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Subsonica: sogniamo, perché c’è sempre qualcosa in più

Subsonica: sogniamo, perché c’è sempre qualcosa in più

| Luca Ortolani

I Subsonica sono tornati. Lo hanno fatto percorrendo strade che seguono curve dorate, come i contorni del numero Otto, scelto come titolo del loro ultimo album. Una cifra, un simbolo denso di significati. Uno fra tutti, la continuità.

I cinque musicisti di Torino, dopo oltre due anni di esperienze da solisti, si sono ritrovati per scrivere un nuovo capitolo della loro ultra ventennale carriera come band. Le solide radici affondate negli anni Novanta, la consapevolezza del mutamento dei tempi, lo sguardo attento all’attualità, la volontà di esprimersi con il loro linguaggio, la musica. Passato e presente che convergono in un unico, spettacolare tour, in giro per l’Italia.

Abbiamo parlato di questo e di tanto altro con Samuel, che ci ha svelato il segreto grazie al quale il microchip emozionale dei Subsonica è ancora così ricettivo e in costante evoluzione.

 

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Si sta per concludere il fortunato tour che promuove Otto, il vostro ultimo lavoro in studio. Che cosa racchiude questo titolo, oltre al significato prettamente matematico?

Il primo spunto ci è venuto pensando al fatto che questo è il nostro ottavo album. In più, l’otto è un numero pieno di simboli. Se girato in orizzontale, indica l’infinito, quindi il tempo che crea un ciclo su se stesso. In qualche modo, i Subsonica fanno parte di questo immaginario… è molto tempo che siamo insieme e abbiamo assistito allo scorrere di vari cicli della musica. Per alcune culture orientali, l’otto è il numero della ricerca dell’equilibrio, con il suo nucleo centrale e i due cerchi laterali. Anche questo aspetto sembra raccontare l’esigenza di un gruppo come il nostro, composto da cinque teste pensanti, di forte carattere e che necessitano di un equilibrio fra loro. Tutta questa serie di ispirazioni e scintille ci ha fatto propendere alla scelta del titolo.

 

Il 18 gennaio è uscito sulle piattaforme Vevo e Youtube il video di Punto Critico, brano che descrive realisticamente “questi anni senza titolo”. Quanto la musica può essere o può tornare ad essere uno strumento di denuncia e di comunicazione oggi?

La musica è sempre stata un veicolo di comunicazione e di racconto. Ciò che cambia sono le esigenze della società e di chi ascolta la musica. È cambiato anche il modo di ascoltarla. Quando noi abbiamo iniziato, si incideva su vinile, adesso si ascolta in streaming. Cambiano le modalità attraverso cui gli uomini usano la musica, che rimane però sempre un linguaggio fondamentale. In questo momento, stiamo assistendo ad una costruzione e ricostruzione di nuove forme di linguaggio. Ad esempio, il rap o la trap hanno riportato al centro dell’attenzione la parola. Perciò, per certi versi, di fronte a un passaggio epocale, la gente sta ritornando ai concerti, le sale diventano sempre più piccole e il pubblico sempre più numeroso. Molte realtà musicali approdano a stadi e palazzetti in tempi brevissimi. È in corso un processo di enorme cambiamento musicale.

 

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Bottiglie rotte è stato il singolo che ha anticipato Otto. È ispirato dagli effetti deformanti e narcisistici che caratterizzano l’era social. Qual è il vostro rapporto con l’evoluzione tecnologica e dei media? Voi che siete stati i primi musicisti in Italia ad aprire un sito internet, nei primi anni duemila…

Sì, noi siamo stati il primo gruppo ad avere un sito legato alla musica e siamo stati, forse, tra i primi al mondo a registrare in mp3. Tra noi c’è un ingegnere informatico che, in quei periodi, si stava laureando e aveva in mano tutte le nuove onde della tecnologia. Il supporto mp3 era in fase di studio e costruzione, proprio a cura di uno dei suoi professori. Oggi, ovviamente, i nativi “duemila” sono nati già immersi in questo alfabeto di comunicazione e hanno una lucidità, una rapidità e una leggerezza nell’utilizzo superiore a tutti quelli venuti prima. Ma questo fa parte della storia del mondo: tutti quelli che vengono dopo si avvalgono degli strumenti scoperti dai propri genitori o fratelli maggiori per poi reinventarli al meglio. Nel testo di Bottiglie rotte non è contenuto un giudizio. C’è un racconto del presente. Un presente composto da tanti palcoscenici infilati nelle tasche di ognuno di noi e nei nostri telefoni. Abbiamo ormai a disposizione un vero e proprio palcoscenico, per farci vedere da chiunque. C’è chi lo utilizza in maniera più intelligente e chi invece sembra “buttarsi un po’ via”. E anche quello fa parte della naturale andamento del mondo.

 

Fin dagli esordi, la vostra attitudine è stata sempre fortemente innovativa, puntando sui suoni elettronici e sulla cultura delle basse frequenze. Dopo oltre vent’anni di carriera, che sfumature assume oggi il verbo “sperimentare”?

Sperimentare è l’unica forma di comunicazione e di linguaggio che conosciamo. La sperimentazione ci dà la possibilità di continuare a sperare perché nella ricerca si ha comunque la speranza di trovare qualcosa. Quindi, da sempre siamo stati ricercatori e sperimentatori di nuove tecnologie, dallo studio, alla scrittura, all’utilizzo della lingua italiana, per arrivare fino al live. Oggi, per primi, suoniamo su un palco completamente in movimento, mai utilizzato in Italia. Ogni sua parte si muove insieme a noi, lasciando un po’ tutti a bocca aperta. È uno spettacolo molto ambizioso e che, fortunatamente, siamo riusciti a amalgamare insieme alla musica. Quando si costruiscono delle scenografie così ricche, si corre il rischio di nascondere quella che è la parte fondamentale del concerto, la musica. Invece la peculiarità del nostro tour è proprio la capacità di trasportare la musica in uno scenario imponente.

 

Gli spettacoli, infatti, hanno un potente impatto visivo, oltre che sonoro. Le cinque pedane che si muovono sul palco è come se rappresentassero ognuno di voi. Come è cambiato il ruolo di ogni componente della band nel tempo? Come siete “posizionati” oggi?

Oggi siamo posizionati tutti in linea, come avviene nell’ultima parte del concerto. Nella costruzione di questo spettacolo, abbiamo tenuto conto proprio del fatto che i Subsonica sono una vera band: dei caratteri molto forti e la necessità di ognuno di compiere un proprio gesto creativo. Due cose che ci hanno messo sempre un po’ in difficoltà ma che ci hanno sempre dato linfa vitale, tanto da essere uno dei gruppi più longevi con la stessa formazione in Italia. Nel momento in cui vedi il palco, vedi anche questo racconto. Non un solo palco, ma cinque, ognuno con il proprio carattere, con il proprio movimento, con i propri video, le proprie luci e immagini. E i Subsonica sono questo: cinque elementi che potrebbero vivere musicalmente da soli, ma che suonano insieme al di là delle difficoltà e con il desiderio di mediazione. Abbiamo compreso come imbrigliare e canalizzare le nostre personalità, rendendole complementari in una fonte inesauribile di ispirazione.

 

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Sono sempre stata affascinata dal rito della costruzione della setlist. Avete più di un centinaio di brani in repertorio… In che modo li avete scelti per la scaletta?

Diventa sempre più complicato, con otto dischi e con più di un centinaio di canzoni, appunto. Due ore di concerto si sviluppano, più o meno, su una ventina di brani… Quindi sì, è difficile! Poi tra il pubblico c’è chi si affeziona più a un pezzo rispetto a un altro, oltre a quelli esaltati da tutti. Noi, avendo fatto anche i dj e arrivando dal periodo storico in cui i dj erano le rockstar, ci approcciamo alle scalette con questo meccanismo. Un meccanismo legato alla danza e al movimento fisico. Si parte con un’onda inziale, poi una breve pausa, poi una ripresa, poi un’altra piccola pausa e il finale in crescendo. Al concerto dei Subsonica non vai solo ad ascoltare musica o a cantare delle canzoni, vai anche a ballare e vivere fisicamente il live. Ed è proprio il nostro pubblico a richiedere questo.

 

Ospite e compagno di viaggio in tournée è Willie Peyote, con cui avete collaborato per la realizzazione del singolo L’incubo. Come nasce questo featuring?

Le nostre collaborazioni nascono da un incontro umano, prima che musicale. Tra di esse, è rarissimo trovare un contatto dettato da ragioni puramente di marketing o di interesse. Prima abbiamo la necessità di conoscerci e di apprezzarci l’uno con l’altro. Per quanto riguarda Willie, abbiamo assistito al suo percorso e alla sua crescita, essendo anche lui di Torino. Ci sono molti punti in comune, che derivano anche dal fatto che si è un po’ formato con la nostra musica. Ci siamo resi conto che oggi, con Willie, sembrava di rivedere i Subsonica degli inizi. Non tanto per il tipo di musica o per le cose che dice, ma per il tipo di affezione che il pubblico crea attorno a lui. Quell’affezione di riconoscimento non relativo alla gratitudine ma a una questione di identificazione, in lui e nella sua musica. Stesso meccanismo che avevamo vissuto noi, sulla nostra pelle, negli anni Novanta. È nata da lì la curiosità. Ci siamo incontrati, gli abbiamo fatto sentire una canzone che avevo scritto e avevo lasciato fuori dal mio album solista – tra l’altro questa è una notizia inedita (ride) – e lui l’ha riadattata, piacendogli molto, secondo il suo stile musicale. Ha modellato la sua parte e il tutto è stato riarrangiato in stile Subsonica. È venuto spontaneo, finito il suo tour, chiedergli di venire con noi. Nello spettacolo è stato creato uno spazio per lui, dove facciamo L’incubo, a cui segue I cani, un suo brano suonato da noi, e Radioestensioni, una canzone del nostro primo disco. Gli abbiamo chiesto di riscriverne una parte e Willie ha accettato con grande emozione perché quell’album è stato una delle sue più grandi ispirazioni. Tutto quadra, insomma!

 

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Il vostro tour è partito con l’European reeBot 2018, toccando nove città europee per poi approdare in Italia con l’8 Tour. Qual è un aspetto dei concerti all’estero che vi manca quando suonate in Italia e qual è un aspetto dell’Italia che vi manca quando siete all’estero.

All’estero suoniamo in spazi più ridotti, nei club. E i club sono i luoghi in cui noi siamo nati, abbiamo ascoltato la musica e abbiamo costruito la musica che volevamo fare. È il posto in cui vai solamente con gli strumenti e con la tua musica. L’essere innamorati dei club rimarrà sempre nel DNA dei Subsonica. In Italia, invece, riempiamo spazi più ampi con la necessità di costruire un vero e proprio spettacolo. È un altro tipo di attitudine, molto bella anche questa e in cui ci stiamo divertendo, portando in giro uno spettacolo così entusiasmante. È come se diventasse tutto più teatrale, ecco. Ovviamente, in Italia, è tutto più emozionante, per il calore del pubblico… un pubblico esperto, che conosce la musica, che ama la tua musica e che rivolta sul palco una quantità esorbitante di energia. Ecco, siamo fortunati ad avere molti fans che vivono all’estero e che ci permettono di suonare in Europa, facendo esperienza della sua diversità e bellezza. E siamo fortunati a poter tornare in Italia e realizzare uno spettacolo come quello dell’8 Tour.

 

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Per concludere, prendo in prestito una delle canzoni a cui sono più affezionata. In un contesto come quello attuale, che cosa sogna Aurora?

Più si va avanti e più è difficile sognare… Aurora sogna l’abbiamo scritta quando i nostri sogni stavano prendendo forma. Vedevamo che, in qualche modo, ce la stavamo facendo. Il personaggio di Aurora era una figura alla ricerca di una realizzazione, che non si riconosceva nella società e che si sentiva diversa. Sentiva di più e doveva raccontare qualcosa di più. Oggi, la situazione è invariata. Perché quando vivi la tua vita, percependo che il mondo attorno non ti rappresenta e avendo la necessità di costruire un tuo alfabeto, sei un’Aurora.  E Aurora oggi racconterebbe qualcosa di diverso, sicuramente… Ma la matrice e il meccanismo che fa diventare una persona qualunque un’Aurora è il non aderire a quello che si ha intorno e pensare che, forse, c’è qualcosa in più da scoprire.

 

Testo di Laura Faccenda

Foto di Luca Ortolani

Foto di copertina di Chiara Mirelli