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Nick Cave and the Bad Seeds “Ghosteen” (Ghosteen/Bad Seed Ltd., 2019)

Nick Cave and the Bad Seeds “Ghosteen” (Ghosteen/Bad Seed Ltd., 2019)

| Francesca Garattoni

Se il termine resilienza è uno dei più abusati nel linguaggio corrente, e spesso anche nella narrativa afferente al rock, mai è stato più calzante, per contro, nel caso di Nick Cave.

L’eterno Nick Cave del dolore di vivere, della lotta alle dipendenze, il Nick Cave che suo malgrado pochi anni fa ha incontrato il vero dolore e più terribile, lancinante ed irrimediabile come quello della perdita di un figlio, era riuscito a tradurre la disperazione nel capolavoro precedente, Skeleton Tree.

E se le tracce di Skeleton Tree, già comunque scritte al momento della morte del figlio (precipitato da una scogliera di Brighton nel 2015 all’età di quindici anni) una volta riadattate sono state il mesto e silenzioso grido di dolore (ossimoro voluto) a seguito di quella sconvolgente perdita, Ghosteen pare essere l’elaborazione di quel lutto. Talmente aulica e magnificente, l’ultimo lavoro del poeta australiano-britannico d’adozione, diventa difficile anche da descrivere e recensire, perché tocca corde, nodi emotivi più o meno irrisolti che tutti abbiamo.

Lo stesso titolo, Ghosteen, allude neanche tanto velatamente ad un giovane uomo che si è fatto fantasma.

Alla vigilia dell’uscita del disco, Nick Cave ha descritto questo lavoro come un punto di arrivo nella propria maturità artistica: “Il primo album sono i bambini, il secondo i genitori. Ghosteen è uno spirito migrante”. 

Sembra esserci un filo conduttore tra le atmosfere di Skeleton Tree e Ghosteen, con quei pezzi con pochissima batteria ed atmosfere evanescenti, quasi lunari, ma questo album riesce ad essere, comunque — e qui sta l’incredibile abilità di Nick Cave — un’ulteriore novità.

Apre Spinning Song, per poi virare su una meravigliosa Bright Horses, che richiama Mermaids di Push the Sky Away, passando, tra le altre, dalle ipnotiche Leviathan e Ghosteen, fino all’ultima traccia, Hollywood: più di quattordici minuti di grido disperato ma sommesso, in cui si racconta, come in una novella straziante, come se si fosse davanti ad un camino, la perdita di un figlio invocando talvolta la propria — “I’m waiting for my time to come”, con il basso che, nel sottolineare la cupezza dell’atmosfera, diventa quasi marziale. In questo lavoro Nick osa, anche vocalmente, spingendosi su falsetti piuttosto inediti (ma non per questo meno riusciti) e il violino di Warren Ellis cede talvolta il proprio ruolo usuale al pianoforte e tastiere.

Nick Cave non è un artista facile e meno che mai lo è questo lavoro, ma è l’artista che riesce a toccare le corde più profonde, qualora un animo sia predisposto all’ascolto.

La sensazione è simile a quella che si prova ad un suo live, pur senza l’impeto dei live degli ultimi anni, dove il contatto con il pubblico è voluto, cercato, fisico, necessario. Durante queste messe in cui Cave assume il ruolo di ieratico celebrante in chiave dark, spesso gruppi di fan vengono invitati sul palco ed abbracciati, persi per mano, toccati un po’ come chi, dopo avere affrontato la più tremenda delle perdite, deve sincerarsi di avere sempre, così fisicamente presente, chi è in grado di raccogliere quel dolore così meravigliosamente sublimato. Speriamo succeda molto presto, perché assistere ad un live di Nick Cave è una esperienza quasi mistica. E noi no, non ti lasciamo, Mr. Cave.

The King is back.

 

Nick Cave and the Bad Seeds

Ghosteen

Ghosteen/Bad Seed Ltd., 2019

 

Katia Goldoni