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Allusinlove: fate sentire la vostra voce, senza paura

Allusinlove: fate sentire la vostra voce, senza paura

| Francesca Garattoni

Cambiare è sempre una scelta coraggiosa. Dopo l’esperienza come Allusondrugs e centinaia di concerti, la giovane rock band di Leeds ha deciso di spiccare il volo con nuove ali, un nuovo – vero e proprio – LP It’s okay to talk e un nuovo nome: Allusinlove. Ci hanno raccontato le tappe del loro percorso musicale, tra tematiche profondamente attuali, i punti di riferimento da cui traggono ispirazione e il ricordo dei live italiani.

 

Vi sentite una nuova band ora che avete cambiato nome? Sono mutate alcune dinamiche all’interno del gruppo?

A dire la verità, cambiare nome è la conseguenza di un lungo processo. Volevamo farlo da un paio di anni ma non trovavamo mail il momento giusto. Avevamo usato l’espressione Allusinlove molte volte sia per firmarci sui social media sia per descrivere la comunità di persone attorno alla band. Abbiamo avuto finalmente l’occasione perfetta per rinascere come farfalle musicali quali siamo, con tanto nuovo materiale, sotto un nuovo nome e un messaggio più positivo. Siamo sempre la stessa band ma maturata. Mi chiedo cosa ci sia dopo lo stadio da farfalla…

 

It’s okay to talk è il vostro primo album vero e proprio. Raccontateci qualcosa su come è nato, come sono state scritte e registrate le canzoni…

Siamo incredibilmente entusiasti di aver creato qualcosa che delinea quanto accaduto in questi sette anni come band. Non abbiamo voluto pubblicare un vero e proprio album fino a quando non ci siamo sentiti pronti. Ora sentiamo che le canzoni sono pronte. Quindi, questa è l’occasione perfetta per dare una reale dimostrazione alle persone di quello che siamo in grado di fare e a chi era già nostro fan quanto siamo cresciuti e maturati negli anni. I brani sono stati scritti in tutte le modalità possibili e immaginabili, da una linea di chitarra proveniente dal retro di un van freddo e bagnato al sedersi con un sacco di frammenti di melodie e metterle insieme come un puzzle. Non c’è un modo giusto o sbagliato di fare musica e l’ispirazione può arrivare da ogni direzione…quindi credo sia più una questione di catturare questi momenti. Per quanto riguarda la registrazione, siamo stati fortunati di poter confrontarci con persone con cui sognavamo di lavorare un giorno. Essere nella stessa sala di Catherine Marks, Alan Moulder e il loro team di fantastici ingegneri che hanno contribuito a parte fondamentale del nostro album, talvolta letteralmente suonando o programmando sequenze è stato un esperimento meraviglioso. Noi siamo sempre rimasti il nucleo della registrazione, avendo inciso live la struttura delle canzoni, ma sulle rifiniture abbiamo contribuito tutti. Una modalità di lavoro davvero illuminante e, naturalmente, l’apprezzamento del team verso ogni canzone è stato motore di incoraggiamento e soddisfazione.

 

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Perchè avete scelto il titolo It’s okay to talk? Che messaggio vuole veicolare?

Noi, come società, abbiamo solamente iniziato a capire quanto sia importante la nostra salute mentale. Questo argomento è ancora circondato da tabù ed è davvero ingiusto che le persone interessate sentano di essere trattate diversamente qualora decidessero di parlarne con amici e familiari. Vogliamo diffondere il messaggio che ci si può sentire a proprio agio e condividere un certo tipo di sensazioni e preoccupazioni. Questo non solo può aiutare ma può fare la differenza tra la vita e la morte per molti. Se possiamo sottolineare l’importanza di tutto questo e dare in nostro contributo, è solamente positivo.

 

The deepest è la traccia che chiude l’album. Quando l’ho ascoltata, mi ha colpito molto. Pensate che la musica possa aiutare a superare i momenti più bui?

Assolutamente. Talvolta una canzone può essere qualcosa in cui identificarsi. Ascoltare qualcun altro che si esprime attraverso emozioni simili a quelle che stai provando tu può essere di grande conforto. È una sorta di terapia per molte persone, sia per chi scrive che per chi ascolta.

 

Le vostre canzoni sono un misto di sound differenti, dalle chitarre distorte a elementi shoegaze. Quali artisti o band vi hanno influenzato maggiormente?

Abbiamo un ampissimo raggio di influenze essendo la band composta da quattro persone. C’è sempre un po’ del gusto di ognuno di noi in quello che creiamo. Abbiamo qualche gruppo a cui ci ispiriamo tutti: Deftones, Mew, Yourcodenameis:milo solo per citare i primi che mi vengono in mente. Poi ci piacciono dai Tycho agli Enter Shikari, dai Simply Red a Django Reinhardt ai Pearl Jam…e tutto quello che c’è in mezzo.

 

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Come è stata la vostra prima esperienza in tour in Italia ed essere il gruppo di apertura per una band come gli Skunk Anansie? Che ne pensate del pubblico italiano e quali erano le vostre aspettative? Sono state confermate?

È stata un’esperienza unica. Non così spesso si ha la possibilità di avere di fronte una folla così, in una nazione in cui non hai mai suonato prima e dare tutto te stesso, e tornare a casa con un bagaglio di emozioni del genere è incredibile. Abbiamo avuto la fortuna di visitare molti luoghi incredibili in Italia e conoscere persone fantastiche. Non potevamo chiedere di condividere questa esperienza con una band o una crew migliore. Ci hanno fatto sentire i benvenuti, ci hanno supportato, fatto ridere e ci hanno fatto sentire sempre parte della famiglia. Non sapevamo che cosa aspettarci dal pubblico italiano ma è stato semplicemente fantastico: tutti ballavano, cantavano, sembravano divertirsi insomma. Li ringraziamo profondamente per averci dimostrato tutto questo amore.

 

Una curiosità… se aveste la possibilità di tornare indietro nel tempo, in quale periodo storico vorreste vivere, in termini musicali?

Personalmente, vorrei tornare ai primi anni ’80. Comprerei un sacco di tute di tutti i colori e suonerei solo funk, ballando a tempo con la mia band. È un periodo strano ma penso che sarei perfettamente a mio agio.

 

Laura Faccenda