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Tag: teatro

Van Gogh e i Maledetti

•Stefano Fake ci insegna come si racconta l’arte con l’arte•

 

Di norma, non occorrerebbe nessuna particolare motivazione per saltare su un treno per Firenze.
A Firenze ci vai e basta, ed ogni cosa che potrai portarti a casa sarà inestimabile bottino.

Ma quando la Chiesa di Santo Stefano, a due passi da Ponte Vecchio, diventa Cattedrale dell’Immagine, e si fa bella per ospitare una delle mostre più coraggiose e rivoluzionarie del momento,  il biglietto di questo treno si timbra da solo.

Siamo quindi sfrecciati verso una Firenze toccata e fuga, per un aperitivo maledetto con Van Gogh, Lautrec, Modigliani ed altri tormentati ragazzacci. Abbiamo sguazzato nelle loro vite tutt’altro che piacevoli e capito quanto l’arte, per loro, sia stata la vera salvezza. O forse no. 

Davanti ad una mostra come Van Gogh e i Maledetti ci si sente destabilizzati, poiché l’unica prerogativa è spogliare le opere da qualsiasi filtro di falsità, così che possano urlarci in faccia di non essere figlie predilette di divinità perfette, ma d’essere venute alla luce dalle menti esasperate di uomini soli, limitati, dannati, in un vorticoso travaglio senza gioia ne consolazione. 

A presentarci Van Gogh e i Maledetti è CROSSMEDIA GROUP, con un’esperienza multimediale progettata e diretta da Stefano Fake di THE FAKE FACTORY, artista visivo multidisciplinare che, con grande audacia e sensibilità, utilizza tecnologie di ultima generazione per raccontare l’arte con l’arte.
Abbiamo chiesto a Stefano di parlarci della mostra, dell’importanza delle nuove frontiere artistiche e del grandioso lavoro che c’è dietro allo straordinario risultato finale.

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La tua opera è colma della Parigi di fine ottocento e inizio novecento, fulcro del mondo bohemien, terreno fertile per le vite dissolute dei nostri Maledetti. Quali strade di Parigi ha percorso la tua ispirazione? 

Per questa esperienza immersiva ho lavorato su diversi binari estetici e narrativi.

Dal punto di vista storiografico ho voluto approfondire la descrizione dell’ambiente parigino a cavallo dei due secoli, usando diverse fonti cinematografiche e fotografiche.

Mi sembrava necessario far capire sin da subito come fosse importante l’ambiente di Parigi, in quel momento sicuramente la capitale mondiale dell’arte, e il motivo per cui era diventata la meta di tutti coloro che volevano vivere pienamente una vita e una carriera d’artista.

Per questo ho usato ampie scene di repertorio su Montmartre, Montparnasse, i caffè parigini, le sale danzanti, per concludere con l’apoteosi finale dei fuochi d’artificio all’inaugurazione della Tour Eiffel.

Parigi era il centro del mondo e sicuramente la meta di tutti gli artisti che volevano affermarsi nel mercato e magari nella storia dell’arte.

Quindi, oltre che per gli amici fraterni Van Gogh e Gauguin, Parigi era il punto di riferimento per tutta una serie di altri pittori molto eterogenei fra loro come stile e tecniche pittoriche.

La cosa che li accomunava era soprattutto l’aspirazione ad una vita bohémien completamente dedicata all’arte, chiaramente insaporita da vino, assenzio, hashish e sesso.

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Hai creduto fosse importante slegare le singole esperienze di questi artisti dalle vite rispettivamente intrecciate fra loro, per dedicare ad ognuna di esse un capitolo personale. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?

Si, la narrazione visuale è fatta di brevi capitoli monografici, diversi fra loro come composizione e grafica animata.

Dal punto di vista registico per me era fondamentale mostrare questa eterogeneità stilistica e tematica, questa ricchezza di colori e forme. Una frammentazione narrativa legata profondamente allo spirito del tempo.

Gli artisti maledetti dipingevano in modo differente e molto personale; rappresentavano Parigi ciascuno con la propria matrice stilistica, ma ne erano tutti figli e ciascuno ne raccontava una parte, e tutte queste porzioni ne danno una visione sicuramente più completa.

Il tutto collegato da un avvolgente fil rouge,  proprio come nei capitoli di un romanzo.

Nel corso dei quaranta minuti di video-installazione a 360°, passiamo da Modigliani a Toulouse-Lautrec da Soutine, a Gauguin e Van Gogh, senza che questa frammentazione possa sembrare dissonante. Perché tutti loro, in definitiva, stavano rappresentando in modo molto personale lo spirito del tempo.

Con la scelta musicale ho seguito lo stesso schema: grande varietà ed eterogeneità, passando da Verdi a Vivaldi da Schubert a Beethoven e Hoffenbach, stando attento unicamente a tenere alta la temperatura emotiva dell’esperienza immersiva, lavorando sull’alternanza ritmica e sulle sonorità.

Un’esperienza più che immersiva. Era tua intenzione farci rivivere l’ipotetico percorso di maledizione ed espiazione di Van Gogh ed i suoi colleghi?  

Per far viaggiare l’opera dentro un binario simbolico molto strutturato ho costruito, su un secondo livello, una narrazione che procede come un viaggio di purificazione.

Partiamo dall’inferno a cui questi artisti dalla vita dissennata erano destinati, per portarli fino al cielo, all’elevazione in paradiso, spinti dalla grandezza e dalla purezza della loro arte.

Per questo il primo capitolo inizia con il Dies Irae di Verdi e ci troviamo fra le fiamme dell’inferno e all’interno di una scena vandalizzata da scritte rosse spalmate sulle pareti dell’ambiente. Tanto forti da sembrare scritte col sangue.

Interessante la contrapposizione che hai creato ambientando una scena infernale all’interno di una chiesa sconsacrata. 

In questa scena suggerisco al pubblico la mia interpretazione del girone dantesco che ghermisce questi pittori dalla vita estrema: una chiesta sconsacrata vandalizzata come uno squot abbandonato e graffitato centimetro per centimetro.

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Abbiamo colto qualche citazione a Disney, qualcuna addirittura all’animazione giapponese. Affermazione troppo azzardata?
Assolutamente no. In questo primo capitolo c’è una citazione diretta di uno dei capolavori del cinema d’avanguardia, Fantasia di Walt Disney del 1940, così come avevo fatto per Klimt Experience.

In particolare mi sono ispirato alla scena iniziale di Fantasia, realizzata sotto la direzione artistica di Oskar Fishinger, uno dei maestri dell’animazione astratta che ha aperto le porte all’idea di film astratto all’inizio del ‘900.

Chiaramente, essendo figlio del mio tempo, ho dato un tocco manga alle animazioni astratte e ho potuto ottenere, grazie al montaggio digitale, una perfetta sincronia audio-visiva.

Hai lavorato molto sui contrasti. Lo spettatore non può che sentirsi parte di qualcosa di grande. Non possiamo chiedere ad un padre di identificare il figlio preferito, ma sicuramente c’è un “capitolo” di cui vai particolarmente fiero.
Uno dei momenti visivamente più belli e riusciti dell’opera, che fa da contrappunto a questa prima scena infernale, è il finale dell’opera immersiva, con la contemplazione del paradiso: la notte stellata di Van Gogh.  Apprendiamo affascinati come da una vita maledetta possa nascere un’arte celestiale e sublime. E’ in definitiva un inno alla forza catartica dell’arte che salva tutti, artisti e pubblico.

Per quanto riguarda la progettazione dell’ambiente immersivo non mancano strumenti che stanno aprendo le porte ad un nuovo concetto di “istallazione artistica”.

Per Van Gogh e i Maledetti ho potuto portare due tecniche che da anni utilizziamo con successo nei festival e nelle mostre immersive: il videomapping, sulle nude pareti della chiesa che ci ospita, e la Mirror Room, che dagli inizi degli anni duemila cerco di inserire sempre nelle esposizioni di cui sono autore, negli eventi e nei festival d’arte digitale.

Dopo alcuni anni in cui la Chiesa di Santo Stefano era rivestita di schermi, siamo riusciti a lavorare con la produzione di Crosserai per farla tornare alla sua forma originale.

La perfetta visione delle opere è comunque garantita dalla forma stessa dell’architettura, che ha ampie pareti intonacate sopra gli altari.

Per migliorare la visione ho fatto inserire uno schermo centrale, che non è altro che la parete portante della terrazza costruita appositamente per avere anche una visione dall’alto dello spazio.

Il balcone ospita anche una mia Mirror Room, dove il concetto di immersive art experience, che da anni è la cifra stilistica di THE FAKE FACTORY, è portato alle sue estreme conseguenze.

La mostra è completata da una parte didattica tradizionale e da un viaggio tridimensionale con Oculus.

Questi ambienti sono curati direttamente da Crossmedia, così come il bookshop, rinnovato anch’esso per questa esposizione.

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Da anni sei parte attiva di questo nuovo fenomeno chiamato “crossmedialità”. L’arte sta cambiando, così come il suo pubblico. Sperimentare è inevitabile e necessario, perché stiamo assistendo all’alba di una nuova era della comunicazione. Dopo aver parlato della tua ultima creatura, parlaci un po’ di te, della tua esperienza e della tua personale rotta.

Questa per noi  è la quinta produzione per Crossmedia Group (dopo Klimt, Monet e gli Impressionisti, Modigliani e Magritte) e consolida un rapporto che ha portato il gruppo a diventare un importate player nel mondo delle mostre multimediali.

Devo dire che la fiducia e la libertà creativa che il produttore Federico Dalgas mi ha sempre lasciato è sicuramente stata una delle chiavi del successo di questo nuovo modo di rappresentare l’arte del passato con linguaggi e tecniche contemporanee.

Se da un lato perdiamo, per così dire, la materia pittorica (non ci sono opere originali in mostra), dall’altra possiamo utilizzare la luce digitale per creare mondi fantastici, illusioni ottiche, immersioni visive sorprendenti.

Osservazione da sottolineare, perché molti storgono ancora il naso quando si tratta di mostre senza opere originali. Raccontare l’arte con l’arte, soprattutto se si trattano opere classiche e celebri, non è ancora un concetto così immediato ed accettabile, a quanto pare. Occorre avere coraggio, il nuovo pubblico sembra in continua crescita.

Proprio così. Per un artista che lavora con i new media è importante sentirsi libero di sperimentare e di reinterpretare i classici del passato senza sentirsi limitato e avendo la possibilità di sperimentare ogni volta soluzioni visive nuove, sapendo che lo sforzo economico che il produttore sostiene sarà ripagato sia in termini economici che di visibilità.

La prima esperienza che abbiamo realizzato per loro, Klimt Experience, è stato un successo mondiale che ha aperto molte porte a questa nuova forma di immersione nell’arte.

Il pubblico del terzo millennio ha voglia di vivere diverse esperienze estetiche e le immersive exhibitions sono sicuramente una proposta culturale interessante proprio perché complementari alle mostre tradizionali. Sono sicuramente anche un buon modo per introdurre all’arte bambini e teenagers.

Già, troppo spesso si parla dei giovani e della loro incapacità di mostrare interesse per la cultura e per il loro futuro. Noi crediamo invece che ogni generazione abbia il suo linguaggio e che questo linguaggio, come ogni altro, vada studiato, ascoltato, accolto. Siamo stati felici di vedere la mostra popolatissima di ragazzi e ragazze.

Penso che le strade che abbiamo aperto porteranno ad una crescente attenzione verso le mostre immersive, con la nascita di nuovi artisti visivi e nuovi produttori interessati ad investire in questo mercato.

Lo ripeto da anni: siamo come a inizio ‘900 quando nacque il cinema. Nel giro di pochi decenni le sale cinematografiche si sono moltiplicate, e c’è stato spazio per nuovi registi, nuovi autori, nuovi produttori.

Per questo penso che da parte del pubblico e della critica sia anche venuto il momento di superare la dicotomia mostra con quadri veri versus esperienza immersiva di arte digitale. 

Per usare una metafora facilmente comprensibile, le mostre immersive stanno alle mostre tradizionali come il cinema sta al teatro?

Esattamente, nessuno va al cinema sperando di trovare attori in carne ed ossa.

Oggi, se vai al cinema è normale sapere che vedrai degli attori e delle scene riprese e poi proiettate su schermi.

E’ un segno dei tempi, e la riproduzione dell’arte partendo da una foto in digitale è il modo più comune con il quale il pubblico entra in contatto con le opere d’arte del passato.

Inoltre oggi abbiamo una qualità riproduttiva eccellente, con una qualità di riproduzione molto definita e fedele all’originale. Manca la materia pittorica, certo, e le dimensioni sono riportate su grandi schermi.

Ma questo per me è un vantaggio, perché possiamo rafforzare la potenza visiva delle opere riprodotte ed esaltarne le trame e i dettagli.

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Negli anni l’arte cinematografica si è sviluppata come linguaggio e tecnica fino ad essere definita la settima arte. Oggi l’arte digitale immersiva potrebbe rappresentare l’ottava forma d’arte? 

Sicuramente è quella che maggiormente si avvicina all’idea di Arte Totale di cui si parla da quasi due secoli.

Un’esperienza immersiva, nella forma in cui la concepisco e la realizzo, è un’insieme di architettura, pittura, musica, danza, poesia, cinema… L’arte digitale immersiva è un’esperienza totalizzante.

Per questo spero che una nuova generazione di critici, divulgatori e storici dell’arte ne prenda atto e inizi ad analizzarla e a descriverla per quella che è: una forma d’arte a se stante che ha un proprio linguaggio e una propria ricerca.

E spero che si inizi a capire che dietro ad ogni mostra immersiva ci sono autori e artisti visivi con il proprio stile e la propria capacità non solo di rileggere il passato, ma anche di creare nuove estetiche. 

Partiamo da qui, il pubblico ed i lettori devono sapere quante interessanti sfaccettature, quanta progettazione e quanta ricerca creativa si celano dietro ad una mostra immersiva. Capita spesso che il vostro lavoro non venga capito?

Mi piacerebbe che un giorno si smettesse di fare domande agli autori di esperienze immersive  sul tipo e sulla quantità di proiettori utilizzati, perché sarebbe come chiedere a Fellini che tipo di cinepresa ha usato per girare il film o che proiettori utilizzano nei cinema per proiettare i suoi film.

Nessuno chiede a Bob Wilson che fari utilizza per fare i suoi enormi fondali retroilluminati a teatro. Gli viene chiesto il perché crea scene con architetture fatte di luce.

Chi chiede a James Turrell se per creare le sue stanze immersive usa Led o luci con gelatine colorate?

Noi artisti digitali ci dobbiamo preoccupare solo di creare esperienze d’arte belle e culturalmente significative. Ognuno con il proprio punto di vista e la propria visione, cosi che il pubblico possa un giorno andare a vedere un’esperienza immersiva sapendo quale autore l’ha realizzata, esattamente come accade quando si sceglie un film.

Lo si fa per vedere l’opera, non per vedere una sala dove la tecnologia permette di proiettare delle immagini su una parete bianca.

Italia, patria dell’arte, luogo dove alla domanda “che lavoro fai?” la risposta “l’artista” segue svariate e raramente benevole reazioni. Sei sicuramente un grande esempio per i giovani che sognano un futuro nel campo artistico.

Sì, e spero che quello che stiamo facendo serva come guida per gli studenti d’arte e i nuovi creativi digitali.

Ci sono enormi possibilità di esprimersi come artisti e come narratori digitali, è un mondo tutto da creare e scoprire. Ma siamo agli inizi e la definizione di un’arte nuova richiede tempo. 

Ma noi artisti andiamo avanti, sperimentando e creando, così come fecero altri prima di noi.

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Articolo di Valentina Gessaroli

Il musical e l’Italia: School of Rock

•Quando il teatro diventa una scuola per passato e futuro•

 

Ho una tradizione a cui non posso proprio rinunciare, quando faccio tappa nella bella Firenze: gustarmi una doverosa cena a base di specialità toscane. 

Dentro quella roba c’è il senso della vita, amici miei. 

Guarda caso l’osteria di fiducia si trova proprio davanti alla mia meta, il Teatro Verdi di Firenze.

Il cameriere, ormai fidato, è sbigottito quando ammetto di non esservi mai entrata così, offrendomi il dessert, mi avverte sogghignando: “te lo dico, desidererai tornare indietro nel tempo per indossare un abito tutto luccicante, con orecchini di perle ed il libretto della tua opera preferita in mano. Entrando, ti renderai conto che il Verdi offre, già di per se, uno spettacolo in tutto e per tutto”.

Buono a sapersi; dovrò davvero scegliere tra il mio chiodo di pelle ed un vestito da Charleston?

In effetti il Teatro Verdi citato anche da Collodi nel classico Pinocchio è un tripudio di raffinatezza e fastosità, una location che farebbe perdere la testa a qualsiasi fan di Downton Abbey, me compresa.

Per questo è così dannatamente splendido ed inaspettato trovarlo brulicante di un pubblico formato da tantissimi bambini, che scorrazzano senza sosta tra le seriose poltroncine di velluto rosso. 

Questa sera, infatti, saranno proprio loro i veri protagonisti dello spettacolo, poiché di bambini si racconta: bimbi pronti a dire la loro, che agli adulti piaccia o meno.

Lo School of Rock diretto da Massimo Romeo Piparo è, infatti,  la storia del rockettaro incallito Dewey Finn (personaggio cucito addosso a quel mattacchione di Jack Black per l’omonimo film diretto da Sam White e riscritto per Broadway dal maestro del musical Andrew Lloyd Webber).

 

foto gruppo SOR Antonio Agostini min
Il cast del musical sul palco

 

Finn per sbarcare il lunario si ritrova ad ingannare il sistema fingendosi un insegnante per una delle scuole più prestigiose del paese, la Horace Green Alma Mater. Nel costatare quanto i suoi giovanissimi alunni siano davvero dei tipi tosti, Dewey  insegnerà loro l’unica cosa che abbia mai conosciuto e amato davvero: il rock, ovviamente. 

Scoprendoli incredibilmente portati per la musica formerà una band, chiamata School of Rock, e l’iscriverà alla battaglia delle band. 

I giovani musicisti apriranno il loro cuore al rock, stanchi di aver a che fare con genitori rigidi, assenti e incapaci di ascoltare le loro passioni e necessità, riconoscendo in quel buffo ometto del Signor Dewey uno sgangherato mentore, del tutto differente da qualsiasi altra persona adulta mai incontrata nella loro vita.  

Lo spettacolo è senza dubbio un grandioso inno al rock, che cambia pochissime carte in tavola rispetto all’omonimo film del 2003 ed è un piacere applaudire, ancor prima che il sontuoso sipario si apra, alla super band dal vivo che, ai piedi del palco, è già agguerrita e pronta a scatenarsi tra i brani originali ed i classici del rock che compongono la colonna sonora di School of Rock.

 

Matteo Guma e Lillo Petrolo min
Il cast in scena.

 

Le scenografie dimostrano immediatamente d’essere quelle di una capace e sapiente produzione, per nulla mancante rispettò ai cugini del West End.

Grazie ad istallazioni mobili curate nei dettagli, gli autori riescono a trasportarci nelle numerose location dello spettacolo: la caotica e sciatta camera da letto di Dewey, la sala prove incredibilmente convincente  e, vero fiore all’occhiello del reparto scenografico, la splendida Horace Green che sarà teatro di una vera rivoluzione, capitanata dai giovani e brillanti protagonisti.

Lo spettacolo prosegue ed il pubblico, abituato fino a quel momento alla vita scapestrata ed al mondo tutto pane e rock ‘n’ roll di Dewey, ha bisogno di qualcosa che lo ponga davanti alla dura realtà: non sarà facile ingannare la Horace Green dove regnano disciplina e contegno.

Con un brano che, in mezzo a tanti straordinari momenti di vero rock,  merita una menzione speciale per aver portato sul palco la  potenza della tradizione: insegnanti e studenti ci accolgono nella sala grande offrendoci una dimostrazione corale davvero emozionante, che ha il gusto del musical classico. 

Il contrasto tra la verve della nuova e vecchia Broadway e l’irriverenza del rock  è rafforzato dalle citazioni, più o meno evidenti, di spettacoli rappresentativi come Wicked, Annie, Matilda e Cats. 

Dopo un crescente susseguirsi di numeri che inneggiano al più sfrenato hard rock, entriamo nel vivo della rivoluzione con il brano melodico Se Solo Mi Ascoltassi, dove i piccoli rockers esternano tutto il loro dolore nel capire ogni giorno di più quanto i loro genitori, assuefatti dalla frenetica routine, non siano in grado di comprendere ed incoraggiare i loro sentimenti e sogni. 

Questo dovrebbe essere il momento “strappalacrime”, così viene chiamato nel musical e, data l’intensità trasmessa dalle voci, dagli occhi e dalle gestualità dai ragazzi lo sarebbe, se non fosse per la proiezione alle loro spalle, che va a sostituire l’asettico sfondo nero delle produzioni straniere. 

Difficile ammetterlo, ma la commozione e l’empatia sono totalmente smorzati da questo screensaver, caratterizzato da fiori e farfalle, un po’ pacchiano. La scelta  a noi non è piaciuta.

Niente panico, perché sul finale entra in scena il meta-teatro. 

Con un riuscitissimo espediente drammaturgico, il pubblico del teatro Verdi si trasforma in quello della battaglia delle band che, totalmente impazzito per lo spettacolare concerto interamente suonato dal vivo dai ragazzi canta, balla e salta, posseduto da quella frenesia che solo il dio del rock può regalare.

 Il risultato è la vittoria indiscussa  dei ragazzi con il brano The School of Rock.

La scelta di Pasquale Petrolo, in arte Lillo, per il personaggio di Dewey è inaspettatamente assennata, praticamente perfetta. 

 

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Pasquale Petrolo, in arte Lillo.

 

Inizialmente, alla vista della locandina dello spettacolo dal titolo Lillo – School of Rock la reazione non è stata del tutto positiva.

E’ lecito storcere il naso con pregiudizio quando un personaggio famoso come Lillo viene lanciato nella mischia di un progetto che non tratta propriamente il suo campo, con il solo apparente scopo di raccogliere audience da parte di un pubblico italiano troppo confuso e rinunciatario quando si tratta di musical. 

Si è portati a pensare che, nonostante le tante abilità e la grande esperienza che Lillo ha maturato nel mondo dello spettacolo, sarebbe più appropriato affidare una parte così significativa ad un performer che, per anni ed anni, ha dedicato la sua formazione in quel particolare ramo dello spettacolo che è il musical. 

Molti attori, ormai, vengono sacrificati a causa della volontà delle produzioni di inserire nel cast un famoso specchietto per le allodole. 

In questo caso però, dobbiamo ammetterlo, Lillo convince e conquista.

Occorre dimenticarsi delle performance di Jack Black e del suo “sostituto” nella produzione di Broadway, Alex Brightman: artisti dal carattere tanto esuberante quanto invadente. 

Un Lillo evidentemente emozionato, preparato nel suonare la chitarra, cantare e ballare, con la direzione di Piparo plasma il personaggio di Dewey a sua immagine e somiglianza, rendendolo meno seccante, più bonario, ma ugualmente capace di creare quel contrasto stilistico e generazionale tra il professore e gli studenti.

Già, gli studenti. Quel palco è totalmente ricoperto da quegli splendidi diamanti di talento che sono i ragazzi dell’Accademia Musical Sistina: appassionati, sensazionali, dinamite pura. 

 

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I piccoli protagonisti.

 

Cantando, suonando e ballando rigorosamente dal vivo, reggono lo spettacolo sulle loro giovani spalle, svalicando di gran lunga il qualificatissimo cast degli adulti e conquistando i cuori degli spettatori che, grandi o piccini, sono rapiti dall’improvvisa voglia di fare headbanging alzando con fierezza il calice del rock.

Una storia, quella di School of Rock, assolutamente perfetta per il pubblico italiano, poiché capace di trasformare un intero teatro in una scuola per passato e futuro. 

Siamo tutti inevitabilmente alunni quando si tratta di imparare dai nostri errori e quei ragazzi la, sul palco, sono insegnanti pronti a gridare che niente e nessuno deve frapporsi tra loro e la realizzazione di un sogno.

Il rock è una filosofia, uno stile di vita, questo spettacolo lo racconta perfettamente” afferma Lillo “Dewey non vuole proprio diventare una rock star, vuole solo essere libero di vivere rock. Il rock è farsi sentire, non abbassare la testa, è musica legata alla ribellione. Sono proprio i volumi alti del rock che ti portano a dire “Ascoltami!”, che è quello che vogliono i bambini della storia. Il rock è stato fondamentale per generazioni.”

Si percepisce fortemente, da parte di School of Rock e di quello che rappresenta, la grande volontà di trasmettere un messaggio potente a quei genitori che non trovano nella strada del musicista o del performer una valida alternativa a qualsiasi altro lavoro per il proprio figlio, perché di questo stiamo parlando. 

In Italia una carriera nel mondo dello spettacolo è troppo spesso sminuita, derisa, molto di più che nel resto del mondo, vi assicuro. 

Il pubblico italiano è così rapito da School of Rock perché tocca le corde giuste. Ci sentiamo chiamati in causa, proviamo empatia, ci affezioniamo e, alla fine, la speranza prende piede, rimanendoci aggrappata anche usciti da teatro, nonchè nei giorni successivi, mettendo profonde radici.

Ho passato il post show dietro le quinte con i ragazzi del cast ed è stato incredibile rendersi conto della devozione dei genitori (quelli veri) per la passione e la professionalità dei loro figli. 

 

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Questa sono io nel dietro le quinte con il cast.

 

Questo, è il caso di dirlo, è quello che vogliamo per le generazioni future: un mondo dello spettacolo sostenuto dalla società, un mondo dove gli artisti, quelli veri, avrebbero la possibilità di trovare la loro strada, senza il costante timore d’essere sottovalutati, maltrattati e di non essere ascoltati. 

La pagella di School of Rock è piena di bei voti, non perdetevi le prossime date!

Valentina Gessaroli

Il Musical e l’Italia: il successo targato Disney

Se vi dico Walt Disney, quale immagine si forma nella vostra mente? Prima di tutto, sicuramente, vi strapperei un sorriso.

Dopo di che la vostra fantasia inizierebbe a viaggiare, toccando gli angoli più vivi e colorati dell’infanzia, guidata da quella magia eterna che, oggi come ieri, rende la Walt Disney Company sovrana  indiscussa dell’intrattenimento. 

Ebbene, per quanto possa sembrare pacifico e prospero tutto questo, anche la Disney ha attraversato un periodo buio causato, nel 1966, dalla morte del suo iconico papà, Walt Disney.

Tra alti e bassi l’azienda non tornò a galla fino al 1989 quando un’idea pazza, quanto efficace, rivoluzionò la storia del cinema: costruire la narrazione dei lungometraggi animati esattamente come quella di un musical di Broadway.

Infatti, il 15 Novembre 1989, uscì nelle sale cinematografiche statunitensi il 28° Classico Disney: La Sirenetta. 

Il lungometraggio presentava tutte le caratteristiche che un musical di successo dovrebbe avere: numeri di ballo, canzoni indimenticabili e una capacità d’intrattenere incredibilmente efficace.

 

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L’incredibile struttura che riproduce l’albero della nave del Principe Eric, da “The Little Mermaid” a Broadway

 

Inutile dirlo, questo schema ebbe così tanto successo che la Disney tornò sulla cresta dell’onda e ci rimase producendo quei capolavori che insieme vengono chiamati ancora oggi “il leggendario trio” ovvero La Sirenetta, La Bella e la Bestia Aladdin.

Fu così che si entrò in quel florido periodo conosciuto come il “Rinascimento Disney”.

Non passò molto tempo, però,  prima che il leggendario trio sentisse il richiamo delle proprie origini. Nel 1993 nacque la Disney Theatrical Production, con l’intento di portare sui palchi di Broadway il successo planetario di Beauty and the Beast.

Ma come tramutare quelle incredibili animazioni in spettacolo, senza correre il rischio di rendere il tutto un gigantesco flop? 

Inevitabilmente fu necessario sbattere la testa sul fatto che il musical è si una forma d’arte meravigliosa e complicata, ma soprattutto costosa. La mediocrità è facile da sfiorare quando scegli la strada del musical. 

Precedentemente abbiamo parlato di quanto sia difficile produrre un musical tradizionale, soprattutto in Italia, poiché il denaro da investire per questo tipo d’intrattenimento scarseggia e l’incognita successo è parecchio determinata dal prezzo del biglietto. 

Raccontare allo spettatore la difficoltà di produzione, esaltandone impegno e virtù, è il primo passo per riempire i teatri. 

L’esempio di Mary Poppins, il musical italiano che ha fatto sognare adulti i bambini riscuotendo un enorme successo, vi sembrerà ridondante ma  ci serve per capire che l’amore tra il musical e l’Italia è davvero possibile.

 

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Numero musicale tratto dal musical Disney “Newsies”, in cartellone al Teatro Nazionale di Milano prima del successo di “Mary Poppins”.

 

Potremmo chiederci però cosa porta le persone ad assistere ad un musical Disney, quando la storia è la medesima, vista e rivista da generazioni di bambini ed adulti sulle VHS ed al cinema.

Sì, è vero, quando Disney porta sul palco le proprie storie queste non hanno bisogno di presentazioni. Per prima cosa la musica viene utilizzata per dare definizione e carisma allo spettacolo e per portare qualcosa di nuovo al pubblico, che sia in linea però con il lungometraggio omonimo.

Infatti è tradizione che siano aggiunte canzoni create appositamente per le versioni teatrali della storia; fortunatamente la Disney può permettersi di chiamare a raccolta lo stesso team che precedentemente ha lavorato al film. 

Dopo la riuscitissima realizzazione sperimentale di musical come Beauty and the Beast e The Little Mermaid, fu proprio con Aladdin che la Disney celebrò maggiormente il legame originario tra musical e lungometraggio. In questa storia lo schema del musical è molto più marcato, rispetto a quello dei suoi fratelli maggiori, proprio per celebrare il fatto che fu la scelta di questa tipologia di narrazione a salvare la Disney dai suoi anni bui.

Trasformare Aladdin in spettacolo fu come riportarlo alle sue origini: un gioco da ragazzi, si può dire. Friend like me, il brano cantato dal Genio della Lampada, ormai fa parte del DNA di Broadway.

I suoi genitori, il compositore Alan Menken e il paroliere Howard Ashman, sono i creatori delle canzoni che resero “il leggendario trio” il perfetto esempio di spettacolo allo stato puro.

Per loro, tornare a lavorare per Broadway, dopo Sister Act e La Piccola Bottega degli Orrori fu come tornare a casa dopo un lungo viaggio nell’animazione.

Per renderlo ancor più spettacolarizzabile Menken pregò i dirigenti di liberare Aladdin il Musical dai diritti d’autore, consentendo alle scuole di metterlo in scena senza problemi.

Sta di fatto che Disney portò Broadway sul grande schermo e ne fece un’infallibile ricetta per il successo. In seguito, riconsegnò quella ricetta al palcoscenico. 

Da qualche anno a questa parte, iniziando con La Bella e la Bestia, dato il trionfo  illimitato dei suoi musical teatrali, la Disney sta riportando Broadway sul grande schermo, continuando quest’anno con l’uscita nelle sale cinematografiche dei musical in live action di Aladdin e de Il Re Leone.

Broadway/cinema/Broadway/cinema. Mio Dio, un Inception Disney.

 

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Un giovane Simba sale sulla Rupe dei Re, dal musical “The Lion King” a Broadway.

 

Spesso il successo di uno spettacolo dipende anche dalla qualità degli effetti speciali che devono essere convincenti per sbalordire il pubblico. 

La magia, in un musical come Aladdin, è una prerogativa così, per i suoi effetti speciali, Disney si rivolse al maestro dell’illusionismo Jim Steinmeyer, che divenne membro attivo del team creativo.

Per le scenografie, le luci ed i costumi l’intero team intraprese un viaggio in Marocco, per rubarne le atmosfere e le tradizioni.

Così, da 8 anni a questa parte, ogni replica di Aladdin è un tributo a tecnici, artisti, costruttori e supervisori  che hanno lavorato senza sosta per una ragione soltanto: estasiare noi, i loro spettatori.

 

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Numero musicale “Arabian Night” tratto dal musical “Alladin” nel West End di Londra

 

Per quanto il teatro possa essere appagante e liberatorio per un artista, lo spettacolo è, in realtà, confezionato per il pubblico: occorre affinare il più possibile la capacità di carpirne sogni e bisogni, se si vuole arrivare ad un prodigioso successo. 

Per quanto possa essere complicato mettere in scena una rappresentazione stabile in un teatro, lo è ancor di più pensare ad uno spettacolo di questa portata che possa spostarsi da una città all’altra.

Quando nel 1991 Rob Roth, veterano regista di Broadway, vide al cinema La Bella e la Bestia, impazzì per il film perché, nel vederlo, si accorse di quanto fosse comparabile ad un vero e proprio musical. 

Quando Disney gli chiese di dirigerne la versione teatrale, esplose di felicità. 

 

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Insegna del musical Disney “Beauty and the Beast”

 

Poi, dopo mesi di pre-produzione ed il successo di Beauty and the Beast a Broadway, gli venne chiesto di riadattare la sua creatura ad un musical da tournè. La cosa non fu affatto semplice:

Abbiamo portato lo show in tutto il mondo, ho volato personalmente in Australia, Giappone, Vienna, Los Angeles e Germania, per ricercare in loco il perfetto team creativo. Per me è stato un onore lavorare con così tanti artisti ed attori nel mondo, ho imparato che le emozioni sono un linguaggio universale.

Ma, ogni volta che lo spettacolo si vestiva di un nuovo teatro, in una nuova città, le modifiche da apportare erano troppo numerose. Le luci, le scenografie, le scelte stilistiche, tutto completamente da rifare..

Per noi, c’era solo una strada: tornare alla pre produzione e reinventarsi, così da creare uno spettacolo su misura per ogni nuova location.

Per rendere giustizia alla sua opera Roth fece un’ accuratissima ricerca, prese aerei e passò notti intere, insieme ai suoi tecnici, a modificare lo spettacolo senza danni far danni. Tutto, perché la magia creata dal team non si disperdesse. 

Pensate un attimo a quanto un musical da tournè perda di qualità nel passare da un teatro all’altro. 

In Italia, questo succede ogni volta. Le luci, i colori, le scenografie, il sonoro, l’impostazione dei performer sul palco, ovvero il lavoro di tantissimi professionisti che hanno studiato giornate intere, tutto sarebbe da rifare e, vi assicuro, il pomeriggio che si ha a disposizione non è per nulla sufficiente. 

Come risolvere l’eterna lotta tra la ricerca della qualità e l’enorme investimento economico e creativo necessario per portare sui palchi italiani un vero musical tradizionale?  

 

Valentina Gessaroli

Hokusai Hiroshige: Oltre l’Onda

• Il fascino dell’Oriente da Debussy ai Cavalieri Jedi •

 

Immaginate per un attimo, nei panni di un artista europeo del 1867, di attraversare i grandi cancelli dell’Esposizione Universale di Parigi. In questa edizione gli argomenti trattati sono l’agricoltura, l’industria e le arti.

A costo d’essere scontati, entrando, cercherete con lo sguardo l’area dedicata alle avanguardie artistiche. Incuriositi dal padiglione del Giappone ne varcherete la soglia ignari che, di lì a poco, sarete inondati da qualcosa che cambierà per sempre il modo in cui l’occidentale concepisce l’arte.

Alzando gli occhi li sgranerete entrando in contatto con qualcosa di così extraterrestre, da farvi sentire insieme spaventati e meravigliati: le stampe giapponesi, pregne di un fascino tanto ignoto e misterioso, conquistano immediatamente i nostri cuori e le nostre menti avide di sconosciuto.

 

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Katsushika Hokusai, “Vento del Sud, Cielo sereno” anche noto come “Fuji Rosso” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

 

In occidente, vi assicuro, nulla del genere si era mai visto poiché il Giappone, per preservare la sua identità, fino a quel momento visse nel più totale isolamento.

Uno tsunami incontrollabile svegliò voci nascoste nei cuori degli artisti; la rivoluzione creativa fu inevitabile e da questa nacque quel pregevole dono per il quale saremo per sempre debitori all’Oriente: l’Art Nouveau.

 

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Manifesto dell’Esposizione Universale di Torino del 1902

 

Oggi, nel 2019, dopo secoli di conoscenza ed istruzione, ciò che noi europei potremmo provare davanti alle opere giapponesi dovrebbe tradursi in un sentimento edulcorato e sbiadito.

Invece, entrando nel Museo Civico Archeologico di Bologna, ci ritroviamo tutti con le mani appoggiate sul viso e gli occhi sgranati, mentre ci godiamo quella sensazione aliena che proviamo noi occidentali quando si tratta d’Oriente.

Questa roba fa paura, giuro, perché vorresti capirla anzi, credi di capirla ma non è così, non è possibile, è di un altro pianeta. E questo, irrimediabilmente, ci attira spaventandoci ora come 150 anni fa. 

 

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Katsushika Hokusai, “Kajikazawa nella provincia Kai”, dalla serie “Le Trentasei vedute del Monte Fuji”.

 

La mostra  Hokusai Hiroshige – Oltre l’Onda si fa traghettatrice di un viaggio attraverso l’arte della stampa giapponese, arte che necessita di una disciplina ed di una concentrazione unica.

L’allestimento è davvero intelligente, non solo perché finalizzato alla comprensione dei due maestri dell’arte Ukiyo-e, ma perché porta il pubblico a confrontarne le opere, individuandone sì le uguaglianze e le differenze, ma anche le motivazioni che hanno portato ad esse. 

 

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Utagawa Hiroshige, “Ōhashi. Acquazzone ad Atake” dalla serie “Cento vedute di luoghi celebri di Edo”.

 

Ma che cos’è l’arte Ukiyo-e? Letteralmente il termine significa “dipinto del mondo fluttuante” e per i buddisti rappresenta la fugacità e la precarietà delle cose terrene, dalla quale il saggio doveva allontanarsi il più possibile.

Nel Seicento il significato del termine venne rovesciato poiché furono proprio quei desideri effimeri e fluttuanti a rendere preziosa la vita terrena.

La pittura giapponese, infatti, era fatta di attimi fuggenti: immobilizzava con strumenti inspiegabili un istante nel tempo e nello spazio, rendendolo eterno, evanescente e fluttuante.

Il più grande maestro che l’Ukiyo-e conobbe fu Katsushika Hokusai (1760-1849) che definì se stesso “solo un vecchio pazzo per l’arte”. Anche noi siamo pazzi per l’arte, la sua. 

 

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Katsushika Hokusai, “Nakahara nella provincia di Sagami” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

 

Nelle sue opere il maestro riesce a creare qualcosa di eccezionale e mai scontato, nonostante lo schema sia sempre il medesimo: in primo piano la vita quotidiana dell’uomo, sullo sfondo la natura potente e spaventosa, seppur spesso silente ed addormentata.

La mostra, dopo averci presentato Hokusai e le sue trentasei vedute del monte Fuji, ci guida davanti alla vera protagonista dell’esposizione: La Grande Onda presso la costa di Kanagawa.

 

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Katsushika Hokusai, “La [grande] onda presso la costa di Kanagawa”, dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

Una giornata, per ammirarla, non sarebbe bastata.

Per quanto possa essere minacciosa la natura per Hokusai, rappresenterà sempre l’armonia, la pace e l’eterna costante dell’uomo.

Il sentirsi impotenti davanti alla furia della natura, secondo la filosofia giapponese, è una certezza rassicurante. Accanto a lei, in una teca gemella, troviamo una stampa del più giovane Utagawa Hiroshige (17731829) che rappresenta un’onda ispirata a quella del grande maestro Hokusai, chiamata Il Mare a Satta nella provincia di Suruga.

L’Onda di Hokusai, a differenza di quella di Hiroshige, urla, ruggisce e assale le fragili navi con i suoi schiumosi artigli di drago, creando uno spettacolo drammatico. 

 

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Utagawa Hiroshige, “Il mare di Satta nella provincia di Suruga” dalla serie “Trentasei vedute del Fuji”.

 

L’Onda di Hiroshige, invece, capovolge l’inquadratura portando l’umano sullo sfondo ed il mare in primo piano.

Rappresenta una natura pacifica e materna, nella quale le navi viaggiano serene dove il pericolo è lontano. Entrambi gli artisti, inconsapevolmente, aprirono la strada all’invenzione dei celebri manga giapponesi.

Hiroshige si lasciò influenzare dall’arte occidentale, abbandonò la concezione d’istante fluttuante ed immobile di Hokusai, destando i suoi soggetti, animandoli, rendendoli gioviali ed espressivi, in stampe che paiono appena uscite dagli studi di Hayao Miyazaki.

All’Occidente Hokusai regalò, Hiroshige rubò. In più, è evidente che l’avvento della fotografia colpì fortemente il giovane artista, e lo si legge nelle splendide stampe che trasforma in profonde inquadrature fotografiche. 

Dopo aver sconvolto i sentimenti di Monet, la tecnica di Van Gogh ed il tratto di Degas, l’arte giapponese proseguì la corsa alla conquista del cuore occidentale. 

Anche la musica, arte sempre assetata d’influenze, si fece sedurre dal Giappone in una danza misteriosa e fluttuante.

L’amante più devoto fu Claude Debussy, che rimase tanto coinvolto dalla visione de La Grande Onda di Hokusai da comporre, nel 1905, un’incantevole raccolta di schizzi sinfonici a lei dedicata: la celebre Le Mèr. Sulla copertina della prima edizione, per sua scelta, volle proprio l’immagine de La Grande Onda. 

“La musica è un’arte molto giovane, sia nei suoi mezzi, sia per la conoscenza che ne abbiamo”, disse Debussy al suo editore dopo aver compreso quanto basti poco per cambiare irreparabilmente il  modo di vivere le piccole e grandi cose.

Dopo di lui tantissimi musicisti cavalcarono quell’Onda misteriosa, come Igor Stravinsky e Maurice Ravel, lasciandosi trascinare in un mare di profondi gorghi, di misticismo e di tensione.

Giacomo Puccini scelse di rappresentare in musica la storia di Madama Butterfly, una delle opere ancora oggi più famose, proprio perché come ogni altro artista del tempo era desideroso di toccare e plasmare la cultura giapponese, come argilla tra le sue mani.

Attraversando la classica e quella jazz, ancora oggi la musica occidentale porta i segni dorati delle influenze orientali che, inconsapevolmente, peschiamo in grande quantità anche nella cultura popolare.

Basti pensare al wagneriano John Williams che, dopo 50 anni di carriera hollywoodiana, si lascia ancora influenzare da Debussy e, indirettamente, dall’Ukiyo-e.

Per la colonna sonora della saga di Guerre Stellari, sua figlia prediletta, ha scelto quelle atmosfere ascetiche e vaporose tipiche della musica e della filosofia giapponese. Sulle dune di Tatooine o circondati dai Jawa, è inevitabile sentirne la presenza, il profumo, il tocco. 

 

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Utagawa Hiroshige e Utagawa Kunisada I, “Veduta con la neve”.

 

La verità è che molto dell’iconica saga di George Lucas abbraccia caldamente l’Oriente. In fondo, cos’è la filosofia dell’Ukyio-e, se non qualcosa di incredibilmente rassomigliante alla filosofia dei Cavalieri Jedi?

Valentina Gessaroli

Sister Act – Il musical divino. Una storia d’amicizia

Prima dello spettacolo (qui di seguito il report di questa bellissima esperienza) ho avuto il piacere di incontrare Annalisa Missieri, il presidente della compagnia.

Abbiamo preso posto sui divanetti del teatro e abbiamo fatto quattro chiacchiere per capire come  è nata la compagnia e come mai hanno scelto proprio Sister Act per festeggiare i loro 10 anni di attività.

Questa compagnia si auto produce ( ha pochissime sponsorizzazioni) e tutto quello che vediamo sul palco è frutto del duro impegno e della passione di chi ha deciso di credere in questo progetto iniziato nel lontano 2008…

 

Il 2018 è stato un anno molto importante perché avete festeggiato il vostro decimo compleanno. Com’è nata questa compagnia?

Siamo nati nel 2008 in una parrocchia piacentina (quella del quartiere Besurica), però fin da subito abbiamo voluto progredire e quindi ci siamo costituiti come compagnia e associazione. Abbiamo cominciato a formarci, a studiare e a uscire dall’anonimato. E quindi a fare musical ispirati ai musical di Broadway.

 

Siete una compagnia molto variegata vero?

Siamo in 54 di varia età, abbiamo due minorenni e poi arriviamo fino ai sessantenni. C’è un nucleo storico, quello di 10 anni fa. Anche quello però era stato costituito tramite provini e poi man mano, quando c’è una nuova produzione facciamo delle nuove selezioni per ricercare gli interpreti. C’è anche chi chiede di entrare senza avere particolari velleità artistiche che però vuole dare una mano per gli aspetti tecnici. Queste persone quindi non fanno i provini ma si mettono a disposizione per il dietro le quinte che è importante come quello che si vede in scena.

 

Siete passati da Legally Blonde a Sister Act. Qual è stato il motivo di questa scelta?

Si tratta di un musical ispirato al famosissimo film del ’92 che piaceva un po’ a tutti. Il nostro regista, Mario Caldini, lo voleva da tempo ma non c’erano i diritti e quindi abbiamo dovuto aspettare che si liberassero. Non appena si è presentata l’occasione ci siamo buttati e abbiamo colto questa opportunità perché è una storia bellissima e coinvolgente. A noi piacciono i musical corali perché siamo in tantissimi, in prevalenza siamo donne, e questa era l’opera che andava bene per noi.

 

A quale versione del musical fate riferimento?

Noi utilizziamo una  traduzione italiana ovviamente. Il nostro regista ha scelto la versione del 2011 di Broadway perché ha all’interno anche dei brani che non erano presenti nelle versioni successive e quindi era un po’ più completo rispetto alle altre versioni.

Abbiamo una band dal vivo che deve tradurre i brani orchestrali in brani fattibili per una band. E’ più di un anno che lavoriamo a questo progetto. Facciamo prove settimanali, a volte anche due volte a settimana. Prima proviamo separati: ballerini, cantanti, band. Poi da un certo punto iniziamo a provare tutti insieme assemblando i vari pezzi. E da li iniziamo a vedere emergere lo spettacolo.

 

Avete ottenuto un grande successo e infatti avete dovuto raddoppiare le date…

Eravamo partiti con due date pensando che fossero sufficienti. Noi abbiamo due cast e in questo modo avremmo dato la possibilità ad entrambi di esibirsi. Poi la domanda è stata talmente alta che abbiamo aggiunto la terza data e da pochissimo la quarta, che sta andando via velocemente.

Grazie ad Annalisa Missieri e alla compagnia I Viaggiattori per la disponibilità.

Saluto tutti ed entro in platea pronta a vedere il mio primo musical. Felice nel vedere che chi crede nell’arte e nel teatro riesca ad avere la possibilità, grazie all’impegno e al duro lavoro, di avere la soddisfazione di recitare in un’arena senza neanche un posto vuoto.

 

E’ un sabato sera di febbraio quello che è generalmente considerato il mese più triste dell’anno, ma nonostante questo a Piacenza c’è una strana agitazione e i parcheggi sono più pieni del solito.

Questo è merito della compagnia made in Piacenza I Viaggiattori, che ha deciso di mettere in scena il musical Sister Act, con la regia di Dario Caldini.

Dopo il successo ottenuto a Salsomaggiore Terme e le due date sold out al Teatro Nuovo di Milano la compagnia ha deciso di tornare a giocare in casa e di replicare lo spettacolo con quattro date al Politeama (inizialmente erano solo due ma, visto il successo ottenuto, hanno deciso raddoppiarle).

Prendo posto in platea, con l’agitazione che mi accompagna ogni volta che provo una nuova esperienza. Nonostante io ami i musical non ho mai avuto occasione di vederne uno dal vivo e quindi non so bene cosa aspettarmi.

Qualche minuto dopo le ventuno, le luci si abbassano e una voce ci annuncia che lo spettacolo sta per iniziare.

Veniamo trasportati in un locale di Philadelphia dove una cantante di colore Deloris Van Cartier, sta per esibirsi. Capiamo fin da subito con chi abbiamo a che fare, una donna ambiziosa che vuole essere come Donna Summer: il suo sogno è infatti quello di esibirsi con un vestito bianco di palette e una pelliccia candida.

 

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Passa solo qualche minuto e apprendiamo la prima lezione di vita che questo musical ci vuole insegnare: le cose non vanno sempre come vogliamo noi.

La donna infatti assiste per sbaglio ad un omicidio commesso dal suo amante e quindi è costretta a chiedere aiuto alla polizia per nascondersi.

Eddie Umidino, il poliziotto che si occupa del suo caso, conoscendo bene la donna decide di portarla nell’unico posto in cui i sicari non andrebbero mai a cercarla: un convento.

 

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Ed è qui che inizia il bello. Facciamo conoscenza con le suore che vivono nel monastero, la madre superiora, che non vede di buon occhio l’arrivo della cantante, Suor Maria Roberta giovane novizia che non ha ancora capito quale sarà la sua strada, Suor Maria Patrizia l’ottimista e Suor Maria Lazzara la burbera amante del rap.

Ed è qui che l’esplosiva Deloris Van Cartier diventa la bomba Suor Maria Claretta riuscendo ad entrare fin da subito nel cuore di tutte le altre sorelle.

L’abito monacale non basta a nascondere l’essenza della protagonista che aiuterà le altre suore a capire chi sono davvero e lo farà attraverso la musica.

Quando le monache iniziano a proporre le loro messe rock il pubblico impazzisce, gli applausi spesso partono prima che le canzoni finiscano. Tutti sono conquistati dalla bravura degli attori sul palco ma soprattutto dalla timbrica  delle “suore”.

 

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Gloria Enchill, che interpreta Deloris, ha una voce calda e potente in grado di catturare l’attenzione dello spettatore fin dalle prime note. E quando verso la fine dello spettacolo la timida Maria Roberta, impersonata da Elisa Del Corso, canta il suo assolo, quello in cui acquista la consapevolezza di chi vuole davvero essere nella vita, il pubblico impazzisce scatenando un fragoroso applauso mentre Elisa sta ancora cantando.

Le scenografie sono semplici, facili da cambiare per permettere in modo agile i repentini cambi di scena e di abito. Ma funzionano alla grande perché non tolgono spazio ai veri protagonisti di questo show benedetto da Dio: gli attori ma sopratutto la musica (rigorosamente dal vivo visto che dietro le quinte c’è una band).

E’ lei la vera protagonista di questo spettacolo, una musica che prende il cuore e ti scalda l’anima.

 

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Ognuno in questo spettacolo capirà qual è il suo posto nel mondo proprio grazie alle canzoni. Si tratta di una storia sull’accettazione, l’inclusione ma sopratutto l’amicizia, una storia vecchia ma tuttavia senza tempo, capace di unire generazioni. Deloris, trova le sue sorelle, capisce che avere qualcuno accanto è più importante della fama se non hai nessuno con cui condividerla, anche se alla fine coronerà il suo sogno di essere come Donna Summer.

Suon Maria Roberta troverà la sua voce e avrà il coraggio di dire finalmente no, di lottare per le sue idee e questo grazie a un paio di trasgressivi stivali di vernice rossa che simboleggiano il suo legame con Deloris.

Persino la Madre Superiora, le cui canzoni sono quelle più lente di tutto lo spettacolo, alla fine si ammorbidirà e accetterà i cambiamenti che Suor Maria Claretta ha introdotto nel convento, prendendo parte all’ultima canzone che è una celebrazione dell’amore e dell’amicizia.

 

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Quando le luci si sono alzate al termine dello spettacolo mi sono guardata un po’ intorno e mi sono accorta che il pubblico era estremamente variegato: bambini, ragazzi, anziani, gente distinta e chi era pronto per andare a ballare.

Questo è il potere della musica, del teatro e dell’arte: unire tutti. Perché quando le luci si spengono e ognuno è seduto al proprio posto siamo tutti uguali, non ci sono differenze, perché tutti siamo rapiti dalla magia di quello che accade sul palco.

E mentre tornavo alla macchina, parcheggiata lontanissimo dal teatro, mi sentivo più leggera e più felice e, stranamente, sentivo anche meno freddo del solito mentre canticchiavo a bassa voce fammi volare. 

 

Laura Losi

Rimini, il Teatro Galli e la Carmen

Venerdì 4 gennaio, noi di VEZ Magazine siamo stati invitati per assistere alla data della Carmen, l’Opera lirica in quattro atti di Georges Bizet nel nuovo allestimento dell’Associazione Coro Lirico città di Rimini Amintore Galli al debutto sul palco del Teatro Galli il primo giorno di gennaio.

Una data aggiunta dopo il sold out della prima settimana di prevendite per le tre recite previste per martedì 1, giovedì 3 e sabato 5 gennaio.

Oltre 2000 biglietti venduti (circa 700 per ognuna delle tre recite previste), non solo ai tantissimi riminesi che in questi giorni hanno sfidato code e liste d’attesa, ma a tanti appassionati provenienti da diverse parti d’Italia e per lo più dalle città di Bologna, Ravenna, Milano e Firenze.

Occasione unica quindi per tutti, ma anche per noi per assistere al debutto del coro sul Palco fresco di restauro.

Una storia lunghissima quella del Teatro, che inizia nel 1841 con l’incarico al modenese Luigi Poletti (1792-1869) di progettare il teatro secondo il proprio stile neoclassico.

Nel 1843 iniziano i lavori con l’appaltatore Pietro Bellini di Rimini e si concludono nel 1846 le opere murarie. A causa di scarsità di fondi i lavori vengono abbandonati e poi ripresi nel 1854 terminando i lavori nel 1857 con l’inaugurazione della stagione lirica da parte di Giuseppe Verdi (unico caso in Italia) che presenta una nuova opera, l’Aroldo, composta appositamente.

Il teatro Galli infatti 15 maggio 1841, dopo una serie di progetti elaborati da professionisti locali, viene incaricato del progetto per la realizzazione del Nuovo Teatro di Rimini l’architetto Luigi Poletti di Modena (1792-1869), illustre esponente della professione legato alla scuola neoclassica purista romana, avendo studiato nella città eterna, ed elaborando un proprio linguaggio di superamento dello stile purista.

Nel 1859 il Teatro è dedicato a Vittorio Emanuele II.

 

A causa delle lesioni post terremoto del 1923, il teatro viene chiuso e durante i restauri viene installato un impianto elettrico ma nel 1943 a seguito di un bombardamento aereo crolla il tetto della sala.

Nel 1947 il Teatro, semidistrutto, è dedicato al musicista Amintore Galli (1845-1919), critico musicale e compositore famoso a livello nazionale e mondiale, per il successo del suo inno del lavoratore con il testo scritto da Filippo Turati.

Negli anni si susseguono varie iniziative e finanziamenti per la ristrutturazione del teatro grazie al Ministero dei Beni Culturali la Soprintendenza per i Beni Architettonici di Ravenna e al contributo economico della Regione Emilia-Romagna  – finanziamento Europeo POR FESR.

Nel 28 marzo 2015, conclusi i lavori di restauro iniziati nel 2010,  il Foyer viene consegnato alla città per essere utilizzato come contenitore culturale nell’attesa che si concluda la ricostruzione del Teatro Galli.

Il Teatro ‘Amintore Galli’ di Rimini torna ad alzare il suo sipario: a distanza di 27.333 giorni, 898 mesi, 75 anni il luogo della grande musica è stato restituito a Rimini e alla comunità riminese.

Prosegue quindi ora la prevendita dei biglietti con ulteriori 700 posti disponibili.

I costi dei biglietti vanno dai 10 ai 75 euro.

L’Opera, prodotta dall’associazione Coro Lirico città di Rimini Amintore Galli con il patrocinio e il contributo del Comune di Rimini, avrà la regia di Paolo Panizza e sarà diretta dal Maestro concertatore Massimo Taddia, con la Astral Music Symphony Orchestra delle Marche e il Coro Lirico città di Rimini Amintore Galli preparato dal M° Matteo Salvemini.

L’opera, nella versione originale francese, sarà sottotitolata in italiano.

I solisti

Carmen, Anastasia Boldyreva mezzosoprano; Don Josè, Giuseppe Varano tenore; Escamillo, Daniele Caputo baritono; Micaela, Paola Cigna soprano (1 -5 gennaio) Zeina Barhoum (3 gen) soprano; Frasquita, Elisa Luzi soprano; Mercedes, Laura Brioli mezzosoprano; El Dancairo, Giovanni Mazzei baritono; El Remendado, Roberto Carli tenore; Zuniga, Luca Gallo basso; Morales, Nico Mamone baritono; una venditrice di arance, Chiara Mazzei soprano; un soldato Leonardo Campo baritono; Lillas Pastià, Alessandro Semprini (voce recitante) uno zingaro Riccardo Lasi, una guida Luca Frambosi, Alcalde Giuseppe Lotti.

Con il corpo di ballo Future Company. Direttrice e coreografa Gabriella Graziano

Ballerini: Pietro Mazzotta, Marco Dalia, Alessandro Zavatta, Michela Amati, Elisa Amenta, Alessia Bernardi, Sara Fabbri, Martina Moro, Merilinda Pellegrini.  E il coro a voci bianche “Le Allegre Note” di Riccione. Maestro del coro Fabio Pecci.

 

Carmen Pubblicita