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Built to Spill @ VoxHall

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• Built to Spill •

 

VoxHall (Aarhus) // 13 Maggio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]È una soleggiata serata primaverile ad Aarhus e il VoxHall è aperto stasera per ospitare i Built to Spill, in tour per celebrare il ventesimo anniversario di Keep It Like a Secret.

Il concerto inizia alle 20:00, e pochi minuti prima che il gruppo di apertura salga sul palco, entro nel locale trovandolo sospettosamente deserto: una manciata di persone, qualche faccia conosciuta e la maggior parte della gente che si gode un drink dall’altra parte del bar che si separa l’area concerto dalla luce dorata che entra dalle ampie finestre sul fiumiciattolo che attraversa la città.

Le luci si abbassano e gli Oruã dal Brasile iniziano a suonare: chitarre cupe e rumorose, ritmi ipnotici e una voce che strizza l’occhio a quella di Cedric Bixler-Zavala. Ascoltarli è un continuo entrare ed uscire da una dimensione senza tempo, una sorta di buco nero al cui interno c’è musica ma al di fuori il tempo scorre molto lentamente; per me, l’ora del loro set è stata più lunga dei dodici anni che ho dovuto aspettare per rivedere i Built to Spill.

Alla fine del set degli Oruã, il locale è un po’ più pieno ma ancora lontano dalle aspettative: perché? …e la risposta è: c’è ancora un’altra band!!!

Un po’ spaventata dal pensiero di un’altra infinita ora di attesa, mi appoggio alla transenna senza alcuna aspettativa.

Il secondo gruppo della serata sono gli Slam Dunk dal Canada, un quartetto pazzo e felice alla loro ultima data del tour. Il loro rock è allegro e coinvolgente, il loro atteggiamento sul palco un uragano di energia: salti, scherzi e confusione sono il perfetto intrattenimento per tenere il pubblico sveglio e permettere alle ultime persone di riempire il locale.

Finito di portar via dal palco le loro chitarre, non resta molto da sistemare prima dell’arrivo del nome principale della serata, in quanto i tre gruppi condividono la stessa batteria, qualche amplificatore sul fondo della scena e… fondamentalmente è tutto lì: semplice, aperto, essenziale, un allestimento così tipicamente Built to Spill.

Doug Martsch entra come se fosse solo un altro tecnico del suono, portando in spalla il suo zainetto come al solito: si prepara la pedaliera, sistema non so cosa sopra ad una cassa di fianco al microfono e non appena gli altri tre membri del gruppo entrano in scena, inizia. Non una parola, ma You Were Right, l’ottava traccia dell’album che siamo qui ad ascoltare.

È una scelta interessante, quella di suonare ogni sera la tracklist dell’album mischiata: la maggior parte dei gruppi, quando suonano un qualche anniversario di disco, suonano il disco dall’inizio alla fine. Quanta originalità. Nonostante possa capire che quello sia ciò che il pubblico si aspetta, è anche vero che ascoltare canzoni che conosciamo bene in un ordine diverso può far emergere qualcosa di nuovo, delle sfumature che magari non avremmo colto altrimenti, e questa è la magia e l’artigianalità di uno spettacolo dal vivo.

Non ci sono fronzoli sul palco, le luci sono sapientemente bilanciate da permettere al pubblico di vedere i musicisti sul palco, ma allo stesso tempo abbastanza basse da dare un senso di intimità. Le canzoni scorrono una dopo l’altra senza sforzo: Time Trap arriva e se ne va, io sono completamente persa negli assoli dilatati delle chitarre; The Plan, ricordi di una vita passata che riaffiorano alla mente.

Sidewalk, una corda della chitarra di Doug si rompe e di fronte al locale pieno, sul palco, c’è l’impersonificazione della parola umiltà: un uomo e la sua sola chitarra, niente costosi backup, niente aiutanti frenetici che arrivano con una chitarra fresca perché lo spettacolo deve continuare, no. Il gruppo continua a suonare, ma senza entrare in loop, improvvisando assoli come se fossero sempre stati lì, parte della canzone, e nel frattempo la corda viene cambiata in un momento di vera autenticità.

Il set principale si chiude con Broken Chairs, durante la quale non posso fare a meno di annotarmi il seguente pensiero mentre sono al contempo sollevata ed intimorita dall’assolo di chitarra: “questi assoli sono tra le più raffinate architetture musicali, costruiti con precisione per essere snelli e solidi come gli archi in una cattedrale gotica: puliti, immensi e forti abbastanza da sostenere il peso di un cuore pieno di emozioni”.

La band lascia il palco ma sappiamo tutti che torneranno, perché manca una canzone dalla scaletta suonata finora, ed è probabilmente la perla dell’album: Carry the Zero.

Non è ancora un vero e proprio commiato, perciò prima di arrivare alla conclusione del concerto siamo coccolati con una manciata di canzoni che coprono l’intera produzione del gruppo, e poi una cover, e poi un’invasione di palco da parte dei gruppi di apertura e poi, finalmente, con luci soffuse e un vago senso di malinconia, arriviamo a quello zero riportato che cambia ogni cosa.

Sono ben consapevole che questi sono gli ultimi minuti di un’ora e mezza deliziosa e sulle parole d’addio della canzone un accenno di tristezza s’insinua in me — fortunatamente, quei due pagliacci sgangherati dei frontmen degli Slam Dunk tornano sul palco di nuovo, trasformando questo intimo arrivederci in una festa, mentre un timido sorriso si fa largo sulla faccia di Dough Martsch.

 

Francesca Garattoni
Foto per gentile concessione di: Steffen Jørgensen

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