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Tag: sfera cubica

Tre Domande a: Iosonocobalto

Se dovessi riassumere la tua musica con un tre parole, quali sceglieresti e perché?

Insonnia, proprio come il titolo della terza traccia di Non avere paura del buio, perchè il modo in cui scrivo soprattutto i testi dei miei brani è frutto di un flusso di coscenza continuo, che non dorme mai.
Specchio, perchè sono la musica che racconto e la musica che racconti ti rappresenta e anche perchè cerco sempre di raccontare in modo che anche gli altri possano vedere nei miei brani il proprio riflesso.
Quadro, perchè il modo in cui interpreto la musica è prevalentemente immaginifico. Prima di dedicarmi completamente alla musica, dipingevo in senso letterale… Adesso è come se dipingessi con parole e melodie e io stessa fossi la tela bianca.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Se dovessi scegliere una canzone che rappresenta al meglio tutti i miei colori, sceglierei senza dubbio Non avere paura del buio che, non a caso, dà il titolo al mio primo album.

Non avere paura del buio racconta molto bene un tratto un po’ dualistico della mia personalità, nell’essere si leggera e spensierata, ma anche profonda e riflessiva. Racconta quanto io possa essere perseverante, testarda, racconta che sono tendenzialmente pessimista e questo mi porta ad avere delle paure che in realtà non mi appartengono, ed è questa consapevolezza a farmi trovare la forza di andare oltre.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Non so quale sia la cosa che più amo del fare musica, ma so che amo fare musica, di quel tipo di amore che ti fa sentire la mancanza quando pensi di averla persa o che sia finita. In qualche modo la impersonifico, è come un affetto a cui non posso rinunciare. Fare musica mi culla, mi abbraccia, mi emoziona, mi permette di mettere in ordine pensieri ingarbugliati. Quando sento l’esigenza di scrivere di qualcosa, il fatto di vedere le parole scritte nero su bianco e di dare loro vita per mezzo della melodia, mi dà la sensazione di vederle sotto un altro punto di vista, fuori da me, e mi aiuta a capirmi più a fondo. 

Tre Domande a: VIRGINIA

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare/condividere il palco?

Si, ci sono diversi artisti con cui mi piacerebbe collaborare ma nel particolare scelgo Ed Sheeran: è un artista che seguo da tanti anni e che mi ha accompagnata lungo il mio percorso di crescita fino ad oggi. Musicalmente è sempre stato per me una fonte di grande ispirazione. Sono sempre stata affascinata dalla semplicità con cui riesce a trasmettere le sue emozioni attraverso quei “soliti quattro accordi” che Ed Sheeran stesso domina e plasma su misura per dare vita a melodie e testi che raccontano una storia dietro l’altra. Ascoltare le sue canzoni mi faceva sentire parte di un mondo che allora sognavo immensamente e che ora, passo dopo passo, sta prendendo vita.
Il coraggio che ha nel mettersi a nudo davanti ad un vasto pubblico, presentandosi da solo sul palco, suonando e arrangiando sul momento brani che generalmente necessitano della presenza di altri musicisti, è sempre stato per me fonte di ammirazione e allo stesso tempo di incredulità. Ho la certezza del fatto che si fidi ciecamente delle sue mani e dello strumento che in quel momento sta suonando e questo sentore mi fa percepire la paura che può avere quando sale su un palco ma soprattutto l’amore che prova al suono di ogni corda che sfiora che fa sì che possa chiudere gli occhi, entrare nella sua bolla sicura e annebbiare qualsiasi forma di timore regalando momenti magici e performance indimenticabili.
Sento un forte legame con il suo essere un artista solitario e riservato che però ha storie infinite da raccontare e che sa  rendere partecipi delle sue emozioni in ogni singola nota e frase di una canzone. 

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Credo che sceglierei un brano che non ho ancora avuto modo di presentare in nessuna occasione.
È una canzone che ho scritto recentemente e rappresenta la pagina più intensa ed emotiva del mio “caro diario” che mi ha permesso di donare alle parole che scrivo una forma poetica che fino ad ora non avevo ancora esplorato. L’ho intitolata Anima.
È un brano che è nato sulle Dolomiti, in un momento ascetico di distacco mentale dalla realtà del quotidiano. Il contatto con la natura mi ha permesso di essere più vulnerabile e di addentrarmi nella sfera più intima e oscura del mio io interiore.
Credo che sia la canzone che più mi scalda il cuore, mi punge nel profondo e mi fa tremare la voce quando la canto. L’impatto che ha avuto su amici e familiari è travolgente e mi fa capire quanto fosse importante per me mettermi a nudo ed esternare i miei pensieri più profondi e renderli accessibili agli altri attraverso questa forma d’arte. 

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

È una sensazione che fatico a spiegare a parole.
Mi sento libera ed è come se avessi il potere di entrare direttamente nella mente e nel cuore delle persone; credo che addentrarsi nel mondo nei sentimenti più profondi sia come avere di fronte a sé un campo minato. Spesso mi trovo nell’occhio del ciclone e fatico a trovare una via d’uscita da un momento di forte debolezza. Le incertezze legate alla scelta di fare l’artista a volte sono imponenti e prevalgono su qualsiasi sicurezza che posso avere: è in quei momenti che la mia musica mi salva e mi ricorda il motivo per cui non ho mai rinunciato al sogno di essere artista.
Il mio amore per la musica supera qualsiasi ostacolo e paura e mi dà la sicurezza di poter arrivare al cuore di chiunque abbia voglia di lasciarsi andare alle proprie emozioni.
In un mondo in cui prevale il buio e in cui è sempre una gara a chi è più forte e resistente, voglio creare e regalare qualcosa che illumini, per un istante, ogni angolo oscuro e che ci ricordi che piangere alla fine è bello. Questo è ciò che amo di più della musica: il suo potere catartico.

Tre Domande a: Limarra

Come e quando è nato questo progetto?

Sentirmi inadeguato mi ha cambiato la vita. Schiacciato dal peso dei ricordi e delle certezze ho sentito il bisogno di ritrovare me stesso, di riconoscermi in qualcosa di estremamente nuovo ma allo stesso tempo familiare. Avevo perso l’amore per le cose, le abitudini erano diventate i miei obiettivi e le novità soltanto delle scomode paure.
Dopo 16 anni di tour e canzoni con la mia band (i BaciamoLeMani), ho sentito l’esigenza di sperimentare me stesso, provare a proporre un’altra versione di me. Credo che la musica accompagni le fasi della vita di ognuno di noi e la scelta di cosa ascoltare e, nel mio caso, cosa scrivere è dettata dal momento che attraversiamo. Ho scelto di approdare sulle sponde di nuovi generi musicali che un tempo sentivo lontani e, a dirla tutta, mi sono pure divertito. Se in un prima fase il 2020 e la pandemia mi hanno abbattuto più del dovuto (poiché vedevo l’impossibilità di suonare come qualcosa di troppo difficile da digerire), dopo aver fatto pace con me stesso e con la crisi che ogni musicista stava attraversando, mi sono reso conto che avrei invece potuto sfruttare il tempo che avevo a disposizione per indossare una nuova veste: quella del cantautore. Da un bellissimo e casuale incontro con Cesare Mac Petricich (membro storico degli aretini Negrita, il quale si è occupato della produzione artistica del progetto Limarra) sono nate otto canzoni che raccontano otto storie diverse, legate tra loro da un unico filo conduttore: la rivalsa dei vinti.

 

Se doveste riassumere la vostra musica con un tre parole, quali scegliereste e perché?

Primordiale, selvaggia e diretta.
È primordiale perché soprattutto nella stesura dei testi ho preferito veicolare messaggi che riguardano l’uomo e la sua natura, spesso, insieme alla modernità, autrice del nostro oblio. Ho dato risalto alle emozioni che le nostre paranoie di tutti i giorni ci rimandano sotto forma di ostacoli che sembrano insormontabili. Un ritorno alle origini non equivale allo spogliarsi di ciò che siamo e che abbiamo costruito, ma sicuramente potrebbe darci l’autorità di scegliere se seguire il flusso di questi tempi o virare verso orizzonti meno complessi ma più autentici.
È selvaggia perché è dettata da ritmi lenti ma allo stresso tempo incalzanti, in una danza che non ricorre a classici schemi musicali moderni e in cui, istintivamente (proprio come la nostra più profonda essenza), ogni personaggio descritto si risolleva per rimediare al suo declino. Dire di no ai condizionamenti che ci impone la società di oggi rappresenta  l’atto più selvaggio che l’uomo contemporaneo può e deve permettersi.
È diretta perché non usa mezzi termini, ogni parola è un pugno allo stomaco che vuole atterrare chi ascolta dandogli allo stesso tempo gli strumenti per rialzarsi. Ho preferito una scrittura più leggera senza rinunciare mai alla forza della sintassi. Ho cercato di scegliere bene le parole alle quali, nel mio processo di trasformazione artistica, ho dato un duplice ruolo, quello della vittima e del carnefice, proprio perché se da un lato leggere alcune cose ci spaventa dall’altro illumina la direzione.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Riconoscersi è stata la miccia che ha acceso la collaborazione con Cesare. Un canovaccio di sonorità elettronica e canti dal sapore popolare accompagnano un testo per metà in italiano e per metà in dialetto siciliano, in cui l’impossibile storia tra due donne diventa il pretesto per raccontare il dramma di chi non riesce a riconoscersi. Se davanti ad uno specchio provassimo a vedere il riflesso di ciò che veramente siamo e non di ciò che vorremmo essere, troveremmo la pace che inseguiamo per tutta la vita, quella pace con noi stessi che sta alla base della nostra effimera esistenza.
Citando la canzone: “quel giorno davanti al mare c’eravamo giurati amore, perché nei luoghi eterni tutto è lecito per gli amanti”, non importa se abbiamo tutto il mondo contro, è di fondamentale importanza  invece pensare che l’unica cosa che conta siamo noi e il nostro giudizio.
Riconoscersi, accettarsi per poi essere accettati.

Tre Domande a: Regione Trucco

Come e quando è nato questo progetto?

Mi Sono Perso è un disco che nasce in sala prove, dove Umberto arriva con il chitarra-voce delle canzoni. Lì, sotto il comando generale di Andrea, arrangiamo i pezzi in una prima veste. Poi li suoniamo dal vivo nelle occasioni più intime, come ad esempio nei pub. A quel punto abbiamo il primo e per noi più importante riscontro: la reazione della gente. Scegliamo quindi i pezzi che ci sembrano emozionare di più le persone e passiamo alla seconda fase che è quella delle pre-produzioni, che facciamo principalmente in home recording. Da qui in avanti, i pezzi passano nelle mani di Enrico Caruso (sound engineer con sede a Vercelli) nel cui studio registriamo voci e tutto quanto non è possibile fare in home recording: lui ci aiuta con piccoli grandi suggerimenti di adding production, oltre a mixare i brani.
Oltre a questo processo artistico, sono subentrate etichette discografiche, un manager nuovo (Federico Borruso), nel mezzo una pandemia e tanto altro…

 

Se doveste riassumere la vostra musica con un tre parole, quali scegliereste e perché?

Country: non per il genere, ma perché veniamo dalla campagna, i cui elementi rientrano spesso nelle nostre canzoni, che in definitiva nascono nei nostri luoghi, fatti appunto di verde, di laghi, di trattorie. Un mondo semplice che viaggia ancora a una velocità accettabile, umana, senza troppo auto tune.
Ironica: l’ironia salverà il mondo. Cerchiamo di far sì che l’ironia non manchi mai nelle nostre canzoni, anche quando magari trattano temi sociali o sentimenti. Ad esempio, il singolo Lady Hawk che fa parte del disco Mi Sono Perso tratta del disagio di una coppia che fatica a trovare il tempo per stare insieme e non si vede mai; però a un certo punto nel testo c’è la frase “fossi ricco staresti a casa a fare incazzare le femministe”, che alleggerisce e fa sorridere. Tranne le femministe. E chi si prende troppo sul serio.
Sperimentale: sperimentale non perché pensiamo di fare una musica incredibilmente innovativa o strana, ma nel senso letterale del termine. Impieghiamo davvero tanto tempo a fare, appunto, esperimenti, prima di raggiungere la versione finale di un brano così come la sente il pubblico sul disco, sia da un punto di vista dell’arrangiamento, sia da un punto di vista dei suoni e della produzione. Per esempio, c’è un brano nel nostro ultimo disco Mi Sono Perso che si intitola Giuliano e che ci ha dato davvero del filo da torcere prima che potessimo ritenerci soddisfatti del risultato raggiunto.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Emozioni. Questo deve fare la musica: far arrivare emozioni. Non ci importa che ai nostri concerti dicano che siamo bravi musicisti o meno (o che lo pensi chi ascolta i nostri dischi). Ovviamente il riconoscimento del nostro lavoro da parte di addetti ai lavori e musicisti ci lusinga e ci fa piacere, ma la vera cosa importante, ciò a cui più di tutto teniamo, è che il pubblico si diverta, si emozioni, che abbia voglia di rimanere fino alla fine di un concerto e poi magari si fermi per bere una birra o un gin tonic in compagnia. Abbiamo fatto dei concerti dove magari abbiamo suonato in maniera impeccabile, ma durante i quali, per qualche motivo,  non siamo stati capaci di trasmettere l’energia giusta al pubblico e siamo sicuri che il pubblico ha preferito altri nostri live, dove ci è scappato l’errore o il gin tonic di troppo sul palco, ma l’energia era quella giusta. L’emozione alla fine vince sulla tecnica.

Tre Domande a: Starving Pets

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il tuo modo di fare musica o a cui ti ispiri?

Per No Shake, No Feels sicuramente un mix ben bilanciato dei Wilco più sperimentali (A Ghost is Born con le sue trame acustiche mentre sotto si scatenano temporali elettrici) e i Low; ma se penso ad un brano come Bag Full of Leaves, lì possiamo spingerci verso i Flaming Lips, o su territori molto più psichedelici e storti, cari ai Deerhunter. Quando ci siamo trovati in studio a lavorare sulle demo che avevo prodotto a casa, un nome che è venuto fuori e che ha in qualche modo accomunato tutti è stato Jim O’Rourke, sia come musicista che come produttore. In questo senso Indoors è un perfetto esempio.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Senza dubbio Bag Full Of Leaves, non a caso scelta come singolo di anticipazione. È stato il primo pezzo su cui abbiamo messo mano, un po’ perché l’ho sempre percepita come pezzo di apertura. Lavorando in studio con Manuel Volpe ha poi preso una piega inaspettata, diversa dall’idea iniziale. Sicuramente questo approccio ha in qualche modo condizionato in positivo tutta la lavorazione del disco.

 

C’è un evento, un festival – italiano o internazionale – in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?

Beh sicuramente giocando in casa verrebbe da dire Todays Festival. L’ho sempre vissuto da spettatore in tanti anni ed ha sempre avuto uno spirito speciale. Quasi un rito di fine estate.
Spostandoci fuori regione penso all’Hana Bi a Marina di Ravenna e ai suoi concerti sulla spiaggia o sotto la tettoia. Location uniche, come quella dell’Ypsig Rock o di Sexto Unplugged. Fuori dai confini italiani sicuramente poter portare questo disco su palchi come Primavera Sound (magari Porto che è immerso nel verde ai confini con l’oceano) o l’End of the Road Festival sarebbe un traguardo bellissimo. Ma andiamo per gradi, un passo alla volta.

Tre Domande a: Federico Fiamma

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

La cosa che amo di più attualmente del fare musica è il poter andare oltre; il poter navigare in spazi inesplorati alla ricerca di destinazioni mai scoperte. Nel corso della scrittura di Fuori Stagione, avevo la sensazione di aver bisogno di un percorso da seguire, come se fossi alla ricerca di una ricetta che definisse la mia estetica musicale; andando avanti nella stesura mi sono reso conto di poter colorare il tutto per come veramente lo sentivo, ho cominciato a valutare anche la semplicità come mezzo comunicativo senza sentirmi inferiore perché meno virtuoso.
Scrivere mi lascia la libertà di potermi vivere per quello che sono senza giudicarmi, di potermi ascoltare e sentirmi crescere assieme alla mia musica e di gettare uno sguardo al mio passato senza appesantirlo.  

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Ci sono stati dei momenti nella mia vita in cui avrei preferito non sentirmi solo e nella società odierna è facile sentirsi soli anche in mezzo a molti.
Mi piacerebbe che dalla mia musica si derivasse qualcosa di personale, non qualcosa di mio come autore che l’ha composta. Una volta finita la lavorazione di un disco questo smette di esser tuo, anche perché si tende a vederne solaente i difetti o si prova nausea nell’ascoltare i brani per l’ennesima volta.
Mi piacerebbe che si instauri un rapporto sano tra chi ascolta e la musica e, se proprio dovessi inserire un messaggio in questa bottiglia nel mare, ci sarebbe scritta una sola parola: verità. 

 

Progetti futuri?

Ho un album nuovo da registrare e produrre nel corso dell’anno, sarà uno spin-off di Fuori Stagione con dei brani che approfondiranno una tematica nello specifico. Spero di riuscire a metter su un calendario di date, anche se questo periodo storico non rende la cosa molto fattibile.

Tre Domande a: Leon Seti

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché? 

Probabilmente Lullaby, dell’album Grimoire. La considero la canzone più bella che io abbia mai scritto, sia melodicamente che liricamente. Parla di un litigio con mia sorella e del nostro rapporto in generale, dove io non mi sono mai sentito molto, visto o ascoltato. In Lullaby si può cogliere la dicotomia che mi contraddistingue: un suono limpido e melodico e il testo crudo e personale. Dal punto di vista della produzione, rispecchia esattamente l’atmosfera di tutto il nuovo album. Il climax finale dove rinfaccio una serie di comportamenti e concludo con un consapevole “You’ll never say sorry / and that’s fine / I guess” rispecchia esattamente me come persona.

 

Se dovessi riassumere la tua musica con un tre parole, quali sceglieresti e perché? 

Sperimentale: c’è sempre una ricerca di qualcosa di nuovo, soprattutto a livello di suono, nella mia musica, ed è una parola che mi viene attribuita spesso.
Eterea: la mia musica è molto sognante e d’atmosfera, tendo spesso a usare molti strati di voce proprio per dare quell’effetto.
Personale: tutte le mie canzoni vengono dalle mie esperienze passata e sono tutte autobiografiche. Per me scrivere è una forma di terapia, e molte volte quando le emozioni sono troppe, le canzoni escono da sole dalla mia penna.

 

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il tuo modo di fare musica o a cui ti ispiri?

Madonna è una grande forma di ispirazione in quanto autrice, genio del marketing e campione di longevità nel mondo del pop. Per me ha scritto alcuni degli album più belli degli ultimi quarant’anni, ha raggiunto vette artistiche inesplorate e ha aperto la strada a innumerevoli artisti. Ray of Light, Music, Erotica, Like a Prayer e Confessions On a Dance Floor sono album perfetti che riascolto periodicamente, sia per divertirmi che per trovare ispirazione. Poi trovatemi qualcuno al giorno d’oggi nel mondo della musica che ha il coraggio di rifare un libro all’avanguardia e spettacolare come Sex.

Tre Domande a: Deut

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il tuo modo di fare musica o a cui ti ispiri?

C’è un intero mondo musicale che seleziono e cerco di ampliare o confinare a seconda dei periodi, che spazia dal folk popolare alla musica elettronica, dal progressive rock al metal fino ai compositori classici contemporanei. Durante la scrittura di From the Other Hemisphere ho ascoltato musicisti lontani da me come Little Simz, Anderson.Paak e Black Thought, grazie ai quali ho ragionato molto sulla ripetizione e sul sampling. Con altri musicisti ho scoperto il click and cuts, ma non credo sia nemmeno una tecnica. Ho usato i dischi di Nick Drake come tranquillante, mangiato tutta la produzione dei War On Drugs e degli Arcade Fire perché adoro la loro scrittura. Dal folk e dalla psichedelia turca nominerei i Karagunes e gli Altin Gün con cui imparo e ripasso scale orientali, la polifonia, i controcanti e i tempi sbilenchi.
Citerei Sam Fender, The Building, Hania Rani e Model Man, tutti diversi tra loro ma capaci di suggerire atmosfere rarefatte. Ho trovato la leggerezza nel city pop di Tatsuro Yamashita e ascoltato la saggezza di Francis Bebey. Ultimamente le mie orecchie si sono poggiate su Dan Mangan e sul duo Svaneborg Kardib. In linea di massima sono attratto e ispirato da tutto ciò che mi è diverso perché aiuta ad allontanarmi dal luogo interiore da cui attingo le idee e soprattutto da me stesso.

 

Progetti futuri? 

Mi piacerebbe dedicarmi ad una nuova ricerca sonora e ad un nuovo lavoro musicale, continuare campionare suoni, lavorare su cose minimali con strumenti analogici. Anche in privato, senza velleità, senza il limite della struttura canzone… ma soprattutto dal vivo e non rinchiuso in casa con le cuffie. Mi piacerebbe avere qualche compagno/a musicale per creare insieme brani strumentali anche solo per il piacere di farlo. Sarebbe bello ricevere qualche proposta di collaborazione, giusto per uscire dal tracciato e sperimentare cose nuove.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Mi piace quando mi libero dell’urgenza. Mi è capitato non di rado di scappare verso casa con tutti gli strumenti che mi suonano in testa nello stesso momento, buttare giù le parti come appunti veloci e vedere un brano nascere. Mi piace la spontaneità con la quale arrivano le idee nella testa, il tormento che può darti una melodia. Amo le sovraincisioni, gli strati, lavorare sugli errori e sul caso… campionare suoni e inserirli nell’arrangiamento, strafare e poi magari ripulire. Dare un pizzico di senso al turbinio creativo per poi poterlo esprimere. Comunicarlo agli altri è potentissimo, quando accade è come se si suonasse insieme.

Tre Domande a: Cal Birbanthe

Quando e come nasce il tuo progetto?

Il progetto Cal Birbanthe nasce col mio rientro in Italia, nel 2019, dopo un’esperienza di cinque mesi a Londra. Lì lavoravo come cameriere durante la settimana e nel weekend andavo ad esibirmi in alcuni club nella zona di Brixton. Avevo esaurito gli stimoli da strumentista, che il jazz mi aveva dato per anni, e sentivo il bisogno di dire qualcosa di mio in ambito “leggero”, soprattutto dopo aver ascoltato diverse realtà indie-rock in UK. In quel periodo, infatti, avevo scritto parecchi brani e pubblicato diversi self-released. Uno in particolare è stato Spero di No, brano di stampo R&B con un testo abbastanza indie che, con grande sorpresa (non avendo né etichetta, né ufficio stampa), riuscì comunque ad attirare l’attenzione delle radio siciliane e di molti DJ locali, che lo suonarono come breakdown hit nei club commerciali. Da lì non mi sono più fermato! L’anno successivo, iniziai a stendere le basi di Storie, album che ha visto la luce il 21 Ottobre e che sto portando in giro dallo scorso Marzo, assieme ad alcuni amici musicisti, con cui in passato ho condiviso altri progetti.

 

Cosa vorresti fare arrivare a chi ti ascolta?

Semplicemente le emozioni che vivo per strada e che percepisco negli altri. Amici, conoscenti e sconosciuti. Ad esempio, nelle trame delle tracce di Storie, spesso il sesso si confronta col sentimento, così come la fiducia con il tradimento. Si possono cogliere parallelismi sentimentali che stranamente si intersecano. Nella vita quotidiana, anche l’immagine di un figlio che, in crisi con la propria ragazza, guarda la madre portare a spasso il cane da sola, rievoca scenari e riflessioni su come il più nobile dei sentimenti sia soggetto a trasformazioni continue, in ogni fase della vita. Nei brani dell’album si colgono emozioni diverse ed emergono già a partire dalle timbriche: a volte retrò e nostalgiche, altre volte contestualizzate ai suoni contemporanei. Ogni espressione artistica è per natura individuale, ma funge da specchio collettivo, ed io vorrei che venisse fuori proprio questo: che in un calderone di elementi così diversi, sound nuovi e vintage, nostalgie e rasserenamenti, incoerenze e linearità, qualcuno si possa casualmente ritrovare.

 

Qual è la cosa che più ami nel fare musica?

Sicuramente potermi sentire me stesso, libero da ogni schema o ordine. Questa è una benedizione, perché pian piano accetti sia le tue parti di luce che quelle d’ombra. Nell’album Storie ho riversato diversi tipi di emozioni e stati d’animo. Nella traccia Mal di Mare c’è la mia parte in collera, sfatta e stanca; è un brano che, come dico spesso, anziché averlo concepito, l’ho proprio vomitato. In Domani c’è la rassegnazione serena di un amore che, in quel preciso momento, è finito. Insomma, quello che amo di più è che in musica si è nudi, dalla scrittura alla performance. E questo in un modo o nell’altro, arriva al pubblico.

Tre Domande a: Diamarte

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto diamarte è nato nel 2018.
Siamo amici e suoniamo da tempo insieme, diamarte è l’ultimo nome che abbiamo dato alle nostre varie jam in sala prove sin dalla prima adolescenza.
Abbiamo deciso di lavorare e immergerci completamente nel mondo musicale ed elaborare inconsapevolmente tutto quello che abbiamo ascoltato, valutato, vissuto e maturato negli anni.
Viviamo in un piccolissimo paese sperduto tra le montagne del matese in molise e il luogo ha sicuramente influenzato lo stato d’animo e il suono della band per adesso.
Il primo disco Transumanza è il risultato delle nostre piccole esperienze sensoriali e le influenze saranno abbastanza palesi (rock, stoner, noise) ma a noi non ci importa, non ci nascondiamo e per ora va benissimo così!

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare/condividere il palco?

Siamo molto affascinati dai musicisti italiani. Sono persone che indirettamente hanno influenzato la nostra musica e la nostra vita. Parliamo di artisti come Carmelo Pipitone, Roberto Dell’era, il maestro Enrico Gabrielli, Giorgio Canali, Gianni Maroccolo, Dario Ciffo, Dan Solo… Sono tutti artisti con cui ci piacerebbe collaborare ovviamente.
Pensandoci meglio anche con Trent Reznor non sarebbe male…

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Forse Falso Risveglio, il nostro primo singolo.
Bisogna presentarsi in maniera tranquilla come ci consiglia la buona educazione… non vorrei mai presentare il lato mio più estremo/incazzato al primo appuntamento.
Falso Risveglio è una canzone che indubbiamente ti fa capire in che mood viviamo e suoniamo, ma non gode di troppe pretese come altri brani del disco Transumanza (in uscita l’11 novembre 2022)
È accettabile anche per chi non ascolta la musica rock… credo. 

Tre Domande a: Feexer

Come e quando è nato questo progetto?

Feexer nasce nella sua veste attuale nel 2017, con la pubblicazione di un demo-album chiamato Headed To in cui Manuel (Ciccarelli) ha raccolto 10 tracce, scritte come solista negli anni precedenti e pubblicate grazie al successo di una campagna su una delle principali piattaforme di crowdfunding. Da quel momento Manuel ha stabilito una road map per portare il progetto a un livello superiore, iniziando a studiare produzione musicale e realizzando alcuni demo che hanno catturato l’attenzione di due etichette (una tedesca e una italiana), nonché di un produttore italiano che oggi vive e lavora negli Stati Uniti.
Purtroppo la pandemia e il successivo contrarsi degli investimenti delle label sui nuovi progetti hanno impedito una pubblicazione immediata del primo disco in studio della band. A quel punto è stato chiaro che Feexer avrebbe dovuto muoversi come realtà indipendente, anche dal punto di vista della produzione: una scelta che ha richiesto un ulteriore lavoro di approfondimento in tale ambito – solitamente di competenza di esperti del settore – che sul medio periodo ha però portato enormi vantaggi. A questo occorre aggiungere l’arrivo nella band del batterista Stefano Mazzoli, che aveva calcato i palchi insieme a Manuel quando entrambi militavano nella band Zeroin e che ha permesso di raffinare ulteriormente le scelte artistiche.
Il primo studio-album di Feexer Don’t Bother, in uscita il 4 novembre, è il prodotto di questo recente passato che ha portato oggi la band ad essere una realtà completamente indipendente e con una impostazione artistica molto definita.
In ogni caso Feexer è probabilmente nato negli anni Novanta, quando Manuel ha ricevuto in regalo una chitarra e un amplificatore sgangherato da suo fratello maggiore!

 

Se doveste riassumere la vostra musica con un tre parole, quali scegliereste e perché?

Probabilmente canzone, chitarre e fusioni. 

Canzone, perché la band non fa della ricerca di un determinato sound il suo punto di riferimento. Tanta della musica prodotta oggi si concentra sulla ricerca di un suono ben determinato, con l’obiettivo di distinguere quel progetto da tutti gli altri: i dischi sono a volte un’espressione statica di questa volontà, dove il suono è al centro di tutto e all’interno di un LP si riesce a dar vita soltanto ad alcune sfaccettature. Per Feexer questo non è il punto di riferimento. Manuel e Stefano si concentrano sul riuscire a dare la migliore veste a una determinata canzone, quell’insieme di strofa e ritornello con tutti i suoi ricami. Agire senza schemi predeterminati, senza aver paura di accostare canzoni più aggressive a pezzi più introspettivi o a ballate acustiche. L’importante è che quelle note scritte inizialmente con una chitarra acustica arrivino a esprimersi con tutto il loro potenziale anche nella versione finale del brano.
Chitarre: sono al centro di tutto l’album. L’intreccio di chitarre acustiche e di riff più incisivi di chitarre elettriche sono una chiave sonora senza dubbio predominante, nonostante il ruolo altrettanto fondamentale della parte ritmica e degli inserti elettronici. Durante la produzione si è manifestato una sorta di rispetto reciproco del mondo acustico verso quello elettrico e viceversa. Non si è mai stabilito a priori cosa dovesse essere più in rilievo: quando un riff potente veniva accostato a una chitarra acustica ritmica questa non è mai andata a scontrarsi con la prima, bensì è stata concepita come un supporto per la stessa che andasse nella stessa direzione. Stessa cosa, soprattutto, nel lasciare alle atmosfere acustiche il loro spazio nonostante le numerosissime sovraincisioni elettriche.
Fusioni, perché queste nove canzoni hanno dato l’opportunità di far incontrare spesso le varie anime della band. Dal grunge più sporco alla raffinatezza di un certo alternative rock di matrice britannica, lasciando inoltre la libertà alla vena più elettronica di farla da padrone in diversi passaggi del disco. 

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare/condividere il palco?

A volte si rimane affascinati da certe parabole artistiche. Sicuramente una delle storie che ci hanno più colpito negli anni è stata quella dei Vex Red, band inglese che all’inizio degli anni Duemila è stata una meteora folgorante, con un disco Start with a Strong and Persistent Desire – prodotto da Ross Robinson – che aveva scalato le classifiche dell’alternative rock sia nel Regno Unito che in Europa. Manuel ricorda ancora il giorno in cui, durante una festa organizzata in un appartamento nel Bolognese, aveva ascoltato il singolo The Closest. È stata la prima e unica volta in cui ha implorato di potersi portare a casa in prestito un disco lasciando una festa dopo pochi minuti. La profondità di quel disco dei Vex Red, le sonorità malinconiche eppure potentissime che trasmette, ha sicuramente segnato la nostra passione per la musica.
Eppure si tratta di una band che, per dissidi con la casa discografica e altre motivazioni personali, non ha più prodotto nulla fino a poco tempo fa, nel 2019 con l’EP Give Me the Dark, che ne ha segnato la reunion e un primo nuovo esperimento musicale.
Ecco, probabilmente scrivere un pezzo con i Vex Red e suonarlo dal vivo con loro esaudirebbe un grande desiderio e chiuderebbe il cerchio con quella fuga improbabile da una festa nel Bolognese. 

Tre Domande a: Novadeaf

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il tuo modo di fare musica o a cui ti ispiri?

Mi sono formato con la musica rock e pop inglese e americana degli anni ’70, ’80 e ’90 e ogni band o songwriter che ho amato ha ovviamente lasciato una traccia dentro di me. R.E.M., Nick Drake, Smashing Pumpkins, Joni Mitchell, Depeche Mode sono i primi nomi che mi vengono in mente. Di David Bowie ammiro il mestiere, la lucidità e l’intelligenza con cui ha saputo reinventarsi anno dopo anno, stagione dopo stagione, costruendosi al contempo un percorso artistico coerente e organico. Se poi parliamo di veri e propri modelli artistici trovo che i Radiohead siano stati i Beatles della mia generazione, imprescindibili per chi fa il mio genere di musica. In Rainbows per me è l’album perfetto.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Un bel dilemma! Probabilmente opterei per Four, il primo singolo estratto dal mio ultimo album. Direi che è un ottimo compendio della mia attuale idea di musica, ci sono dentro quasi tutti i miei ingredienti preferiti: una melodia ampia e catchy per parlare a quante più orecchie possibile, un tappeto di archi che dona raffinatezza e profondità emotiva, un ritmo moderatamente dance per stimolare anche il corpo insieme allo spirito. Ci sono synth suonati da un computer e c’è un assolo di chitarra suonato da dita umane. Mi piace giocare con i contrasti, dire una cosa e al contempo dire il suo contrario, mescolare elementi diversi e creare dei piccoli mondi. 

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Creare oggetti sonori che sappiano emozionare e coinvolgere, con la speranza che chi ascolta possa riconoscere dentro di essi un pezzo del proprio vissuto, della propria idea del mondo o della propria sensibilità. In una parola, creare bellezza.