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L’impulso dei Diraq

L’impulso dei Diraq

| Francesca Garattoni

I Diraq nascono nel 2009 e da quell’anno non hanno mai smesso di fare rock. 

“Il nome è un homage alla figura singolare di Paul Dirac, al romanticismo di alcune sue teorie, al suo essere misterioso e notturno. All’epoca eravamo ragazzacci di periferia che usavano abitare umidi scantinati, avevamo vent’anni o poco più e spesso suonavamo la domenica pomeriggio in un’angusta sala prove in località Palazzo Mancinelli (Gualdo Tadino – Perugia), fra una jam e l’altra ci capitava di andare a far visita a un anziano che aveva la cantina lì vicino, ci offriva sempre il suo vino artigianale nell’unico bicchiere che aveva per gli ospiti, dal quale bevevamo a turno quella bevanda agricola, era tipo un patto di sangue.”

Il 23 ottobre esce il vostro nuovo LP Outset per Jap Records. Da quanto tempo è in lavorazione?

Abbiamo iniziato a scrivere l’album il 10 Dicembre 2017, quel giorno eravamo a Modigliana, a casa di Antonio, quello che sarebbe stato poi il nostro produttore artistico. È stato un incontro gradevole, che ci ha motivato e messo di buon umore. Durante il viaggio notturno per tornare in Umbria eravamo tutti svegli, ma nessuno parlava, stavamo già iniziando a scrivere Outset.

Potete descriverci ogni singolo pezzo di Outset con un aggettivo? 

  • With me – fangosa
  • Make up – godereccia
  • Sunday bending – distesa
  • Shelter – sexy
  • Turning days – speranzosa
  • Naked – arrogante
  • Show your blood – scarna
  • Desert – evocativa
  • Mauer Mauler – minacciosa
  • Pray – sciamanica
  • Inglorious – bollente

Come nascono i vostri pezzi? C’è un particolare processo creativo che vi accompagna? 

Siamo a tutti gli effetti un gruppo rock, ma le canzoni nascono da un’urgenza estetica abbastanza assodata, la volontà di evitare i cliché di genere, favorendo l’apertura verso mondi sonori apparentemente lontani dal nostro, linguaggi che usiamo con la giusta dose di inconsapevolezza, ma che si spera diano un’impressione diversa al suonare musica rock, una freschezza nuova alle canzoni.

C’è un motivo preciso per il quale avete scelto la lingua inglese per esprimervi?

La nostra ambizione musicale è quella di creare musica che possa interfacciarsi con dignità a livello internazionale: c’è da dire che certi linguaggi che inizialmente erano nati in delle geografie particolari sono diventati di uso comune più o meno ovunque, si pensi al blues o al rap, musiche importate e inglobate dentro altre tradizioni. Cerchiamo di avere questo tipo di attitudine e confidiamo sul fatto che oggi, essere una band italiana che canta in inglese, non sia un freno ma una suggestione.

Qual è stato il brano più complesso da creare? 

Turning Days, senza ombra di dubbio: è un pezzo che va sensibilmente fuori da quello che è il nostro seminato, volevamo avventurarci in territori più leggeri e melodici, ma il risultato non ci piaceva e si era addirittura deciso di scartare il pezzo per lavorare su altre cose. Una sera eravamo con JM e abbiamo avuto la fantasia di suonare Turning Days con lui, è stata una nuova epifania, la canzone com’era da principio è diventata qualcos’altro, ma era quello che cercavamo.

Qual è la canzone alla quale siete più affezionati?

Questa è una domanda molto soggettiva e ognuno di noi risponderebbe in maniera differente, ma insieme ci sentiamo di premiare Turning Days, sia per quanto detto sopra, ma anche perché questo pezzo ci ha riavvicinato ai ragazzi di Jap Records, con i quali c’è stima e amicizia da sempre, ma non c’è stata mai vera collaborazione come in questo momento. Tutto è questo è una fortuna, perché stiamo lavorando con persone che hanno abbastanza chiaro il nostro percorso ed hanno a cuore la nostra musica.

 

Diraq 1 High

 

Il vostro album è stato registrato in presa diretta. Cosa ha voluto e vuol dire per voi utilizzare questo metodo di registrazione?

L’Amor mio non muore è uno studio dove ci siamo trovati alla grande, registrare su nastro in presa diretta è nel nostro DNA, ci piace stare nella stessa stanza e suonare insieme, registrare all’unisono. Lo abbiamo fatto anche in altre occasioni, non siamo di quelli che riprendono uno strumento alla volta, e nel 2019 crediamo ancora che questa sia la modalità migliore perché si crei la magia.

Com’è stato lavorare con Antonio Gramentieri? 

Fondamentale. Lavorare a certi livelli, con professionisti così bravi ti fa crescere, e con lui ci sono stati molti momenti di condivisione, ascolto e rispetto dei ruoli, cose che poi portano ogni canzone ad avere un proprio carattere, oltre ad aver dato a noi una visione più a fuoco di quello che siamo. 

Affidare la propria musica a una persona esterna comporta abbassare le proprie difese e mettersi in ascolto, bisogna essere predisposti, e trovare il produttore giusto. Antonio per noi lo è stato.

Cosa significa per voi questo album?

Dietro al gesto di pubblicare un lavoro discografico di questo tipo ci sono diversi significati: avere la possibilità di scrivere la propria musica con persone a cui vuoi bene, registrarla insieme, impegnarsi davvero su qualcosa, investire del denaro, spingere anche quando tutto intorno sembra volerti chiedere con preoccupazione se ti conviene farlo. Outset è considerare ogni giorno come un nuovo inizio, con nuove possibilità, nuove fortune o nuove sfighe che siano.

Ci raccontate un aneddoto legato a Outset?

Antonio, nel tempo ha ospitato a casa sua grandi personaggi della musica, tra i quali di certo spicca per fama Sir John Paul Jones, proprio lui, il bassista dei Led Zeppelin e di altre cose mitiche. Avendo anche noi soggiornato a casa sua per qualche giorno ci approcciavamo ad ogni oggetto come fosse un feticcio sacro, potenzialmente usato o anche solo sfiorato dal grande artista, qualsiasi cosa, il divano, i soprammobili, i libri, il water… ma lo facevamo così, per giocare, in realtà atteggiamenti di eccessivo divismo non ci appartengono.

È presto per parlare di progetti futuri?

Assolutamente, i progetti futuri per questo disco sono di portarlo live in maniera consistente per diverso tempo. Stare su un palco è la sublimazione finale, l’omega di tutto questo lavoro, ci piace suonare difronte a un pubblico che a malapena sa chi sei, ma che ascolta e assiste al rito del “qui e ora”. Speriamo di avere ancora la possibilità di fare belle cose.

 

Cecilia Guerra