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Cogito Ergo Amo: una rivoluzione d’amore tra synth e basso

Classic stay classy: di questi tempi affidarsi al vintage è praticamente una sicurezza. E allora J Milli, producer di Cogito, disegna un pattern che profuma di Stranger Things e Stand By Me ma che racchiude, nella propria essenza, una struttura digitale in salsa di synth e loop. Il cantante, dal lato suo, strozza il dondolo del basso e le sortite digitali con una voce graffiata e disincantata, una voce ferita e per questo ancora più viva. Risultato? Una bella bomba. O meglio, una Molotov. Come in una Primavera di Praga amorosa i due lagunari ricamano su una tela di vissuto giovanile situazioni che sono “un po’ come quando ti sbucci un ginocchio, se lasci che la ferita si rimargini e faccia la crosticina poi passa anche se lascia il segno. Però se ti gratti sanguina.”.

Uscito l’11 di Dicembre scorso a corredo del recente EP Come va?, il pezzo di Cogito si porta intrinseco il fascino dei canali veneziani, sua città d’origine, “vicina solo due fermate ma a volte così lontana”; si porta dietro quella confusione giovanile che più o meno tutti abbiamo provato almeno una volta, quell’essere spaesati con il mondo attorno che corre perché si ha una persona ferma in testa. Riprendendo stilemi compositivi e canori vicini a Gazzelle, Cogito racconta vividamente situazioni pervase da un’emotività spesso latente, sensazioni racchiuse e pronte ad esplodere, appunto, come una bomba carta. Con una scrittura interessante e un timbro profondo, il pezzo si eleva immediatamente a colonna sonora di stati d’animo sporcati di ferite fresche ma anche macchiati irrimediabilmente di nostalgia, un pezzo che va assaporato lentamente fino a che viene capito e fatto proprio, personale: e se questo avvenisse, sono sicuro che il ritornello, “con i miei perchè puoi fare/una molotov e buttarmela addosso/cosi esplodo per te/cosi esplodi anche te/cosi siamo io e te” sarà urlato nell’abitacolo della vostra macchina.

Ma veniamo a qualche domanda più specifica.

 

Mi soffermo subito sull’aspetto melodico di questo tuo nuovo pezzo: apertura da ballatona rock direttamente dagli anni ’80, poi attacca il synth. E i giri di basso in sottofondo sono ipnotici: come avete partorito tu e J Milli questa figata?

“Molto interessante come domanda. Questa canzone, come spesso capita, è stata partorita da J Milli a livello di produzione musicale; poi; una volta nata; io la coccolo. Abbiamo scelto una linea guida per quanto riguarda lo stile che volevamo per questo brano, quello appunto della ballatona rock dagli ‘80, proprio anche come stesura del testo, ma poi facciamo fatica a stare distanti dai synth. Questo anche perché inconsciamente quando produciamo pensiamo sempre alla dimensione live.
Per quanto riguarda i giri di basso si sente che arrivano proprio da quella dimensione reggae/funk che accompagna J Milli nel suo progetto musicale laterale al nostro. In più il ragazzo che ha suonato per noi in fase di registrazione, Timo Orlandi, ha toccato quelle corde del basso come se ci stesse facendo l’amore. Siamo stati davvero contenti di come sia usciti finito il brano.”

 

Lo stile ibrido di Molotov è un aspetto che mi incuriosisce molto: è il risultato di un’osmosi dei vostri gusti musicali o siete allineati come riferimenti?

“Io e J Milli abbiamo sia gusti in comune sia differenti. La cosa che però ci accomuna è che ci piace proprio la musica! Se gli faccio sentire un brano che mi piace, che magari non avrebbe mai ascoltato, non parte prevenuto ma anzi è subito pronto ad ascoltare ed apprezzare e così vale anche per me se è lui a farmi scoprire qualcosa.
Direi però che i nostri gusti musicali personali non sono proprio allineati nel nostro cervello. Io passo da ascoltare i NOFX (punk) a Harry Styles (pop)  e lui idem passa dai Twinkle Brothers (reggae) alle trappate americane fatte bene.”

 

A proposito di riferimenti, questa volta canori: l’indolenza della tua voce mi ricorda Gazzelle, il ritmo gli Psicologi.

“Apprezzo un sacco questi riferimenti! Per il brano ho scelto proprio uno stile alla Gazzelle come reference, ovviamente rimanendo me stesso al 100%. Psicologi credo possano essere un riferimento adeguato perché entrambi possiamo essere posizionati in quel mondo detto ‘’indie’’, anche se oggi non vuol dire!
Ascoltiamo parecchio hip-hop, se guardo il mio Instagram seguo moltissimi rapper e in macchina è più facile che faccia partire Marra piuttosto che Calcutta, ma poi quando scrivo spesso sto male e se sto bene non riesco ad affrontare tematiche street come quelle dei rapper perchè non mi appartengono davvero molto.
Sono un mix di tante cose, può sembrare un bel casino, ma io sono contento così.”

 

Dopo averti chiesto dell’aspetto melodico e dell’aspetto canoro, ora ti chiedo della scrittura: trovo molto azzeccato il senso metaforico che si sviluppa nel testo. Al pari dell’aspetto musicale, quello della scrittura è un mondo colmo di creatività: come lo coltivi?

“Credo che il modo migliore per coltivare questo aspetto sia quello di essere sé stessi. Quando uno scrittore scrive sta raccontando qualcosa quindi il migliore allenamento è vivere le cose, essere profondamente sé stessi e imparare a dirle.
Cerco di scrivere molto in maniera da poter dire sempre meglio le cose che penso e vivo, sto anche trovando la mia dimensione stilistica cercando di non farmi troppo influenzare da quello che è il modo di scrivere di altri artisti.
Leggo, anche se è difficile. Non so quanto possa essere un allenamento. Per il cervello sicuramente e anche per la creatività, ma come se sai scrivere non diventi automaticamente un poeta allo stesso modo se divori libri non diventi uno scrittore.
Scrivere, scrivere e ancora scrivere è secondo me l’allenamento migliore.”

 

Ok, pausa sigaretta e domanda personale. L’oggetto della canzone: ferita fresca?

“Io preferisco il caffè (ahah).
L’oggetto della canzone è una ferita che non si sa cucire. E’ un po’ come quando ti sbucci un ginocchio, se lasci che la ferita si rimargini e faccia la crosticina poi passa anche se lascia il segno. Però se ti gratti sanguina.
Diciamo che ho ancora un po’ di prurito che non va via.
L’amore è anche questo. Viva l’amore.”

 

Un particolare molto bello della tua canzone è la sua armonia, la sua fluidità: il flow cavalca le note in maniera dolce, la voce accarezza il synth e si fa guidare dalle linee ritmiche: quanto lavoro c’è dietro all’unione dei due aspetti?

“È una domanda a cui non so rispondere sinceramente. Non so quanto lavoro veramente ci sia dietro. Quando scrivi e vai sempre di più davanti il mic inizi a sentire cos’è più giusto fare sulla base. C’è un equilibrio, ad esempio le ripetizioni sono una scelta ma poi alcune melodie vengono semplicemente chiudendo gli occhi.
Se non funziona J Milli mi bacchetta e quindi iniziamo a fare versi sulla base e sistemiamo sopra le parole.
Spesso però capiamo che la melodia è quella giusta quando riascoltandola iniziamo a ridere.
Quando chiudi un bel brano lo senti, che sia triste o super happy, comunque tu sei felice.”

 

Hai racchiuso secondo me benissimo una situazione sentimentale che è capitata più o meno a tutte le persone: questa canzone mi riporta a situazioni e posti vissuti. Se ti chiedessi da quale città arriva questa tua canzone?

“Che bomba di domanda!
Sarò scontato ma così pensandoci dalla mia camera ti direi Venezia.
Proveniamo dalla provincia di Venezia, due fermate di treno dall’isola. Ti dico Venezia perchè è una città così unica e bella che per quanto sia a noi vicina a volte è tremendamente lontana. Quando sai di avere qualcosa tra le mani lo dai sempre per scontato, succede così anche in amore. Venezia è unica, come una persona che ami ma se non la vai a trovare non la vivi.
Venezia perchè tra quelle calli son successe cose intime ma allo stesso tempo mi sono ubriacato con gli amici in piazza.
In più è una città piena di amore e di ragazzi da tutte le parti del mondo ma allo stesso è davvero fragile tra quei canali che spesso la fanno piangere.
Venezia poi è dove ho assistito alle prime manifestazioni ai tempi del liceo.
Se Molotov è una rivoluzione d’amore Venezia è la città perfetta.”

 

Trovo davvero interessante il tessuto musicale che viene a crearsi. Hai saputo creare (o ricreare) delle situazioni: ipotizziamo allora un’atmosfera cinematografica, immagini e musica fuoricampo. Un piano sequenza della madonna, insomma. Come comporresti questa ipotetica scena con la tua canzone in sottofondo?

“Una manifestazione. Due ragazzi che si amano tenendosi per mano. Primi piani sui loro volti e sfocato dietro il caos di una manifestazione, fuoco, digos e scoppi.
Ad certo un punto scende una lacrima sul loro viso, le mani si lasciano e guardandosi si trovano sempre più distanti. Portati via dal mondo circostante, con cattiveria ma in slow motion. Dandosi alla fine le spalle.
Alla fine una molotov nel cielo che infuocata esplode.
Non l’hanno voluto ma è la vita.”

 

Ultima domanda: canzone emotiva, ritornello spinto. Immaginati sul palco: alienazione con il pubblico con mani dietro alla schiena come Liam Gallagher o braccia aperte e abbraccio simbolico alla folla?

“Ho una canzone che reputo la sorella minore di questo brano e la canto a braccia aperte come se stessi abbracciando il pubblico.
Questa canzone è molto più intima e per questo cercherei di stare più vicino al pubblico sedendomi sul bordo del palco come se fossimo vicini a chiacchierare.
Ma alla fine… chiuderei gli occhi e lascerei andare le cose come decide il cuore. La musica è di tutti, questa è una storia che come hai detto han vissuto tutti, speriamo che questa canzone diventi di tutti.
La canteremo assieme.
Grazie da parte mia e di tutta la crew per queste domande davvero interessanti. E’ stato bello rispondere.
Grazie anche a chi avrà letto l’intervista fino a qui.
Ci vediamo presto, un abbraccione!”

 

Alessandro Tarasco

cogito, futura 1993, intervista