo è metafisica applicata.  

È sempre più una liturgia, sempre più catarsi collettiva, sempre più condivisione. Ieri sera, mentre Eddie parlava, mi è balenato un desidero segretissimo: vorrei un Vedder on Broadway. Come Springsteen. Magari tra vent’anni, quando DAVVERO non potrà più reggere certi ritmi, certe note, ma avrà dalla sua la saggezza e un pezzo di ricetta per la redenzione da realizzare con una chitarra in mano.
Mike no, lui ascenderà al cielo durante un assolo, perché qualunque dio alberghi l’alto dei cieli si merita un po’ delle sue chitarre. 

 

Tier IV

We Belong Togheter

Eddie Vedder confonde sogno con realtà.
“È reale?” Ci chiede.
“Sono qui? Voi ci siete?”
Eravamo in sessantamila a rispondere di sì.
Dopo due anni di attesa, in sessantamila a sopportare il caldo e la sete.
Eravamo così tanti che anche loro, lassù, si sono lasciati andare. E per quanto sappiano seguire dei binari sicuri, ho visto, come a Zurigo, un’urgenza e una voglia contagiose. Proporzionale al numero di persone davanti a loro. Ieri c’era emozione sul palco, Eddie lo ha ammesso, o almeno i peli delle sue braccia hanno parlato per lui.
E allora forse, aldilà delle polemiche, delle setlist, delle durate, forse basterebbe saper godere di questo. Dell’ appartenenza. Il che, per altro, risponde alla semplice domanda: alla fine, perchè sei qui?
Io sono tornato a rinnovare un legame.
Anche se sti bolliti non mi hanno suonato Rearviewmirror.

E questa storia finisce mentre dondolo marciando sulla pista dell’autodromo, mentre usciamo con lentezza.
Sorrido, perché nella tasca destra mi sono avanzati dei token, come da previsione. Ma nella sinistra sento un paio dei biglietti sgualciti, che sono già diventati storie da raccontare e ricordi da conservare. 

 

Andrea Riscossa

 

SETLIST

Corduroy
Even Flow
Why Go
Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town
Dance of the Clairvoyants
Quick Escape
MFC
Jeremy
Come Back
Save You
Wishlist
Do the Evolution
Seven O’Clock
Daughter
Given to Fly
Superblood Wolfmoon
Lukin
Porch

State of Love and Trust
Black
Better Man
Alive

Yellow Ledbetter

Pearl Jam @ Hallenstadion

Scrivo appunti sul telefono.
Che tanto poi non riesco mai a tradurre,
vocaboli a caso, riferimenti che sfumano nel giro di tre ore.
Mancano due anni e cinque minuti.

Ascolto discorsi insensati alle mie spalle.
Controllo i compagni di avventura.
Osservo chi mi sta vicino, almeno adesso.
So che la geografia del pit è instabile.
Mancano due anni e un minuto. 

Il palco adesso è vuoto.
Io non mi commuoverò.
No.
Quella è la testa di un batterista.
Mancano due anni e un Matt Cameron intero.

Dissolvenza.
bella lunga, però.

Sono a pochi metri dal palco. Mentre sento una nota, giusta o sbagliata che sia poco importa, uscire dal mio petto e unirsi al coro dell’intro di Release, al mio fianco un padre solleva la figlia dodicenne sopra di sé. 

Oh, dear Dad, can you see me now?

Lei appoggia i piedi sopra le spalle e sale con la testa a tre metri.

I am myself, like you somehow

Le mani lungo i fianchi. Immobile. Una statua greca.

I’ll ride the wave where it takes me

È davanti a Eddie, alla stessa altezza del palco. 

I’ll hold the pain, release me

Da sotto la scena ha qualcosa di surreale. E di bellissimo. La gente sotto di lei tende le mani, a proteggere un’eventuale caduta. Sembra una processione spontanea. Santa bambina del pit di Zurigo.
Termina il primo pezzo, lei scende, alle nostre spalle arriva la security che con gentilezza chiede di non farlo mai più. Ma proprio mai, in generale, per sempre.
Grazie
A lei, si figuri
Buon concerto.
Buon lavoro, e scusi. 

E così è iniziato il concerto ieri sera, all’Hallenstadion di Zurigo.

E poi.

Corduroy.
Immortality.
Present Tense
In Hiding
Crazy Mary 
Smile

Cosa accade quando una setlist sembra diventare un dialogo personale tra te e la band? Cosa succede quando senti, anche dopo tanti anni, che quelle parole hanno un nuovo peso, un nuovo colore, una nuova prospettiva?
E allora eccola. Parte dalle gambe, questa volta. E sale. Prende la spina dorsale, alza i peli delle braccia, centra la nuca. Scodinzolerei, potendo. E invece mi ritrovo a commuovermi. Senza pensieri a figlia, podi olimpici o Buffa che legge me. Semplicemente sbraco, passatemi il termine. Perché me lo sono concesso, ho stretto pugni e chiappe per due anni, per essere qua, ora, e adesso mi prendo questi venti secondi di debolezza e me li godo pure. Poi li condivido, perché a Imola, e ovunque sarete, se dovesse capitare anche a voi, sappiate che è parte dello show. Sta nel biglietto. Godetevelo.
Nella setlist c’è tutto. Un mosaico di vita e di note, di anni, di viaggi in auto di notte a urlare come fossi a due metri dal palco. Ogni concerto dei Pearl Jam è un nuovo segnalibro, serve a mettere un punto a un capitolo, mentre cerchi il titolo per quello successivo. 

Dissolvenza.

Colui che nel 1992 mi mise in mano una copia di Core degli Stone Temple Pilots, ieri sera mi ha passato, a fine concerto, la scaletta della serata. L’evento conferma la regola che chi regala musica ha capito quasi tutto di come si sta al mondo con decoro e saggezza.
La setlist in questione, se fosse mai stata eseguita così come scritta, sarebbe stata epocale. E invece ha avuto buchi, cali di tensione e di densità. E meno male, perché ho buone ragioni per tornare là sotto, tutte le volte che potrò. E intanto si è aperto il dibattito interno se una Black valga una State of Love and Trust + una Rivercross.
Caricatevi di speranza, oh voi che entrate domani a Imola. Intanto io ieri ho visto cose che voi umani…

Ho visto Mike di nuovo appeso alle sue note, immobile, occhi chiusi sul palco.
Ho visto Boom e Mike giocare in una sfida infinita sulla coda di Crazy Mary .
Sono quasi certo che Stone mi abbia sorriso. Proprio a me. Mi ha detto che regge Eddie da troppi anni, di stare tranquillo, sa come tenere insieme la baracca.
Rideva, Jeff.
Rideva anche Matt. Boom cazzo ve lo dico a fare, è la versione felice di Babbo Natale.
C’era un Josh anche, ieri sera. Che si sentiva, seminascosto. Spero si veda anche, in futuro, ma comprendo le dinamiche di spogliatoio.
Avevano fame i ragazzi. Avevano fame di palco, di cori, di suonare. Avevano voglia di essere nuovamente lassù, li ho visti divertiti, felici, sereni. 

Dissolvenza. 

È stato un gesto, questa mattina, a farmi tornare subito alla sera prima. Infilo l’orologio sopra il bracciale del Ten Club. Alla faccia della metafora, si torna alla vita. O meglio, sorrido e penso che l’orologio, gli impegni, il lavoro, la QDC (quotidiana dose di cacca) potranno anche tener nascosto il bracciale verde, ma quello lì resta, attaccato al polso, sulla pelle, prima di ogni cosa.
Bentornato, bentornati.
Siamo cellule dormienti che si riattivano a ogni tour, che mettono l’orologio nel cassetto e che tornano sotto un palco. Sempre.
La strana tribù ieri sera si è nuovamente ritrovata, come in Olanda e a Berlino pochi giorni prima. È un rito, è un bisogno. Dall’ultima volta è accaduto di tutto, adesso è arrivato finalmente il momento di farsi trappare quei biglietti vecchi di due anni, lasciare il mondo fuori dalle transenne e riprendersi la dimensione dei concerti.

Due anni, una notte e un viaggio.

Makes much more sense to live in the present tense

 

Andrea Riscossa

VEZ 2020: riflessioni di fine anno

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Il 2020 è stato un anno difficile per l’industria musicale: il Covid-19 ha condizionato la nostra vita da qualsiasi punto di vista.

Questo si prospettava un anno dalle grandi emozioni: doveva essere l’anno dei Pearl Jam a Imola, quello del gran ritorno dei Deftones a Bologna, sicuramente quello del ritorno del Boss Bruce Springsteen in Italia, i soliti grandi festival nazionali ed internazionali con nomi da leccarsi i baffi, invece è saltato tutto. Annullato e Riprogrammato sono state le due parole affiancate a quelli degli eventi. Sopravvivere e Reinventarsi invece sono state quelle cucite addosso agli addetti ai lavori, band e anche ai magazine di musica.

VEZ Magazine è nato principalmente come magazine fotografico ed è sempre contata tantissimo la qualità delle nostre immagini: negli anni passati quindi si è data sempre più importanza ai fotografi di live e ai loro contenuti, anche perché quasi ogni giorno c’erano concerti, eventi e materiale per galleries fotografiche.
A Marzo, quando abbiamo capito come si sarebbero messe le cose, non ci siamo dati per vinti e, sostenuti dai nostri giornalisti che si sono rimboccati le maniche, abbiamo spostato l’attenzione sui contenuti scritti per cercare di mantenere comunque vivo il magazine e continuare ad offrire la qualità a cui i nostri lettori sono stati abituati.
Alberto Adustini, Andrea Riscossa, Francesca Di Salvatore, Marta Annesi – il nostro quartetto delle meraviglie – insieme agli altri giornalisti, sono diventati i punti fermi di VEZ: grazie ai loro articoli, alle loro recensioni ed interviste, infatti, abbiamo comunque potuto apprezzare il meglio che questo 2020 poteva offrirci musicalmente parlando, in attesa di poter tornare sotto al palco ad imprimere in parole ed immagini le emozioni dei live.

Con l’avvicinarsi della fine di questo 2020 bisesto e decisamente funesto, abbiamo guardato indietro e per cercare di ricordarci com’era la musica prima della pandemia abbiamo fatto una selezione delle migliori immagini dei nostri fotografi, che fino a quando hanno potuto, si sono lanciati sotto palco ad immortalare i vostri cantanti preferiti.

Luca Ortolani

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Dall’alto, da sinistra a destra, foto di:

Editors – Elisa Hassert
Pubblico – Simone Asciutti
Max Gazzè – Siddharta Mancini
Melanie Martinez – Maria Laura Arturi
Soviet Soviet – Siddharta Mancini
Gazebo Penguins – Simone Asciutti
Big Thief – Francesca Garattoni
Zebrahead e pubblico – Luca Ortolani
Niccolò Fabi – Simone Margiotta
The Comet Is Coming – Siddharta Mancini
Kaiser Chiefs – Elisa Hassert
Gio Evan – Luca Ortolani
The Maine – Luca Ortolani
Milky Chance – Annalisa Fasano
Francesca Michielin – Luca Ortolani
Mecna – Alessandra Cavicchi
Calibro 35 – Isabella Monti[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

VEZ5_2020: Andrea Riscossa

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Pearl Jam “Gigaton”

Non il loro miglior album, sia chiaro. Ma mentre il mondo si chiudeva su se stesso, implodendo in dati giornalieri, zone rosse, lockdown e autocertificazioni, il 27 marzo, in giorni sempre più difficili, trovavo un appiglio solido e familiare nell’ultimo lavoro dei Pearl Jam.
È la mia wild card per quest’anno. Li salverò, sempre. Quantomeno per restituire il favore.

Traccia da non perdere: Dance of the Clairvoyants

 

Fiona Apple “Fetch the Bolt Cutters”

Si rivede la luce a metà aprile, a maggio riavremo parte delle nostre libertà. Il 17 esce un album sorprendente, mio personal rimpianto per non averlo recensito. Però l’ho divorato. Entrare in casa Apple, con un folletto che canta dello spirito del tempo usando pianoforte, tavoli e isterie. E poi la voce di Fiona è strumento, è espressione, è emozione. Che album.

Traccia da non perdere: I Want You to Love Me

 

Fontaines D.C. “A Hero’s Death”

Il primo ascolto l’ho ritardato. Lo volevo solitario, in un luogo solitario, su un isola solitaria. E il 6 agosto ce l’ho fatta. E nonostante l’estate, nonostante il luogo magico, il disco dei ragazzi di Dublino va preso a stomaco vuoto, e con la giusta dose di tempo per digerirlo. E’ un viaggio oscuro, con lucine sparse verso la fine, ma rispecchia perfettamente la sinusoide dell’umore del 2020.

Traccia da non perdere: A Hero’s Death

 

Idles “Ultra Mono”

25 settembre. Il mondo forse ce la fa, io forse pure, e mi esce un disco che è uno scanzonato vaffanculo al mondo, cantato lanciando peli e amore sulla folla sottostante.
La faccio breve e mi cito: gli Idles sono “post” tutto. Post punk, post rock, post dress code, post etiquette, post igiene intima, post melodici. Eppure.
43 minuti ben spesi 

Traccia da non perdere: MR. MOTIVATOR

 

Bruce Springsteen “Letter to You”

È stato come prendere un’ultima boccata di aria, poco prima di una seconda apnea. Il 23 ottobre arriva la lettera di zio Bruce, che è un messaggio di salvezza ma soprattutto di speranza. E, a sentirlo bene, un signor disco con la E Street Band. È un racconto di tempi andati, di persone che non ci sono più, di momenti che sono diventati ricordi e poi, per nostra fortuna, musica. Ma potevo chiedere di meglio?

Traccia da non perdere: Janey Needs a Shooter

 

Honorable mentions 

Bob Dylan “Rough and Rowdy Ways”. Devo veramente spiegare perchè?

Phoebe Bridgers  “Punisher”. Delicatamente a fuoco.

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow”. Un disco che fa sembrare il 2020 gaio. E quindi vince lui.

Chris Cornell “No One Sings Like You Anymore”. Ok, seconda wild card.

Viadellironia “Le Radici sul Soffitto”. Quota italiana. Sono giovani, sono intelligenti, prodotte dalla casa madre di Elio.

Stone Temple Pilots “Perdida” Acustico struggente.

 

Andrea Riscossa

Pearl Jam @ Autodromo Imola

Autodromo Enzo e Dino Ferrari (Imola) // 5 Luglio 2020

 

• Il concerto che non c’è •

 

Scena 1
Torino, esterno, giorno.
Inside Job

Il giorno prima di ogni concerto, soprattutto se dei Pearl Jam, corro.
Cuffie nelle orecchie e corro. Lascio che la loro musica entri in circolo con la respirazione, seguo il ritmo, mandando all’aria ogni buon consiglio sulla corsa. Visto da fuori sembrerò pazzo, più che un allenamento è riallineamento, una overdose di musica propedeutica una razione doppia di endorfine.
Ma è liberatorio, col sudore se ne vanno pensieri inutili e preoccupazioni, cerco di tornare alla neutralità, pronto all’urto del concerto.
Correre, quasi un lusso. Appartengo a quella schiera di runner cui è stato impedito di sudare in pubblico. Non è stato un sacrificio, non credo di aver fatto la mia parte rinunciando a così poco. Però mi mancava.
Guardo le gambe, sento la destra che perde colpi, usurata da pallavolo e calcio.
Guardo davanti e sorrido, perché ogni volta, più o meno verso lo stesso albero (sarà l’ossigenazione del cervello che salta sempre allo stesso chilometro), mi suggerisco la solita, facile metafora della corsa come allegoria della vita. Inizio, sudore, fine. Superamento costante dei propri limiti. Un passo dopo l’altro. E giù di cliché a pioggia, un ibrido tra Moccia e i perugina. E se Moccia fosse un ghost writer dei messaggi dei baci? E se avesse iniziato così?
Inizia a piovere.
Corro e scarto pensieri. Corro e costruisco storie che vorrei fermare, vorrei scrivere, ma sono liquide, come liquido sto diventando io. Come stai Andrea? Come arrivi a questo concerto?
Eddie mi ricorda proprio adesso che “how I choose to feel is how I am”. Le parole delle canzoni, mentre il tuo cuore pompa sangue e I tuoi muscoli iniziano a lamentarsi entrano come coltelli nel burro e non fanno a tempo a depositarsi che subito provocano catene di associazioni, è come stare su un tapis roulant al Louvre. Rimangono impressioni, torneranno su più tardi, coll’acido lattico.
Corro col solo obbiettivo di costringere il corpo a cercare il letto prima della mente. Stanco, devo essere stanco. Stasera non penserò a domani, o subentrerà l’ansia da prestazione, per me e per loro.
Cazzo quanto piove.
Oddio, arriva. 

Let me run into the rain
To be a human light again

Dissolvenza in nero.
Inside Job.

 

 

Scena 2
Interno auto, autostrada, giorno.
Light Years

I viaggi in auto verso i concerti sono come le prime pagine dei libri. Hai curiosità e diffidenza verso qualche faccia nuova, o magari sei felice come un bambino, perché ritrovi personaggi lasciati lì, chiusi dopo l’ultima pagina dell’ultimo concerto.
Si parla di qualunque argomento, l’importante è che dalle casse esca musica che vada bene a tutti.
La dimensione del viaggio ci era stata negata, e mai come ora capisco quanto sia importante mettere chilometri tra il proprio divano e un qualcosa che accade altrove.
Chilometri, parole, musica, un’autostrada che si riempie sempre più di automobili piene di nostri simili, diretti verso lo stesso luogo, stessi sorrisi, stesse colonne sonore, magari stesse storie.
Dalle casse riconosco Light Years, e la domanda è sempre la stessa: le canzoni capitano casualmente nei momenti giusti o sono i pensieri che seguono segretamente le note e ti ritrovi a pensare se le canzoni capitino casualmente.
Al Pinkpop Festival del 2000 Eddie Vedder dedicò questa canzone all’amica Diane Muus, scomparsa tre anni prima, a trentatré anni. Eddie così parlò: “sometimes you have got friends that don’t fuck up at all and are great people. And then you just lose them for some reason. They are off the planet and you never had a chance to say goodbye. I only mention this because there was a person we used to know here and that was Diane and ah, we never got a chance to say goodbye. This is goodbye. And if you’ve got good friends, love them while they’re here.
Ecco, la risposta è no, non capitano casualmente. È stato un periodo di addii negati, di persone perse senza uno sguardo reciproco. Un ultimo, consapevole, gesto d’amore. Abbiamo delegato tutto questo senza poterci opporre. È un peso che cala lento.
E allora prendiamoci questo concerto per curarci un po’, per raccontare le nuove cicatrici.
Siamo stati immobili, come pietre, ma la musica ci ha continuato ad illuminare.
Mi giro, I tre sono persi a discutere se con la partenza di Abruzzese sia davvero andato tutto a fanculo.
Sorrido, godiamoci questo viaggio, che mai come in questo 2020 si sta come al Pinkpop sul palco Eddie Vedder.

Your light’s reflected now, reflected from afar
We were but stones, your light made us stars

Dissolvenza in nero
Light Years.

 

 

 

Scena 3
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, pit, esterno, tramonto.
Release

Trovato posto, il nostro posto nel pit, conosciuto i vicini di spalla.
Birre, cesso chimico, birre.
È incredibile come l’alimentazione prima di un evento impegnativo come un concerto sia, generalmente, liquida. Siamo astronauti.
L’aria cambia, sale un po’ di vento ad asciugarci, la sera sta arrivando, porta musica. Pixies andati, visti a Torino e recensiti, sapevo avrebbero fatto muovere le chiappette anche a questi giovini, linee di basso come schiaffi, irresistibili.
Adesso però ho bisogno di un’assoluzione.
Adesso ho bisogno di un’onda sonora che riallinei me al mondo, me alla musica, me a questo momento che aspetto ogni anno, come una medicina unica e rara.
In Let’s Play Two c’è un momento che mi rovina la vista, annacquandola, ogni volta. È all’inizio di Release, quando Eddie introduce la canzone. Cerca un certo John, “wherÈs John?”:

TherÈs a guy named John in the front. WherÈs John?
I just want to point out one guy at the front,
because he was the first guy in line two days ago; four days ago.
And he wanted to be in front for this song, because it meant a lot to him.
HÈs going through some stuff, and wÈre gonna help him.
Sing with me

Musica.
Lo stadio intona insieme a Eddie un lungo e profondo Oooohhhhhhhhh….

How are you doing now, John?

Oh, yeah.

Come va adesso Andrea?
Ho resistito, ho tenuto botta, ho teso i muscoli per mesi, per arrivare qua. Altro che quattro giorni, io è una vita che sto in fila. E sono e sarò John per sempre e per sempre avrò bisogno di essere lì, quando ci sarà bisogno di una “o” bella lunga e bassa, per ritrovarsi, riallinearsi e dirsi, senza troppi problemi che siamo passati attraverso qualche casino e che abbiamo un bisogno fisico di catarsi, di una benedetta catarsi di massa possibile solo attraverso la somministrazione consapevole e volontaria di basso chitarra batteria voce. Ukulele q.b. .
Cari John, lo so che siete là fuori anche voi. È tornato il momento di cantare tutti insieme, anche a cazzo di cane, ma farlo, oggi, qui, è la cosa più bella che ci sia.

I’ll ride the wave where it takes me
I’ll hold the pain, release me

Dissolvenza in nero.
Release

 

 

 

Scena 4
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, pit, esterno, notte.
Rearviewmirror

Dissolvenza in nero

Fin qui tutto bene.
Belle le canzoni di Gigaton. Sognavo di cantare a squarciagola ravanèi remulass, barbabietole e spinass nel nanananaanaanananana di Superblood  Wolfmoon da mesi. Fatto.
Mai stato un musone da setlist scadente o presunte tali. Sapevo che anche questa volta non avrebbero deluso. C’è però una canzone che non possono non suonare. Una sola chiedo, perché è importante che mi arrivi addosso cantata da migliaia di persone e da loro, lassù, sul palco.
Fin qui tutto bene.
Poi arriva, chitarra, chitarre, batteria e basso. E via, l’autodromo esplode. Si tira fino al What I could not forgive, Mike ha già le mani al cielo. Adesso ognuno se ne va per la sua strada, poi tornano, poi via di nuovo, io vacillo.

Dissolvenza in nero

Migliaia di mani battono insieme, richiamano e reclamano. Un basso esaudisce i desideri.
Saw Things, per quattro.
Al quarto Eddie è posseduto, occhi chiusi, io galleggio. Le ombre si sono alzate, Mr. McCready è già piantato come un palo, mento in su, in estasi mistica, a sparare note sulla folla, la canzone sta per entrare nella sua terza vita, perché Rearviewmirror è una e trina, è composta, come la parola che la definisce.
Rear-view-mirror.
Batteria che corre i cento metri, io ho addosso un paio di baccanti, il pubblico dietro di me sembra un’onda impazzita.

Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

Quando torno sulla terra, finite le note, è come se mi svegliassero da un sogno. Come se mi venisse tolto qualcosa cui tengo tantissimo. È infantile, me ne vergogno un po’, ne vorrei una al giorno di Rearviewmirror, così, tutti centomila insieme.
Insieme.


I hardly believe
Finally the shades are raised… hey

Dissolvenza in nero
Rearviewmirror

 

 

 

Scena 5
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, esterno, notte.
Present Tense

Una Baba O’Riley che ha spostato le stelle per volume e che ha fatto ballare i sismografi chiude il concerto.
I sorrisi che si vedono dopo l’ultima nota, a luci accese, sono unici. Non li puoi trovare da nessun’altra parte. Ci sono sorrisi da sport, sorrisi da paternità, sorrisi di complicità, sorrisi irreverenti. Poi quelli da pit, che, con pochi altri, pongono una condizione precisa di tempo e luogo. Me li guardo per bene, me li tengo stretti.
Ho le orecchie che fischiano, le gambe molli, una sostanza simile al vinavil in gola.
Urge una birra, take a bottle, drink it down, pass it around.
I passi che faccio per uscire sono sempre I più pesanti, perché so che sono quelli più lontani dalla “prossima volta”. Oddio, avrei Zurigo, a breve. Però, mi concedo un sorriso ad angoli verso il basso. E un sospiro.

Dissolvenza in nero

Mi allontano. Mi metto in disparte, voglio osservare tutto questo. Perché con tutto quello che è successo ho cambiato il modo di percepire certi eventi. È come se testimoniare la realtà sia diventata un’urgenza. Ed è come se guardare questo nuovo spettacolo, con nelle orecchie ancora le loro chitarre, mi aiuti a digerire  marzo e aprile duemilaventi. Non vedere i miei genitori, gli amici, dover lavorare in continuazione per rimanere a galla, l’uscire con mascherina, autocertificazione, le code, la gente impaurita e arrabbiata, gli amici medici, gli amici ammalati, gli amici intubati. File di camion che escono da una città, i telegiornali visti di nascosto, spiegare a mia figlia perché sta succedendo tutto questo, perché i negozi nel quartiere sono chiusi e perché alcune serrande non si alzeranno più.
Chiuso, dentro.
Per fortuna c’era la musica, c’era una famiglia, c’era una bambina con cui ascoltare skipping prima di addormentarsi. Sono fortunato, lo riconosco qui e ora, del resto makes much more sense to live in the present tense.
È un mettere un piede davanti a un altro, come la corsa, metafora da due soldi.
Grazie piccolo esercito di John, siamo stati bene anche questa volta. Alla prossima.
 
You’re the only one who can forgive yourself oh yeah…
Makes much more sense to live in the present tense…

Dissolvenza in nero
Present Tense

 

 

Epilogo.
Sotto un albero, privo di ossigenazione, esterno, giorno.
Come Back

Questa volta mi sono fermato.
Ho un ultimo pensiero per me, per chi è ancora qua. Io a questo concerto ci sono andato davvero.
È durato tre mesi, forse quattro, è nato in quarantena ed è continuato ogni volta che una canzone dei Pearl Jam mi richiamava a un attimo di riflessione, a un pensiero, a un ricordo.
È il privilegio della reminiscenza, anzi, della ἀνάμνησις (anamnesi). È un qualcosa di bellissimo, un regalo della mente. È conoscenza, è il risveglio della memoria destata dalla sensibilità.
O forse non dovevo correre con 32° e assenza di ombra.
Ok, se queste saranno i miei ultimi pensieri, i miei ultimi respiri, lascio volentieri il ricordo di uno cui si alzavano ancora i peli delle braccia alla 456esima Rearviewmirror. Oppure cerco di tenere duro, fino al prossimo concerto, magari vero, questa volta.
Ecco. Come back. Il prima possibile, ne abbiamo tutti, per davvero veramente, un grandissimo bisogno.
E piove di nuovo.

If I don’t fall apart
Will my memory stay clear?

Dissolvenza in nero
Titoli di coda
Come back

 

 

 

 

Andrea Riscossa

Foto di copertina: Francesca Garattoni

 

 

Pearl Jam “Gigaton”: Di Come Un Disco Non Sia Solo Musica

Tier II

 

Il 20 giugno del 2014, il signor Edward Louis Severson III, davanti a 60.000 persone in estasi, pronuncia un breve discorso, dopo due ore e mezzo di musica. Guarda in alto, gli spalti di San Siro, sorride alla transenna. Sente un senso profondo di comunione, tira fuori il suo block notes e in inglese, tra qualche fuckin’ e un gran gesticolare ci fa capire che nonostante tutto, nonostante tutti, si deve perseguire la strada della pace, dell’amore, della collaborazione. 

“We can win, we will win.”
Accordi di chitarra. Alive.
Lo conosco a memoria, quel live è stato la colonna sonora delle mie corse per l’intero anno successivo. I Pearl Jam sono colonna sonora dal 1991. Sono, in realtà, intrecciati con le nostre storie personali e questo offusca sicuramente il giudizio su un nuovo lavoro, come può essere Gigaton.

Tuttavia qualcosa è successo, quasi subito, dopo pochi ascolti. Una qualcosa di simile mi accadde con Vitalogy, c’era un senso di fondo che chiamava a nuovi esami, nuovi ascolti. 

Li ho nelle orecchie da così tanto tempo che risentire quel formicolio è stato davvero esaltante. Il mio quinto senso e mezzo chiamava a gran voce e così mi sono tuffato in uno studio matto e disperatissimo del loro ultimo lavoro. Ero alla ricerca del perché mi fosse piaciuto subito. Evento raro, quasi da sentirsi in colpa. 

Sia chiaro, l’opinione altrui, in questi casi, soprattutto se social, per me è inesistente. Il rapporto con un album è mediato solo dalle cuffie, tutto il resto è distrazione non necessaria. Ascolto e posso trovare interessanti punti di vista diversi, ma innanzitutto ho bisogno di strutturare un’opinione. In questo caso poi, devo razionalizzare una sensazione ombelicale, sfida affascinante ma ardua. 

Kandinsky sosteneva che l’azione nel quadro non deve aver luogo sulla superficie della tela materiale, ma in “qualche punto” dello spazio illusorio. È una dinamica virtuale, la stessa che cerco di mettere a fuoco.
Frank Zappa (attribuzione incerta, avviso) ha sostenuto che parlare di musica sia come “ballare sull’architettura”. 

Ecco, per cerchi concentrici mi avvicino. Eddie Vedder vive di ossimori e sinestesie. Canta di cose tremende, di vissuti pesanti, con melodie meravigliose e lo fa mandando in corto circuito musica e testi. È frizione continua, soprattutto nei primi dischi, con Vitalogy in testa. 

Per la prima volta, invece, in Gigaton sento venire meno questo gioco di costruzioni, mi sembra di vederci quasi un ragionamento che si muove dalla prima traccia per terminare con River Cross. Non mi spingo a parlare di concept album, ma qualcosa di simile serpeggia tra i solchi del disco. È un rinnovato umanesimo nei testi, che si concentrano sull’essere propositivi, perdendo quel furor giovanile.
Sembra un’Alive, trent’anni dopo: “Oh, and do I deserve to be?”
Beh, certo che lo meriti, e sei ancora vivo perché hai trovato una strada, l’hai, a dirla tutta, cantata attraverso undici dischi, dieci dei quali piuttosto adirato. 

Cito, sparse:

“All the answers will be found
In the mistakes that we have made”
Who Ever Said

“Right now I feel a lack of innocence
Searching for reveal, hypnotonic resonance
[…]
don’t know anything, I question everything”
Superblood Wolfmoon

“Freedom is as freedom does and freedom is a verb
They giveth and they taketh and you fight to keep that what you’ve earned
We saw the destination
Got so close before it turned
Swim sideways from this undertow and do not be deterred”
Seven O’Clock

Seven O’Clock ci ricorda la sesta legge del surf: mai nuotare controcorrente. La corrente va attraversata per raggiungere l’obbiettivo.
Vedder nel ‘91, seppur surfista, non riusciva a far uscire le leggi dell’Oceano fuori dall’acqua.
Quick Escape è una fuga nello spazio, verso Marte (crediti a Bowie, ovvio), perché più alto è il nuovo punto di vista, migliore e più precisa sarà la percezione. È una ritirata programmatica, robe da Sun Tzu, per raccogliere le forze e iniziare a rimboccarsi le maniche, come spiega magistralmente in Seven O’Clock con quel “Freedom is a verb”, che ci ricorda che spesso le parole hanno richiesto sangue e tanta vita, prima di godere di un significato.
Qui si parla della potenza del linguaggio, della parola. La poesia, anche nelle canzoni, scopre il mondo come se fosse nuovo, è uno sguardo magico che riesce a intravedere nuove corrispondenze (crediti a Baudelaire, ri-ovvio).

È un viaggio a rotta di collo nel Vedder-pensiero, che forse, a vederla bene, unisce la band molto più delle derive musicali dei cinque, sempre più distanti per gusti, ma capaci, nella dinamica interna del disco, di usare questa diversità come un punto di forza, per cambiare registro, punto di vista, ritmo, per regalarci, a conti fatti, un’esperienza molto più ricca e ampia. 

Nelle prime tracce c’è l’analisi, c’è l’indulgenza per i limiti del nostro essere, c’è la presa di coscienza.
Poi l’album, il Pensiero di Gigaton, fattosi forte e diventato adulto, affronta il lutto, superandolo in Comes Then Goes, si prende la scena intera in Retrograde quando i nostri ci avvisano che il messaggio è arrivato a destinazione, le coscienze sono deste e hanno rumore di tuono.
In River Cross si ripete “Can’t hold me down” che in breve diventa un “Can’t hold us down”. Il compito è portato a termine, il testimone è stato passato. 
Share the light”.
Che apre un menù a tendina di collegamenti possibili a partire da Prometeo che, prometto, vi evito.
Ode ai Pearl Jam, che hanno mandato in soffitta la resilienza, riesumando la resistenza, usando le parole, la poesia. Gigaton ha dei testi decisamente alti, a mio parere. Del resto un loro concittadino, vissuto qualche anno prima e dipartito a ventisette, sosteneva che “Bisogna cercare dentro ai dischi se volete trovare la poesia contemporanea”. Ben detto, Jimi. 

A volte capita che un album venga accolto a braccia aperte anche solo per il contesto in cui capita.
Altre volte accade che un album ha un messaggio così universale che è impossibile non cogliere il significato profondo e ideale.
Infine ci sono casi come Gigaton, che non è un album perfetto, per carità, ma ha una tale densità che risulta avere, per me, l’unica caratteristica che conta: il desiderio di riascoltarlo. Esplorarlo. Conoscerlo e inserirlo nella storia della mia relazione con i Pearl Jam, una storia fatta di specchi, di cambiamenti, di tradimenti, anche di separazione, ma che continua, incredibilmente, a lasciarmi folgorato, su un prato, quando parte una Corduroy o una Porch, a lasciarmi un sorriso quando, nelle cuffie, passa una frase di vent’anni prima perfetta, calzante, per quel momento lì.

 

Andrea Riscossa

Pearl Jam “Gigaton” (Monkeywrench Records, 2020)

So save your predictions
And burn your assumptions

 

Tier I

 

Alla fine ho dovuto passare alle maniere forti.

Mi sono regalato la mia naturale miopia, levandomi gli occhiali. Anzi, ho proprio chiuso gli occhi.

Le cuffie a un volume illegale, perché di volumi illegali (e parlo di sonorità dispiegate e di peso dei testi) questo Gigaton ne è pieno. Sarà l’una di notte, ma poco importa, mi sono autodiagnosticato un cabin fever da quarantena e autoinflitto un jet lag da recensione. Non ho mai scritto cinque pagine fitte di appunti per nessuna recensione prima. Il problema è che sono di parte, molto di parte, in questa vicenda e ho un timore profondo ogni volta che un mio dito si abbassa verso la tastiera. Forse per la prima volta avverto un vago senso di responsabilità, innanzitutto verso me stesso, perché sono chiamato a esprimere un giudizio (anche se non vorrei, ma è inevitabile) su un qualcosa che, dopo sette anni di attesa, ha quasi l’aria di essere un oracolo, più che un disco.

E in seconda battuta mi sento responsabile perché, tra isolamento e tempesta emotiva calcolabile in gigatoni, sto tecnicamente sperimentando la menopausa. Sbalzi emotivi di questa portata li ho visti solo in alcune signore quand’ero fanciullo. Da oggi avete tutta la mia più sincera solidarietà. Questo, inevitabilmente, offusca la mia percezione. Anche se, a dirla tutta, credo l’abbia semplicemente accelerata. Perché è dai tempi di Vitalogy che per esprimere un giudizio su un lavoro dei Pearl Jam, di solito, impiego mesi.

La compressione ha aiutato, qualcosa si è smosso con largo anticipo.

La verità è che a smuovere qualcosa ci aveva già pensato Dance of the Clairvoyants, primo singolo uscito il 21 gennaio, che ha portato alla luce un sound inedito e innovativo, un potenziale cambio di rotta da parte dei cinque, o semplicemente un avviso ai naviganti: destatevi, ma soprattutto “mettete in salvo le vostre previsioni e bruciate le vostre supposizioni”.

 

 

Un cambio, fisico, è avvenuto: a produrre l’album c’è Josh Evans, colui che negli ultimi anni ha seguito il gruppo come tecnico del suono. Ha creato una sorta di studio casalingo dietro casa, per permettere a Vedder e soci di lavorare in tranquillità e soprattutto rispettando tempi dilatati e assenze frequenti, tra tour solisti e progetti paralleli è stato raro vedere i Pearl Jam riuniti in sala di registrazione a improvvisare. È stato più un lavoro di stratificazione, di innesti, di montaggio artigianale. Nel 2017 si è iniziato a registrare, ma la scomparsa di Chris Cornell ha bloccato la genesi dell’album. Probabilmente, ha anche permesso che avvenisse un piccolo miracolo.

È come una fotografia a lunga esposizione. Un diaframma era stato aperto e poi è stato lasciato aperto. Sulla pellicola, alla fine dell’esposizione, sono rimasti tutti i dettagli di quasi tre anni. C’è una montagna di tempo in questo disco, come se fosse invecchiato (e bene), in attesa di uscire dalla botte.
Che metafore così, al Vedder visto a Barolo, sicuro piacciono.

Il disco apre con Who Ever Said, ed inizia come un concerto live: musica in dissolvenza, pausa, poi entrano loro. Intro, chitarre, batteria, riffone goloso, Eddie.
Qui troviamo la presentazione, il programma dell’opera: un socratico sapere di non sapere, una stoica sospensione del giudizio. Lo dico qui, in partenza: questo è l’album più “filosofico” dei Pearl Jam, in cui la benevolenza di fondo verso i temi trattati è programmatica, è voluta. È lo spirito della scoperta, dell’analisi, che per la prima volta soffoca la rabbia.

Sarà la terza traccia che vi ritroverete a canticchiare al semaforo (o forse più facilmente in cucina, di questi tempi), la prima del nuovo album. Legata alla successiva Superblood Wolfmoon abbiamo un binomio che in un qualunque concerto avrebbe già fatto ballare mezzo stadio. Qui passiamo a un garage rock senza impegno, con tanto di ombrellino e olivina, mentre le parole, come sempre, producono frizione e attrito: qui c’è l’umana condizione, addirittura un platonico mito della caverna, fino alla citazione letterale del “I don’t know anything”. Insomma, tutto pronto per Dance of the Clairvoyants, terza traccia e testo scritto direttamente dalla Sibilla Cumana, solita scrivere i vaticini su foglie di palma lasciate al vento, con conseguente caos eolico-semantico, ma di sicuro effetto scenico. È canzone simbolo di quest’album, perché è sia chiave di lettura sia chiave di volta. Ma è anche canzone doppia, che ha una cicatrice tra prima e seconda parte, platonica, di nuovo, soprattutto nella coda, laddove solo nell’unione tra volontà femminile e maschile si compie la perfezione.

 

 

Dopo un volo così iniziatico e criptico ci pensa Mike McCready a riportarci su lidi conosciuti, con un assolo che vale l’intera Quick Escape, prima canzone veramente politica di Gigaton, in cui Trump viene evocato come icona del male incarnato, tangibile. Forse è l’unica traccia un cui il gruppo si permette della rabbia autentica.
Alright è la calma seguente. È onirica ed elettronica, ma anche famigliare, ha echi lontani di sonorità già usate dalla band.
Seven O’Clock è un sogno di un mondo migliore. Una chiamata alle nostre coscienze perché si dèstino, c’è “much to be done”, ci dicono. È per ritmo, tonalità e tema un pezzo springsteeniano, tanto vicino a quella poetica che non mi risulterebbe strano sentire questa canzone eseguita in un fienile, con gli archi e con un tempo ancora più dilatato. Del resto in questi ultimi tre anni Eddie è andato a Broadway ad ammirare zio Bruce e ai nostri non sarà sfuggito il concerto a casa Springsteen.
Never Destination e Take the Long Way sono due umanissime distrazioni, dopo il peso dei primi brani, una meravigliosa doppietta, che fa da eco al primo binomio posto a inizio album.

Buckle Up è la quota Gossard di Gigaton. C’è sempre il suo momento, solo suo, in cui il gruppo lascia la lavagna vuota e il gesso in mano al nostro. Se sei un genitore, questo pezzo ti lascerà sul viso un sorriso da ebete e in testa la consapevolezza che l’amore è un circolo. Almeno in famiglia. È una carezza, indulgente, materna, è un lenzuolo rimboccato e profumo di casa. E’ una canzone sul ricordo, sul valore del ricordo e sulla memoria dell’amore.

Se la pausa del vecchio Stone non vi avesse ancora stupito a sufficienza, ci pensa Vedder nella traccia successiva, Comes Then Goes, in cui la potenza sonora cede il passo a voce e chitarra acustica. Premessa: ringrazio sentitamente i Pearl Jam per non aver ceduto alla tentazione di abusare di steel guitar. Questo brano la chiama a gran voce e so che a casa sua un benharper di periferia ha già rotto una Budweiser per provarci.

Pezzo dedicato a Cornell. Solita frizione tra melodia e testo che risulta essere, strofa dopo strofa, una esplorazione quasi empirica del sentimento del dolore. È una sequenza di immagini che hanno il lutto come tema centrale, ma termina privo di giudizio, è una declinazione, o semplicemente lo esorcizza cantandolo. Che per una band di Seattle, nata negli anni novanta, è un signor passo avanti, fidatevi.

Ma i ragazzi si stanno perdendo. C’era un filo all’inizio, un’intenzione, un messaggio. Lo ritroviamo in Retrograde. Fatte le nostre considerazioni, esplorato il mondo e osservata la situazione è il momento di agire. È un climax, che termina con un’immagine quasi biblica: la folla, destata, ha il rumore del tuono. Gli strumenti in coda diventano un’onda, il pezzo di gonfia, diventa monumentale, quasi orchestrale.

E poi arriva lei.

Mi aveva lasciato stordito a Firenze nel 2019. La aspettavo in Gigaton per tenerla con me e poterla consumare. Ma qui, come capita nei grandi dischi, la grande canzone diventa qualcosa di ancora più grande se arriva dopo undici brani. L’ultima canzone, dopo undici album. E poi saranno ascolti infiniti. E poi sarà attesa per i live.
Questo ultimo pezzo, fatto di organo a pompa, voce, un contrappunto, un Cameron ispirato e assenza di chitarre, sembra ancora di più una preghiera laica. Un’invocazione che chiude le tematiche del disco: il futuro, individuale e collettivo, i cambiamenti climatici, il risveglio delle coscienze, l’essere umano nella sua consapevole imperfezione.

Chiude l’album più lungo della storia della band.

Ascoltarlo durante una pandemia globale, è detonante.

Ha catturato lo spirito del tempo, come se il disco fosse un manuale di istruzioni per momenti bui, che, dicono i chiaroveggenti, sono inevitabili.

E allora “save your predictions and burn your assumptions”. Tabula rasa, spazio all’umanesimo dei Pearl Jam. 

 

Pearl Jam

Gigaton

Monkeywrench Records

 

Andrea Riscossa

[Video] Pearl Jam “Dance of the Clairvoyants”

Sì, sì. Anzi.

Sisì. 

Oggi sarà la giornata del sisì.
Petrarca l’avrebbe scritta meglio, non so, una cosa del tipo s’acquetino le tempeste dell’animo; taccia il mondo, e la fortuna non più m’assordi.
Già risvegliarsi con Petrarca in testa e con l’ansia di ritagliarsi un quarto d’ora fuori dal mondo è segno di grave astoricità, ma dopo i quaranta ho deciso che mi posso concedere questi lussi sfrenati.

Ore sette e cinquanta, otto messaggi già incassati e altrettante sentenze, sicuro. Ma io oggi ho un sisì in più. Un’arma di separazione di massa, io e il mondo, io e il vaso di Pandora da cui, già so, stanno uscendo giudizi pesanti come pietre. Non importa l’esito, importa il peso. Che dai guelfi e ghibellini ci siamo evoluti poco, è nella natura delle pose.

Quindi, sisì. A noi due.

Mi metto su le cuffie, quelle belle, quelle che uso sei volte all’anno (mannaggia), e sprofondo nell’ascolto lasciando acceso un senso solo.

Primo ascolto, sospendo il giudizio, come dopo un primo boccone di un piatto mai assaggiato. Come dopo aver lasciato il mignolo del piede sullo stokke della bambina, quell’attimo prima dell’arrivo del dolore, ultima coccola ai neuroni. Poi capirò, poi lascerò che il mio cranio elabori un qualcosa. O forse no, perché ci sono pezzi di Vitalogy che ancora non riesco a decifrare ma che canto a squarciagola in auto, devastando il volante e spostando tappetini.

Ore dodici. Non succede, il giudizio non percola fino alla pancia, rimane su, nel suo mondo di idee e non prende forma. Mi fermo sul testo, e davvero m-i  f-e-r-m-o. Sarà perché ci vedo echi di canzoni che amo, sarà perché descrivere stati dell’essere così è come mettere Proust davanti a un granello di polvere e lanciare cinque euro sul pavimento per scommessa. Li hai già persi. Bastano due immagini e il mondo è costruito, bastano due sentenze e il gusto lo ritrovo. 

Pearl Jam, pianeta terra, 2020. È una storia di evoluzione (baby), dal velluto a coste al riscaldamento globale il passo non è breve ed è giusto che non lo sia. E ancora più giusto sarà perdere amici, fans, amanti, integralisti, nostalgici. Che avranno sempre un pezzo di scia da ammirare, che, come giusto che sia, potranno sempre dire la loro. Io però la suddetta scia l’ho vista trent’anni fa e non l’ho mai persa di vista, e mi piace continuare a seguirla, magari strizzando un po’ di più gli occhi, che, con l’età, mi sto ciecando. Perché, per me, questo è. Sono le nostre vite, sotto il loro palco dagli anni novanta. Lo prendo per uno specchio, che riflette sempre la realtà, in modo molto più onesto di quanto facciano i nostri occhi davanti all’immagine riflessa. Per me loro questo sono. Sono album che diventano ere geologiche, sono canzoni che sfumano in ricordi, sono colonna sonora di un film davvero personale. Quindi, buon giudizio a tutti, basta che ne abbiate uno che a voi sembri sensato. Ci si rivede a fine marzo.

Oggi ho nuove note dei miei amati, sempre presenti, Pearl Jam.

E tutto il resto oggi è, semplicemente, sisì.

 

 

 

Andrea Riscossa

Pearl Jam: l’amore rischioso per tutto ciò che è possibile

<< I Pearl Jam sono stati uno dei pochi gruppi con la resistenza fisica e le doti critiche e di autoanalisi necessarie a superare il momento di maggior successo e continuare a servire un pubblico che è in cerca di musica essenziale. E di se stesso >>. – Bruce Springsteen

 

Lo ammetto. Se avessi una macchina del tempo, non dubiterei nemmeno un secondo su quale periodo e su quale luogo scegliere come mete del mio viaggio. O permanenza, da inguaribile grungettona esistenzialista. Inizio anni Novanta. Seattle. La città dove lo Space Needle sembra toccare quel cielo spesso scuro, plumbeo, argentato di stelle del nord. Suona così, all’epoca, la musica. Dipinta di indaco, luminosa, melodrammatica, cinica e ironica, a volte. La rivoluzione che sta per esplodere risiede fra gli scatoloni dei garage in cui musicisti dai lunghi capelli si ritrovano per comporre, scrivere, creare, trovare una personale espressione. E ascoltare, soprattutto. Sentire musica e catturarla nel modo giusto.

Nell’autunno 1990, in una sala prove, avviene un incontro che profuma di miracolo. Stone Gossard e Jeff Ament, già conosciuti nell’ambiente per essere stati compagni di band nei Mother Love Bone di una gloria locale, il carismatico Andy Wood, morto a 24 anni di overdose, tentano di rimettere insieme i pezzi. Fanno circolare una cassetta con una demo, l’antenata Times of trouble e la futura Footsteps, che finisce nelle mani di un surfista e benzinaio di San Diego. Una voce sovraincisa, la voce che fa scoccare di nuovo la scintilla, fa credere di nuovo in un inizio. Eddie Vedder arriva a Seattle e vuole cominciare subito, mettersi alla prova, indossando la sua espressione stupita, dietro la chioma ondulata. Parla poco ma fa di tutto per diventare ingranaggio di quel mondo. << Ogni volta che Vedder tirava indietro i capelli e ti guardava con quegli occhi luccicanti e maliziosi…capivi >> – confessa il regista e storico amico Cameron Crowe – << Quel ragazzo condivideva lo stesso amore rischioso per tutto ciò che era possibile >>.

Da lì, nel giro di un anno, l’album di esordio, Ten, catapulta i Pearl Jam nel firmamento delle celebrità. Infiniti gli aneddoti, le avventure, le perdite, le esperienze, la fuga dalle luci della ribalta, il rifiuto di girare videoclip, la battaglia contro Ticketmaster, la tragedia di Roskilde, l’impegno nel sociale. Eddie Vedder fonda addirittura una radio indipendente da cui trasmette in diretta dal furgone che guida, da solo, mentre raggiunge i compagni che, invece, atterrano in aereo nelle località scelte per il tour di Vitalogy.

Ecco, non ricordo quanti anni fa, proprio alla radio di un’auto, stava girando un disco di colore rosso con una freccia nera rivolta verso l’alto. Un greatest hits, raccolta che di solito non compare mai tra i cd che colleziono. << Chi sono questi…? >>. << Dai… I Pearl Jam >>. È stato amore a primo ascolto, è stata magia. Una chiamata. È stato abbandonare quei sedili, scendere, per accettare un passaggio da sconosciuti. Un viaggio di sola andata, il cui diario di bordo si riempie di canzoni, versi, storie narrate e vissute. Da loro, da me. E poi attese, concerti, vicinanza, empatia, volume che scorre nelle vene, parole e simboli impressi sulla pelle.

I Pearl Jam non sono, infatti, soltanto quelli di Alive, di Even Flow, delle arrampicate e dei voli folli dalle americane, degli stadi sold out. I Pearl Jam sono anche, e soprattutto, il racconto di un percorso di evoluzione, in evoluzione. È arduo descrivere a parole il legame osmotico che mi connette a questi cinque artisti. Credo che chiunque mi osservi nel momento in cui ascolto la loro musica, capisca tutto dall’espressione dei miei occhi. Voglio provarci, però. In fondo, è stato concepito con tale intento l’articolo che sto scrivendo.

E lo voglio fare creando la mia personale playlist: un brano, per ogni disco pubblicato. Il mio brano “preferito”, o meglio, quello che per me ha rappresentato e rappresenta una chiave di lettura, in musica, di frangenti di esistenza. Un puzzle. Dei tasselli che, uniti con cura, disegnano l’immagine della band. Un invito, una scintilla di curiosità sia alla lettura che all’ascolto. Quindi… cuffie alla mano e alle orecchie. Si parte!

 

Pearl Jam 1

 

  • RELEASE (TEN, 1991): All’interno del dvd che celebra i vent’anni di carriera del gruppo di Seattle, Twenty, si assiste a una scena in bianco e nero. Una radura, un fuoco accesso, il tronco di un albero su cui è appoggiato il cantante. Come colonna sonora, un arpeggio iniziale. Sembra quasi il suono distratto di chi sta accordando uno strumento. In quella sala prove, dove tutto è iniziato, è stato scambiato proprio per una semplice successione di note. Una formula magica, però. Un mantra. La preghiera a cui viene affidata la liberazione dalla volontà di rivincita di Alive, dalla rabbia di Once, dalla solitudine di Deep, dalla sofferente conclusione di un amore di Black. << Una sera, mentre sedevamo a gambe incrociate a casa di un amico ascoltando cassette di Neil Young, Eddie mi ha raccontato la storia di quando ha scoperto che il suo padre biologico era un amico di famiglia che era morto >> – ricorda Crowe – << È stato un breve momento di riflessione malinconica da parte di Eddie, quasi la confessione dell’origine profonda della rabbia che si trova in certe sue canzoni >>. Con la figura paterna, evocata nella seconda strofa con l’informale “dad”, viene ricercato un contatto, un dialogo, una risoluzione dal dolore (I’ll hold the pain / Release me). Collocato in chiusura della setlist dell’album, Release è il primo brano del primo concerto, il 22 dicembre 1990, in apertura agli Alice in Chains all’Off Ramp Cafè, un bar per motocicliste nella capitale dello stato di Washington, lo stesso dove verranno girate alcuni frame del film, firmato proprio da Cameron Crowe, Singles – L’amore è un gioco. Il regista è presente quella sera assieme a Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora compagna di Chris Cornell, la quale ripercorre il clima di attesa prima che la nuova formazione di Jeff e Stone esordisse in scena: << Tutti erano nervosi. Volevano vedere la fenice alzarsi. Era quella la prima volta che molti fan avrebbero visto Eddie e si chiedevano chi fosse quel ragazzo, se fosse abbastanza in gamba per prendere il posto di Andy Wood >>. Continua Crowe: << La prima canzone che hanno fatto è stata Release. Ho guardato mia moglie Nancy e ho detto: “Quello è il ragazzo timido? Oh mio Dio”. Presto lo vedemmo dondolarsi dalle impalcature. In qualche modo fu una specie di finale per Eddie-il ragazzo dalla timidezza atroce >>. È un battesimo artistico ed umano. Una catarsi. La rielaborazione di lutti tanto personali quanto comuni. In molti lo accolgono fin dal primo momento; quasi nessuno, però, in platea sospetta la maestosità della fenice che sta rinascendo. Dopo il debutto, per ancora un po’ di tempo, i cinque continuano a girare con il nome Mookie Blaylock, in onore dello storico cestita dell’NBA. Dal giocatore viene anche il titolo Ten, dieci, come il numero della sua maglia. Tuttavia, con la firma del contratto discografico la band deve pensare a una ragione sociale priva di complicazione di diritti. Nessuna delle versioni sulla genesi di Pearl Jam sembra appurata con certezza. La parola ai diretti interessati: << La miglior giustificazione per il nostro nome sta nel riferimento alla perla stessa e al processo naturale da cui proviene: parte da scarti ed escrementi per diventare qualcosa di bello. È così che è iniziata la nostra band >>. (“Cultivate the Pearl” è la frase che accompagna il mio tatuaggio con lo stickman, simbolo identitario del gruppo).

 

  • INDIFFERENCE (VS., 1993): Al contrario di quanto possa far intendere il titolo, la traccia che chiude Vs. è tutt’altro che un’ode all’indifferenza. È il manifesto dell’indole dei Pearl Jam a dire la propria, a prendere una posizione nelle questioni sociali, politiche, umane. Non a caso, forse, quando viene scelta come brano finale di un concerto, la band rimane sul palco ma le luci sono già accese. È una liturgia: l’unico momento in cui, in oltre due ore, ci si riesce a guardare in faccia l’uno con l’altro, a lume di candela, di fiammifero. Affrontare. Seguire, come un manuale, le istruzioni indicate già dall’inizio. “I will light the match this morning, so I won’t be alone/ Watch as she lies silent, for soon light will be gone / I will stand arms outstretched, pretend I’m free to roam / I will make my way through one more day… in hell. How much difference does it make?” Che differenza fa? Me lo sono chiesta anche la scorsa estate, il 24 giugno, al termine del live allo Stadio Euganeo di Padova. Ogni volta, la risposta risiede in ognuna delle affermazioni, delle intenzioni, dei sentieri declinati al futuro che, verso dopo verso, si aprono con I will. Un invito a tenere accesa una scintilla, seppur impercettibile. Farsi strada anche attraverso le difficoltà. Stringere nel palmo di una mano il fuoco che alimenta la passione, fino a bruciarsi se necessario. Prendere pugni, fino a farli stancare. Fissare il sole, fino ad accecarsi. Ingoiare veleno, per diventarne immune. Urlare a pieni polmoni, riempendo i vuoti siderali dei silenzi. Fare la differenza. Essere la differenza, sempre.

 

  • NOTHINGMAN (VITALOGY, 1994): Tra i cattivi presagi, le figure sataniche, gli scarafaggi e i canti sciamanici che dominano le grigie atmosfere del terzo lavoro in studio dei Pearl Jam, appaiono due uomini. Il più conosciuto, alla traccia numero undici, è il Better man contro il quale sfocia la rabbia di Vedder adolescente, figlio e uomo che per anni ha visto una donna, Karen, imprigionata nella relazione con Peter, “il bastardo che ha sposato mia madre”, così presentato durante il concerto ad Atlanta nel 1993. Risalendo, fino al quinto titolo, ci si imbatte in un individuo meno definito, meno circoscritto a una identità. È un’ombra, i cui contorni assumono progressivamente il suono di un’interpretazione da brividi e la forma di una granitica consapevolezza: la fine di una storia d’amore. Sembra uno spin off di Black con lo stesso protagonista, ma adulto: anche lui ha perso tutto, i pensieri lo tormentano e vaga da solo. La discrepanza, probabilmente, è solo astrologica: nel capolavoro di Ten, la figura femminile è descritta con la metafora della stella, qui prima è comparata a un fulmine, poi al sole, alla luce, che, una volta persa, acceca e brucia. In senso di perdita in un ultimo volo, degno del mito di Icaro. << Nothingman è stata scritta in un’ora e per questo mi piace ascoltarla, perché ha catturato uno stato d’animo che c’era in quel momento, almeno per quanto riguarda la mia parte vocale >> – dichiara Vedder in un’intervista di quel periodo per il Los Angeles Times – << L’ho scritta prima di sposarmi (con la prima moglie Beth Liebling). Può essere che abbia messo qualcosa che so sulle relazioni ma è stata scritta pensando a qualcun altro che sta attraversando quella fase, qualcuno che ha mandato tutto a puttane. Io non ce le ho mandate. L’idea alla base è che se ami qualcuno e quel qualcuno ti ama, non devi mandarle a puttane, perché ti ritrovi a essere meno di niente. Le relazioni possono essere difficili. Ci sono delle volte in cui… la musica mi prende un sacco di tempo, spesso non dormo la notte; penso di essere una persona difficile con cui avere a che fare. Le cose sembrano non adeguarsi mai alla normalità e Beth si trova a dover affrontare tante cose. Non voglio entrare nel nostro privato ma a volte c’è della tensione. Immagino che a volte siamo tutti un po’ egoisti ma so per certo che senza di lei, io sarei un aquilone senza corda: un uomo da niente >>.

 

  • OFF HE GOES (NO CODE, 1996): Quando qualcuno mi pone la domanda da un milione di dollari su quale sia il mio album preferito della discografia, la prima copertina che visualizzo è il collage delle 144 polaroid di No Code. I pezzi che lo compongono sanciscono la differenza tra quello che i musicisti erano e quello che saranno. Un nuovo inizio artistico, senza regole precise, senza definizioni. L’unica decodificazione è il senso della freccia su cui corre la nostra esistenza: da sinistra a destra, in avanti. Il doloroso ma inevitabile passaggio alla vita da adulti è personificato dal protagonista di Off he goes. Un uomo dall’espressione tesa, sempre in movimento, come una motocicletta contro il più forte dei venti. Un insieme di caratteristiche nelle quali ho rintracciato, ad ogni ascolto, la mia incapacità di restare ferma, di voler vedere che cosa c’è al di là del limite, del farmi carico di situazioni fino a non riuscire più ad essere avvicinata. In realtà, come ha ammesso anche Bruce Springsteen, durante i suoi spettacoli a Broadway, in relazione alla volontà di andarsene lontani dai luoghi natali, alla fine è sempre lì che si torna. Il bagaglio si arricchisce e pesa così tanto di esperienze che, ad ogni ritorno, muta la modalità di vivere la dimensione familiare, le birre con gli amici, le persone di cui si è sentita la mancanza. E torna la voglia di andarsene, nuovamente. Per poter fare ritorno, in una spirale dall’andamento costante. “To go off” può anche non significare andarsene fisicamente, ma soltanto lasciarsi distrarre da preoccupazioni, “spegnersi”. << Salto fuori, chiedo se è tutto apposto e non mi faccio vedere per un po’ >> – confessa il frontman in merito al suo modo di concepire i rapporti con gli altri. Quante volte mi sono specchiata in quella frase, nel tentativo di un compromesso fra il desiderio di empatia e quello di solitudine. Un compromesso che, nel punto critico di crollo, Eddie ha abbracciato, suggerito e descritto nell’invocazione che chiude e compie il senso dell’intero disco: I’m open. La porta è ora aperta. Non per uscire ma per far entrare. “Sono aperto”, al contatto, al confronto, all’aiuto e alla rinnovata capacità di accogliere, di immaginare. Decidere di sognare se stessi, per se stessi. I’m open è una preghiera, una lettera a cuore aperto spedita senza il nominativo e l’indirizzo del destinatario. Afferma l’autore: << È come un mantra. Non so se riguardi la religione o una storia d’amore. Riguarda l’essere aperto a qualsiasi cosa ci sia là fuori. Come dire: “Sono qui, sto ascoltando” >>.

 

  • GIVEN TO FLY (YIELD, 1998): Nel documentario Single Video Theory, dedicato alla stesura di Yield, scorrendo le mani sul manico della chitarra e riproducendo l’incantesimo generato dall’accostarsi delle note introduttive, Mike McCready dichiara: << Questa canzone mi ricorda una specie di onda, inizia dal basso e poi cresce sempre più alta, sempre più grande. Viene fuori da un periodo in cui stavo finalmente rimettendo insieme la mia vita, dopo aver attraversato l’oscurità. Musicalmente, rappresenta una specie di risveglio per me, un periodo di rinnovamento, dove ho capito come tornare a vivere la mia vita. Ora che avevo le idee più chiare, mi venivano in mente questi spunto che avevano un che di celebrativo… ecco perché ci sono tutti questi picchi e queste discese>>. A Eddie Vedder è affidata, invece, la stesura del testo, i cui versi emanano la potenza evocativa di un racconto fantastico, di una fiaba, come la definì egli stesso. Tra realtà e fantasia, viene narrata la storia del riscatto di un uomo che, nonostante i colpi ricevuti, è destinato a volare alto, a compiere un’eroica missione d’amore. Tra realtà e fantasia, ciò che conta è il lieto fine. << La musica riesce a darti il senso del volo e mi piace davvero cantare la parte finale che parla del sollevarsi al di sopra di quello che dicono gli altri di te e continuare comunque a dare il tuo amore. Non finire amareggiato e solo, non condannare tutto il mondo per le azioni di pochi>>.

 

  • PARTING WAYS (BINAURAL, 2000): Lo spettro più spaventoso per chi vive della passione per la scrittura, per le parole, per la musica è il blocco creativo. Le ragioni per cui, talvolta, sopraggiunge la totale aridità di ispirazione possono essere molteplici. Le conseguenze, ancora più catastrofiche: << Può far diventare la tua relazione un inferno >>. Sono profondamente legata a questo pezzo proprio per il nodo che crea, o scioglie, tra il macrocosmo dei legami e quello della realizzazione artistica. Da una parte, ho sempre ammirato con quanto orgoglio, pudore e stoica malinconia sia dipinta la scena di un allontanamento che sfuma tra le note di un violino. Dall’altra, ricollego questo brano a un sussulto ben preciso che non dimenticherò mai. Mi trovavo a casa, da sola. Il lettore cd con Binaural, con gli ultimi minuti, con gli ultimi versi di Parting ways. Immersa nelle mie attività, non sono andata a stoppare. Ormai tutto taceva, ero ripiombata nel silenzio. Il trascorrere di qualche minuto ed ecco arrivare alle mie orecchie forse la più struggente ghost track che abbia mai ascoltato. Un ticchettio, il suono delle dita che premono sui tasti di una macchina da scrivere. È la macchina da scrivere di Eddie Vedder. Per una musa che se ne è andata, l’altra è ritornata. La fantasia, l’immaginazione. Nelle ultime pagine del booklet, è riportata la sigla J.F.M., “Just Fucking Music”. È “Solo Fottuta Musica” il motivo per cui la relazione di chi canta è andata in frantumi, è “Solo Fottuta Musica” l’unico frutto che volesse vedere nascere dalle sue dita. È “Solo Fottuta Musica” l’unica cosa a cui continuerà a dedicarsi, malgrado tutto.

 

Pearl Jam 2

 

  • THUMBING MY WAY (RIOCT ACT, 2002): Dal 2017 ad oggi, ogni qualvolta che nelle cuffie inizia a girare questo pezzo, scorgo davanti a me uno scenario preciso: il mare di notte, l’abbraccio di mura antiche, le luci violacee ad illuminare il Teatro Antico di Taormina. Ricordo nitidamente l’attacco della chitarra acustica, l’istante di magia che si crea quando si riconosce una canzone. La canzone che ha racchiuso il significato del live indimenticabile a cui ho assistito. Forse perché, quella sera, ero io ad indossare i panni logori dell’autostoppista esistenziale che cammina lungo le note e le parole di Thumbing my way. La decisione di partire, nel tentativo di lasciarsi alle spalle qualcosa, o qualcuno, per ripercorrere la strada verso il proprio paradiso. Un itinerario tutto in salita, con una valigia carica di ricordi, rimpianti, domande in sospeso. Un tunnel da attraversare, in inverno, che si affaccia su una nuova stagione, la primavera. Voler scegliere tra il bene e il male e non tra quello che è giusto o sbagliato. Non perdere la fiducia in chi si può incontrare nella via apparentemente deserta di ritorno al paradiso. Il/la protagonista deve trovare qualcuno che ce lo accompagni, anche per un tratto soltanto. Un’anticipazione della lezione, musicata da Vedder, appresa da Christopher McCandless al termine del suo viaggio Into the wild: la felicità è reale solo se condivisa.

 

  • INSIDE JOB (PEARL JAM, 2006): il brano in questione è il primo che porta il sigillo del chitarrista Mike McCready. I suoi fantasmagorici assoli diventano i reagenti perfetti per un esperimento tanto coraggioso quanto vitale: fare pace con il proprio passato, anziché continuare a fuggirne, con l’obiettivo di scendere alle radici di ciò che non lo rende ancora libero. La droga, l’alcool, la dipendenza come gabbie. L’inspirare e l’espirare insicurezza (“breathing insecurity out and in”), probabilmente origine del problema. Una parola chiave, per me, “insicurezza. Motore e sabotaggio, allo stesso tempo. E che cosa c’è oltre il velo nero del timore di non essere abbastanza? Oltre quel velo, c’è una scelta: How I choose to feel / Is how I am. Ho scelto di sentirmi per come sono. Essere come sono. Una forma mentis che deriva, unicamente, da un profondo lavoro interiore. << Buttare uno sguardo all’interno se non altro aiuta a cambiare te stesso >>. “Shining a human light”, brillare della propria umanità, dopo aver scoperto, o riscoperto, la più personale luce.

 

  • AMONGST THE WAVES (BACKSPACER, 2009): Sull’artwork di Backspacer, nell’angolo in basso a destra, tra gli altri “fumetti” che raffigurano la tracklist traccia per traccia, appare l’immagine di una donna a testa in giù. È immersa nell’ondeggiare dei flutti, che la avvolgono, la cullano, la completano quasi a trasformarsi nei suoi capelli. Tra le onde. Quello dei Pearl Jam con l’acqua, come elemento naturale, è un legame che è sempre esistito e si è evoluto e disteso nel tempo. Dall’onda di dolore da cavalcare di Release, al malinconico sentimento di distanza di Oceans, alla pioggia attraverso cui correre di Inside job, ora, finalmente, il “riding amongst the waves” rimanda alla grandissima passione di Eddie Vedder, il fare surf. Un collegamento che si è sviluppato seguendo le tappe della loro carriera, ripercorse, in metafora, nelle strofe della canzone. La musica pacata, all’inizio, con il mare solo leggermente ondulato. Dopo aver apprezzato il piccolo grande istante di respirare a pieni polmoni, in Just Breathe, ora, sulla battigia, ci si gode la calma dopo la tempesta. Condividendo quella serenità (“just you and me and nothing more”), ricordando da dove si è partiti, focalizzando il punto in cui si è arrivati. L’amore, che ha permesso di non annegare. Tuffarsi, senza troppi pensieri e cavalcare le onde: << Nel fare surf c’è sempre qualcosa di liberatorio. Mantenendo l’equilibrio, restando in piedi, apprendi di essere vivo >>. Il confronto con il mare, qui, non serve a ridimensionare l’uomo davanti all’inafferrabile, all’imprevedibile. Immergersi significa, piuttosto, restituirsi al posto a cui apparteniamo, un gesto di resa e rinascita insieme. Sentire di nuovo la forza dei raggi del sole che filtrano le nuvole, per sorridere. Recuperare tutta la voce necessaria ad urlare al mondo la bellezza della propria anima, tratta in salvo. Better loud than too late.

 

  • FUTURE DAYS (LIGHTNING BOLT, 2013): Qualche giorno fa, una persona mi ha scritto: << I Pearl Jam non azzeccano una ballata dal 2002 >>. Ho risposto: << Non so se riesco a reggere un’affermazione del genere >>. Ho percepito un senso di ingiustizia nei confronti di Future days, chiosa finale della discografia finora all’attivo della band. Con lo storico produttore Brendan O’Brien come ospite, al pianoforte, la canzone viene eseguita per la prima volta al Wrigley Fields, lo stadio dei Chicago Cubs, alla serata di apertura delle Baseball World Series nel luglio 2013. Un tempio sacro, quello, che i cinque giovani musicisti che avevano esordito all’Off Ramp Caffè di Seattle non avrebbero mai pensato di varcare. << Penso che sia uno di quei pezzi che farà piangere le persone >> – dice McCready – << Quando l’abbiamo suonata al Wrigley Fields mi sono sentito un tutt’uno con il pubblico >>. Se, infatti, tutti gli inguaribili romantici vorrebbero essere i destinatari di una dichiarazione d’amore così profonda e incondizionata, il significato racchiuso in questa dolce poesia è ben più ampio. Come sottolineo spesso, parlare di futuro è una scelta coraggiosa. Perché per guardare oltre, si deve prima metabolizzare, analizzare, accettare quello che è stato. Le porte in faccia, le parentesi buie, le cadute, le perdite: << Quando le grandi lenti della tragedia ti puntano, tu cambi. Diventi più empatico >> – spiega Eddie – << È anche questo che dice il disco. Non aspettare che la tragedia ti colpisca direttamente prima di capire cosa stanno passando gli altri >>. Perché per guardare oltre bisogna avere ferma fiducia in qualcosa. In questo caso, nel loro caso, nel mio caso, la musica. << Abbiamo cominciato a fare musica per soddisfare noi stessi. Credo che questo fosse il piano all’inizio. Quel che non avremmo mai immaginato è che tante persone avrebbero stretto amicizie, scambiato idee e condiviso la propria umanità attraverso la nostra musica >>. Da Release in poi, tutte le tracce di chiusura, come nel compimento di un cerchio, o meglio, nello slancio nella spirale, hanno gettato l’occhio a quello che sarebbe stato. In Future days, il potere salvifico sta nella capacità stessa di sperare un domani, di riuscire a scorgerlo, conoscendosi e riconoscendosi, ogni giorno, nel presente. Per dirlo con le parole, con la voce di chi ci ha accompagnato fin qui: << La cosa più importante è imparare a capire chi sei adesso, nel presente >>.

 

*BONUS TRACK. HUNGER STRIKE (TEMPLE OF THE DOG, 1990): Non mi dilungherò sul significato di questo capolavoro. Non è stato scritto dai Pearl Jam. Appartiene a una band che è durata il tempo di un disco, di un’opera d’arte: i Temple of the Dog. Il mio desiderio è solamente quello che, adesso, lo ascoltiate. Tanti i temi, attuali ora come allora: lo sguardo attento al mondo, la premura per i più deboli, la coscienza politica e sociale, il pensiero per qualcuno che se n’è andato e a cui sono state dedicate dodici melodie senza tempo. L’assonanza, nel ritornello, tra “I’m going hungry” e “I’m going angry”. La proclamazione di uno sciopero della fame, di un digiuno, di una protesta dietro la quale tutto era già scritto e tutto era ancora da scrivere. Due sono le voci. C’è il tono basso, solenne di Eddie Vedder. E poi c’è la potenza, l’anima, il grido, l’unicità di colui che è stato bandiera di quella rivoluzione. C’è un artista che, sabato 18 maggio, manca terribilmente da due anni. C’è l’Uomo a cui vorrei dedicare questo articolo. C’è Chris Cornell.

 

Laura Faccenda

Foto di Henry Ruggeri

 

Dave Orlando, i Pearl Jam e un po’ di Messico

Questa intervista nasce da un’idea condivisa. E da tanta empatia. Due elementi fondamentali per la riuscita di un progetto. Sì, perché dal momento in cui sono entrata a far parte del mondo di VEZ Magazine, il mondo di Vez Magazine si è intersecato alla perfezione con il mio, sfiorando con delicatezza anche le sfere più personali.

Lau, quando suona Dave a Rimini?” – mi disse Sara, direttrice della rivista e amica, un paio di settimane fa. “Venerdì 18 gennaio, all’Hobos”. “Ok, io e la Vali ci organizziamo per le foto, tu lo intervisti”.

È andata così.

Nella cornice di un locale che porta con sé il calore del Messico, l’entusiasmo dei leggendari avventurieri, il profumo del limone con la tequila, Dave Orlando ci ha presi per mano, accompagnandoci lungo un cammino musicale, tra i brani dei Pearl Jam, di Eddie Vedder e delle colonne sonore del film Into the Wild.

Non solo. Ha condiviso con il pubblico, con noi, uno dei suoi brani inediti, Il funambolo.

Abbiamo voluto approfondire…

 

Un brano con cui apri molto spesso i tuoi live è Off he goes, dei Pearl Jam. Una canzone in cui si racconta di un viaggio, di partenze, di ritorni, di cambiamenti. Dove ti ha condotto, ad oggi, la strada della musica?

Off he goes è un brano a cui sono particolarmente affezionato perché è sia complesso a livello musicale che a livello emotivo. Musicale perché non è facile da eseguire e l’ho preparato con grande impegno. Doveva venire in quel modo, secondo anche un po’ il mio perfezionismo nella musica.

Per quanto riguarda il significato, parla di un personaggio in cui ho rivisto sempre Eddie Vedder. Un uomo che lascia la sua città, gli affetti, la quotidianità per intraprendere questo viaggio lungo la strada della musica. Una volta tornato, si accorge di un profondo cambiamento. Nella canzone, in realtà, l’aspetto che più mi affascina è l’interpretazione, che rimane sospesa: è il mondo ad essere cambiato o è mutato il punto di vista del protagonista? È il protagonista ad essere cambiato, durante il viaggio.

Ecco, ho rivisto qui il mio percorso da quando mi sono dedicato completamente alla “vita musicale”: mi sono allontanato da una quotidianità che avevo vicina ed è cambiato proprio il mio modo di approcciarmi ad essa. Ho rinunciato a molte cose, tra cui, la più importante, il tempo. C’è un dispendio di energia enorme, sia sul palco che dietro le quinte diciamo. Io affronto tutto in modo viscerale, personale e tento di spiegarlo così, all’inizio di ogni serata. Con Off he goes.

Soprattutto nei miei live da solista, in cui decido soltanto il pezzo di apertura, mai la scaletta. Mi racconto attraverso dei brani che mi rappresentano, che sento tantissimo e che parlano la mia stessa lingua, seguendo le emozioni e l’atmosfera che si crea. Ad oggi, sicuramente, guardandomi indietro, il bilancio è positivo perché vivo di una passione. Della mia passione.

 

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Riportando l’attenzione alla partenza, appunto. Quando hai deciso di intraprendere questo viaggio? Quando ti sei detto: “Da grande voglio fare il musicista”?

Il viaggio è partito dalla passione, appunto. Scoperta anche un po’ per caso, nonostante i miei genitori avessero sempre avuto ed hanno tutt’ora a che fare con la musica. Loro, però, non mi hanno mai spronato a suonare uno strumento o cose simili ecco. Forse era inevitabile che mi avvicinassi a questo mondo. All’inizio per curiosità, amici che suonavano…e soprattutto l’ascolto di tanta, tanta musica.

L’idea di formare la prima band è arrivata intorno ai tredici anni e da lì, attraverso le tappe fondamentali per lo meno per la mia generazione… nessun ragazzino a sedici anni partecipava ai talent ecco… quindi, tappa dopo tappa, è cresciuta anche la consapevolezza di certe doti e capacità. Il mio approccio è sempre stato più “professionale” durante il percorso al punto che, qualche anno fa, ho sentito fortemente il desiderio di far diventare il tutto un lavoro, anche se non mi piace troppo chiamarlo così. Da un sogno si è trasformato, con il tempo, in un progetto realizzabile.

Chiaro che la mia carriera ruota molto attorno alle cover. Ho avuto sempre, distribuiti negli anni, anche progetti di musica inedita. Mai miei al 100 % in quanto non essendo il cantante non li sentivo troppo miei. Ma è stato utilissimo perché l’approccio è davvero diverso rispetto al contesto delle cover o dei tributi. Ti vedi in sala prove, inizi a jammare finché non esce un riff che funziona, porti le tue idee.

Probabilmente il tutto era impostato in modo troppo adolescenziale: ti incontri spesso, produci poco perché il metodo è sbagliato. Il passaggio ai progetti con le cover è stato dettato anche dall’età. A un certo punto devi per forza scegliere, investire costruttivamente tempo e qualità.

 

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Hai molti progetti all’attivo, sia da solista che con delle band. Tributi a Nirvana, Pearl Jam, Foo Fighters, Eddie Vedder, Chris Cornell. I più grandi nomi del panorama grunge anni ’90. Che cosa può suggerirci oggi, e ancora oggi, quella musica?

Gli artisti che sono emersi in quegli anni e che sono ancora in attività… non molti purtroppo… hanno iniziato a scrivere canzoni per esprimere un’urgenza, un disagio che era diffuso tra i giovani, specialmente a Seattle, che è stata una fucina di talenti. Provavano rabbia, volevano ribellarsi a una società a cui non sentivano di appartenere. Ovviamente, oggi il messaggio è molto cambiato. Sono uomini adulti che hanno anche superato difficoltà, momenti bui, perdite.

Hanno costruito spesso una famiglia, sono maturati, vedono la vita con altri occhi… e tutto questo si ascolta nei loro lavori più recenti… che non possono essere, tra l’altro, simili o di totale ripresa delle prime produzioni. Non capisco quelle persone che criticano per forza i cambiamenti da un disco all’altro di un gruppo o di un artista. Riprendendo questo discorso, appunto, il messaggio che la musica nata negli anni Novanta può veicolare oggi è l’importanza della comunicazione, della musica come comunicazione.

L’immenso potere che ha la musica di far sentire unite persone legate da esperienze simili che si rivedono in determinati brani…e magari riscontrano in quei brani lo stesso percorso, la stessa forza nel superare gli ostacoli, nel non arrendersi, nel voler costruire qualcosa. Purtroppo, secondo me, specialmente in Italia, abbiamo perso questo valore. Ascolto sempre più testi vuoti, basati su cliché, su schemi prefissati per entrare a far parte di un contesto che è basato molto sul business.

 

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Immagina di avere una macchina del tempo e tornare a Seattle, nel 1990. Squilla il telefono… “Ehi, vuoi venire a suonare con noi?”. Chi vorresti fosse dall’altro lato della cornetta? Di quale gruppo avresti voluto far parte?

Ehhh questa domanda mi mette parecchio in difficoltà. In qualche modo sono legato a tutte quelle band, da ognuna prenderei qualcosa. Se volessi fare un disco grunge, ad esempio, prenderei un po’ delle caratteristiche di ognuna, benché tutte diversissime. Dovendone scegliere una… Ti dico i Pearl Jam, forse anche per un discorso di longevità.

È stato il gruppo che si è espresso nei modi più diversi, dall’hard rock alla ballata acustica e credo che sia quello che mi rispecchia di più. Essere Eddie Vedder non sarebbe stato male dai… Ecco, mi vengono in mente ora anche gli Stone Temple Pilots che sono rimasti sempre più nell’ombra. È una band che adoro e, secondo me, il disco più bello uscito nel 1991 forse non è Ten… Ma Core degli Stone Temple Pilots.

 

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Oltre ad avere la grande capacità e il talento di rendere personali le cover che esegui, hai anche un progetto di musica inedita. Abbiamo ascoltato Il funambolo. Che cosa significa per te comporre, scrivere?

Ad un certo punto, ho sentito che era arrivato il momento e il bisogno di comunicare qualcosa di mio. Ok, riesco a farlo anche attraverso le cover rispecchiandomi molto negli artisti, nei brani, nelle parole e nelle atmosfere musicali che omaggio. Ma volevo dire la mia. Ovvio che dietro quello che tu scrivi, c’è sempre la speranza che arrivi a più persone possibili. Sarebbe ipocrita non ammetterlo… non è però il motivo per cui ho iniziato a scrivere.

È la musica che mi ha cercato. Non ho preso in mano una chitarra o mi sono messo di fronte a un foglio di carta, pensando: “Adesso scrivo una canzone”. È quella magia che avviene quando ti svegli, di notte o di mattina, con un’idea. Unendo tutti i pezzi, viene fuori qualcosa. Descrivo la mia musica come molto istintiva e poco ragionata perché c’è tanto di me. Non mi importa che sia più o meno condivisibile o ancora meglio, o peggio, vendibile. Non riesco a scendere troppo a compromessi quando si parla della mia musica e non voglio contaminarla. Non le ho dato molto spazio, per ora. Ma voglio che ne rimanga invariata l’autenticità.

 

Talvolta, parlando delle tue canzoni, hai confessato che sono ancora chiuse in un cassetto… Quale chiave potrebbe aprirlo?

Sinceramente, non lo so. Molti segnali, nel tempo, mi hanno portato a pensare di lasciar perdere. Non batoste o cose simili… magari aspettative disattese. E ho pensato: “Sto buttando via soltanto tempo?”. È anche vero, però, che ogni volta che suono i miei brani durante un live, magari solo uno, qualcosa dentro si muove. Mi dispiacerebbe privarmi dell’emozione provata quando eseguo una mia canzone. Il cassetto si aprirebbe se… arrivasse un contratto da qualche milione di euro? Scherzo ovviamente. Forse dipende solo da me. Il tema “inediti” è una questione a cui tengo talmente tanto che se non ci sono i presupposti per farli uscire…piuttosto non li faccio uscire.

È strano da spiegare. Sicuramente avere gli spazi per presentarli e farli ascoltare aiuterebbe molto. Di solito li propongo in qualche mio live quando percepisco che si crea uno scambio intenso con il pubblico. Quando si condivide una stessa lunghezza d’onda e io mi sento più aperto. Allora è figo. Quella magia lì è decisiva per aprire o meno il cassetto. E mi darebbe anche più energia per continuare a scrivere, comporre. Ecco, la comunicazione, lo scambio comunicativo sarebbe una chiave per aprire quel cassetto.

 

Ultima domanda. Se tra il pubblico, durante un tuo live, ci fosse la Musica in persona, come la ringrazieresti? Quale brano vorresti dedicarle?

Cazzo…. Bella domanda, ma difficile! Voglio rispondere in maniera istintiva. Credo che le dedicherei un mio brano. Ti spiego. Detto con tutta la modestia e l’umiltà del mondo, il “dono” di riuscire a creare una canzone dal nulla, secondo me, è una cosa grandissima. Ed è un dono che la vita e la musica ti fanno. Io, al di là di quello che può pensare la gente, sento di averlo. Per quanto riguarda il brano, sceglierei Il funambolo. È quello che propongo anche di più perché me ne sono innamorato da subito…della musica, delle parole, della metafora. Lì ho scritto tutto io e sarebbe tutto per Lei.

 

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Testo di Laura Faccenda

Foto di Valentina Bellini

 

 

I Pearl Jam a Milano aprono il loro mini-tour Italiano

I-days 2018
Pearl Jam

 

Ansia. Questa è la parola che sceglierei per descrivere i giorni che hanno preceduto l’atteso concerto dei Pearl Jam agli I-days 2018. Ansia perché dopo l’annullamento dello spettacolo di Londra anche l’appuntamento di Milano era a rischio. E dopo 7 mesi di attesa non ero pronta a ricevere una notizia simile, soprattutto a causa di un mal di gola.
Quindi dopo che hanno confermato la loro presenza al festival milanese tutto il resto sembrava secondario. Non importava la camminata sotto il sole cocente e non importava nemmeno avere perso i miei amici e aver rischiato di rimanere a piedi. A quel punto l’unica cosa che importava era essere li.

Prima dei Pearl Jam si sono esibiti gli Sterophonics che hanno dimostrato di saper gestire una folla come quella che ieri ha riempito l’aera expo di Milano, la location che quest’anno è stata scelta per ospitare gli I-days.
La band gallese, che è stata sul palco per circa un’ora, oltre ad aver portato i loro pezzi più famosi ha accennato un piccolo tributo ai Pearl Jam con le note iniziali di Given to Fly. La folla è impazzita.

Penso che sia stato quello il momento che tutti aspettavano; l’istante che ha fatto pensare a tutti “ecco ci siamo”.

E poco dopo è iniziata la magia.

Quando Eddie Vedder è salito sul palco, parlando in un italiano maccheronico, intonando Release nella nostra lingua, tutto sembrava essere perfetto e le preoccupazioni dei giorni precedenti sono volate via.
Nonostante fosse sotto tono e abbia fatto fare un grande lavoro al pubblico e al suo chitarrista le emozioni che ha regalato a chi era presente sono state tante. Non importava la lontananza o la vicinanza dal palco: essere al centro della folla, tra 60.000 persone che saltano e cantano Even Flow è stata un’emozione unica.
Tanti intermezzi parlati, forse per dare il tempo al cantante di riposare un po’ le corde vocali. E proprio nel bel mezzo del concerto c’è stato il momento più romantico della serata. Eddie, in un italiano traballante e un po’ da commedia americana, ha letto una lettera in cui ricordava il primo incontro con la moglie avvenuto proprio a Milano 18 anni prima. E dopo averla chiamata sul palco, con una bottiglia in mano, hanno brindato insieme. Musica e romanticismo, non si poteva chiedere di più.
Scaletta ridotta, viste le condizioni di Vedder, ma ricca di grandi classici e tributi a band come i Pink Floyd, Van Halen e Neil Young.

E mentre al termine del concerto ripercorrevo la camminata a ritroso per tornare alla macchina, continuavo a chiedermi “Chissà come sarebbe andata se fosse stato in forma”.
Credo che per avere una risposta tornerò a sentirli alla prossima tournée europea. Perché davvero ne vale la pena.

 

Laura Losi

 

 

Foto di Stefanino Benni

Un grazie di cuore a The Front Row