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Tindersticks @ Philharmonie, Berlino (DE)

Tindersticks @ Philharmonie, Berlino (DE)

| Francesca Garattoni

Philaharmonie, Berlino (DE) // 04 Febbraio 2020

 

“Non ho mai pensato che nella vita, per procedere, bisognasse necessariamente andare in linea retta”.

La dice Marco Paolini, ne Il Milione. La faccio mia, per oggi, perchè seguire un’unica direzione, un filo (immaginario o meno), per raccontare cosa è stato il live dei Tindersticks alla Philharmonie Berlin, mi risulta davvero difficile. 

Ci sono diversi piani di lettura, diversi aspetti, alcuni più rilevanti di altri, diversi punti di vista, come se tenessi in mano un poliedro irregolare, un diamante, e ruotandolo nella mano ci guardassi attraverso da ogni faccia, ognuna diversa dall’altra.

Arrivo a Berlino il giorno precedente al concerto, in compagnia di una coppia di amici e della mia signora, e siamo tutti e quattro eccezionalmente, per la prima volta, senza prole (rimasta a testare i nonni sulla distanza delle 48 ore. Spoiler: prova brillantemente superata). Trascorriamo la giornata in giro per la città, tra l’East Side Gallery, il Memoriale per gli ebrei, il Museo Ebraico, combattendo contro un vento tagliente che non dà un attimo di tregua. Anzi, verso le 19, mentre a piedi risaliamo Postdamer Straße in direzione Philharmonie, si aggiungono delle fine gocce di pioggia fredda, a rendere il tutto più invernale e complicato.

Ad ogni modo guadagniamo l’ingresso e nemmeno troppo timorosi cominciamo a dare uno sguardo intorno. Il foyer è già piuttosto affollato e praticamente ogni persona sta sorseggiando del vino bianco da un piccolo calice o della classica birra, qualcuno addenta un Brezel. Butto una furtiva occhiata al listino prezzi e penso che tutto sommato l’acqua che ho nella mia bottiglietta non è poi male. 

Poco dopo le 19:30 viene aperta anche la sala concerti e impaziente raggiungo il mio posto. E la meraviglia. Davvero. Nelle settimane scorse avevo letto diversi articoli e spiegazioni circa l’architettura della Philharmonie, nella quale ogni singolo dettaglio, ogni particolare, ogni elemento risulta funzionale alla resa acustica dell’esecuzione. Dal legno degli schienali delle poltrone (kambala), alle 136 piramidi appese al soffitto che hanno lo scopo di assorbire i bassi, agli elementi sopra il palco che prevengono la dissipazione del suono e ad altre nozioni delle quali capisco poco ma che affascinano molto.

La sala si riempie piuttosto rapidamente e poco dopo le 20, abbassatesi le luci, i cinque Tindersticks, tutti vestiti di scuro, sulle note di A Street Walker’s Carol, raggiungono il palco.

I tre superstiti membri originali della band, Staples al centro, Neil Fraser alla chitarra a destra, David Boutler alle tastiere, xilofono (e piattini) a sinistra, Dan McKinna al basso e l’americano Earl Harvin (mio MVP) alla batteria e percussioni.

Prima piccola doverosa digressione: il mio primo contatto con i Tindersticks, inglesi, attivi dal 1991, risale ai primi anni 2000. Non ricordo di preciso l’anno, ma ero nel periodo in cui acquistavo dischi con una certa assiduità ed avevo l’usanza, insieme ad un paio di amici, di comprarne, di tanto in tanto, di artisti sconosciuti, fidandoci esclusivamente della copertina. La mia scelta quel dì, pescando dallo scaffale delle offerte, cadde su Can Our Love.., che ancora oggi rimane uno dei dischi con la copertina più brutta di tutti i tempi (a parer mio s’intende).

Fu amore, immediato e totalizzante. E duraturo, se a distanza di vent’anni sono disposto a farmi 1043 km (secondo Google Maps) per vederli dal vivo. Le atmosfere notturne, No Man In The World, la voce baritonale, nasale, di Stuart A. Staples. E soprattutto le copertine. Dio mio le copertine. Qualche settimana più tardi acquistai anche Curtains il loro terzo disco, l’omonimo debutto e l’omonimo secondo disco (già, il primo e il secondo album dei Tindersticks si intitolano entrambi Tindersticks). Questi quattro dischi (ma anche alcuni successivi) hanno una peculiarità: la bellezza delle loro musica è inversamente proporzionale alla bellezza della loro copertina. O direttamente proporzionale alla bruttezza. Insomma, per capirsi, sono dischi meravigliosi con un artwork alquanto discutibile. Ecco.

Si parte con Before You Close Your Eyes, con Stuart A. Staples, frontman e attore principale, ad ondeggiare dolcemente nel mezzo, prima di avvicinarsi al microfono per deliziare la platea adorante con la sua inconfondibile voce, e quel disperato, dimesso I never cry for our love/I never cry. 

Una delle prime sensazioni che provo, superato l’iniziale momento di sopraffazione emotiva e conseguente azzeramento delle facoltà cognitive, è la qualità dell’esecuzione. Voi direte “eh, grazie, sei solamente in una delle sale da concerto migliori al mondo!”; vero, però c’è dell’altro. C’è di più. E ne ho la riprova quando parte How He Entered, direttamente da The Waiting Room, un recitativo con una metrica non convenzionale, ovvero che fugge dal canonico 4/4. La narrazione di Staples poggia su una trama più scarna della versione su disco, che guadagna in espressività e funge da incontrovertibile banco di prova, senza appello, per la band, che ne esce in maniera sontuosa: di fronte ad un irreale devoto silenzio, su di un palco che non permette la minima sbavatura, che ti permette di riconoscere indistintamente un tocco di piattini (quelli da dita per intenderci) in mezzo a due chitarre, un basso, una batteria e il piano, non puoi fingere, non puoi nemmeno nasconderti, e la grandezza dell’esibizione dei Tindersticks risiede proprio (anche) lì, ovvero nella destrezza del gestire il piano ed il forte, di dilatare gli spazi e serrarli, di elevare il loro “pop notturno” a livelli d’eccellenza e raffinatezza (Willow, la conclusiva For The Beauty, tra le molte).

La scaletta, come logica vorrebbe, verte per quasi la metà sull’ultimo No Treasure But Hope, alla quale si alternano brani che coprono quasi totalmente la discografia della band. E faccio una seconda piccola digressione: delle mie ipotizziamo quindici canzoni preferite dei Tindersticks, se dovessi stilare un elenco, non ne è stata fatta nemmeno una; quindi esatto, niente Tiny Tears, Until The Morning Comes, We Are Dreamers, la già citata No Man In The World, Dying Slowly. Sì, hanno fatto A Night In, e Pinky In The Daylight, però che bello quando un artista non diventa vittima (o succube) del volere popolare, del bambino viziato, e anzi porta il pubblico fuori dalla cosiddetta comfort zone. È lì che la musica aggiunge valore, diventa educativa, diventa arricchente. È lì che si espandono gli orizzonti. 

È lì che voglio stare.

L’ha detto meglio di tutti Edward Morgan Forster: Spoon feeding in the long run teaches nothing but the length of the spoon.

Staples e soci si congedano con una magnifica A Night So Still, ennesimo suggello ad una vera e propria lectio magistralis musicale, misurata ma non pigra, elegante senza essere mai boriosa, alta ma mai altezzosa. Si alzano le luci e mi alzo in piedi assieme a tutto il resto del pubblico per tributare il giusto riconoscimento ad una band a cui devo molto e che stasera mi ha fatto sentire un privilegiato. 

 

Alberto Adustini