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ReCover #4 – Led Zeppelin “Led Zeppelin”

• Tra archetipi e furti nell’epoca della riproducibilità tecnica •

 

“Mi ritrovo molto a trattenere il respiro”, dice George Hardie. “Ti chiedi perché sei così stanco alla fine di una giornata di disegno ed è perché quando ti concentri su come ottenere una linea perfetta, trattieni sempre il respiro.”

Purtroppo nella vicenda che lo lega ai Led Zeppelin Hardie dovette trattenere il respiro per motivi ben diversi.

Stimato illustratore e graphic designer, con una cinquantina di anni d’esperienza alle spalle, Hardie fa del suo metodo di lavoro una cifra stilistica: tramite composizioni pulite e linee perfette l’illustratore riesce ad andare diretto al fulcro della questione, con l’immediatezza comunicativa propria solo dei grandi professionisti.

Tutto rigorosamente realizzato con tecniche tradizionali, come un monaco Zen alla ricerca dell’enso perfetto.

Sulla sua lavagna luminosa sovrappone i vari disegni che ha creato per poi unirli in un unico disegno finale, un processo che va avanti finché non è soddisfatto del risultato, ripulito da ogni traccia di errore: un rituale che parte dal concetto per arrivare a comunicare l’essenziale.

Ma in che modo il percorso artistico di Hardie si lega a quello dei Led Zeppelin?

Era il 1969 quando l’illustratore venne contattato per occuparsi della cover del primo album della band emergente britannica, incarico che gli fruttò ben 60 sterline.

L’iconica copertina raffigura un fatto storico avvenuto nel 1937 in New Jersey, il cosiddetto “disastro di Hindenburg”: durante un volo il dirigibile Zeppelin prese fuoco e si distrusse nel giro di circa mezzo minuto, provocando la morte di 36 persone.

Fu un idea di Jimmy Page quella di usare l’immagine della tragedia come copertina del loro primo album, sfruttando l’impatto visivo che l’immagine del disastro rievocava ma usandone una sua reinterpretazione grafica. 

Un episodio drammatico, un album drammatico, una dichiarazione drammatica, disse Page.

Ma le prime proposte di Hardie vennero tutte scartate. 

Con un “no” secco Page aprì un libro e indicando una fotografia disse “ecco quello che voglio”: si trattava di una fotografia di Sam Shere che immortalava il dirigibile qualche secondo prima di esplodere.

Così l’illustratore si mise a lavoro e senza troppo entusiasmo riprodusse l’immagine con una tecnica mista, mezzatinta e rapidografo, riuscendo ad alterarla a sufficienza da non violare il copyright.

L’idea originale di Hardie venne usata comunque come logo sulla copertina posteriore dei primi due album, ma non riuscì mai ad andare fiero di quel lavoro creato senza una vera rielaborazione del concept.

Un concept che le parole dette da Page esprimevano alla perfezione: quella dei Led Zeppelin sarebbe dovuta essere una cover drammatica.

Venuta a conoscenza della storia dietro questa iconica copertina mi è stato immediato l’accostamento del simbolo della band alla settima carta dei Tarocchi, l’Arcano Maggiore Il Carro.

È infatti l’archetipo dell’equilibrio, che due forze opposte fra loro riescono a tenere in carreggiata nonostante le difficoltà incontrate sul loro percorso. 

E così fu per lungo tempo per la band, finché lo Zeppelin non si autodistrusse veramente, quasi come se quella prima cover fosse stato un triste presagio.

L’idea per l’artwork era così chiara per i Led Zeppelin da non ammettere alternativa, tanto che Hardie si ritrovò a copiare una fotografia.

Non è la prima volta nella storia dell’arte -nel suo senso più ampio- che ci troviamo di fronte ad un “furto”, tutt’altro ne è una componente fondamentale: ne sa qualcosa Molière, che si nutrì delle opere di Plauto, il padre della commedia latina. O ancora Collodi, che per il suo Pinocchio rubò parecchio dal primo romanzo della storia, Le metamorfosi di Apuleio.

Negli anni 60 Andy Warhol portò all’estremo il concetto di “riproducibilità tecnica nell’arte” teorizzato da Walter Benjamin, basandone la sua intera produzione artistica, rubando a piene mani dagli scaffali del supermercato e dalla cultura pop. E recentemente Cattelan, in collaborazione con il direttore creativo di Gucci Alessandro Michele, ha addirittura rubato il titolo e il manifesto della celebre performance di Marina Abramovich The Artist is Present, cosa che ha suscitato la solita irritazione generale quando si parla dell’artista.

L’ irritazione è un sentimento diffuso quando si associa l’arte al copiare: come se chi crea dovesse tirar fuori le idee dal suo personalissimo è originalissimo iperuranio, come se si ignorasse il fatto che senza l’Arte Giapponese non ci sarebbe stato Van Gogh, senza Manet nessun Impressionismo, senza Cézanne nessun object trouvé di Duchamp, per cui niente ready made di Warhol, e niente Cattelan.

Senza Steve Marriott forse la voce di Robert Plant non sarebbe esplosa, senza Muddy Waters il genio di Jimmy Page non si sarebbe potuto esprimere appieno, e senza la sua arroganza e determinazione la cover del primo album dei Led Zeppelin non avrebbe avuto lo stesso impatto. 

“I veri geni copiano” diceva Federico Fellini, e a questo punto immagino che si possa concordare con lui su tutta la linea. 

Ma quindi… questi Greta Van Fleet?

 

 

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Cinzia Moriana Veccia

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