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Mese: Maggio 2020

Palaye Royale “The Bastards” (Sumerian Records, 2020)

L’essere umano adulto è il risultato di esperienze accumulate, ma sono i traumi, i momenti negativi che conducono la psiche a mettere in atto una serie di tecniche di protezione dell’Io per salvaguardare il bambino che c’è in noi.                                                                                                                        

Questi avvenimenti ci segnano in modo così profondo che la nostra psiche escogita sistemi per sopravvivere, e i più fortunati nascono con un talento particolare nel comunicare questo disagio: l’arte di esorcizzare il proprio dolore condividendolo.

È proprio questo bisogno che ha portato tre fratelli di Los Angeles, Remington Leith, Sebastian Danzig e Emerson Barrett (ovviamente cognomi d’arte, quello vero è Kropp) alla formazione di un gruppo nel 2008 con il nome di Kropp Circle, per poi cambiarlo nell’estate 2011 nel definitivo Palaye Royale (omaggio al luogo del primo incontro dei nonni).
Crescono influenzati dal rock, e dalle band alternative del momento. Uno stile malinconico, che spazia dall’emo punk e il rock classico, impreziosito dalla voce di Remington (che nel 2018 ha “prestato” la voce nelle parti cantate a Johnny Faust in American Satan, film diretto da Ash Avildsen).
Il primo singolo di debutto è datato 2012, ma la svolta arriva nel 2015 con la firma del contratto con la Sumerian Record e quindi un nuovo album (in cui compare Kellin Quinn degli Sleeping with Sirens).

Il 2018 vede l’uscita di un nuovo album, di un tour e della vincita come miglior artista rivoluzionario per il Rock Sound Awards.

L’anno seguente al gruppo si aggiunge Daniel Curcio, bassista. 

Quest’anno tornano con The Bastards, album anticipato dall’uscita del singolo Lonely, un sound rockeggiante contaminato dal ritmo R&B, una ballata sulla solitudine e la depressione, dove la voce suadente del cantante esplode poco prima del ritornello. 

Little Bastard, il primo brano, infarcita di malinconia e rock con un’ intro che ricorda vagamente Falling Down di XXXTentacion.

Sull’onda del hard rock si presenta Massacre, The New American Dream dal ritmo concitato, chitarre veloci e la voce di Remington che dimostra di saperci fare, diventando acida e corrosiva pur mantenendo una dolcezza intrinseca.

L’asticella del gradimento impenna in Anxiety, rock alternativo mischiato con elementi della musica elettronica, i 30 Second To Mars fusi con i My Chemical Romance. Passaggi rapidi da uno stile all’altro che culmina in un urlo devastante. Questo andamento rappresenta perfettamente la condizione di un portatore cronico di ansia, quando l’attacco è alle porte e puoi sentirlo scivolare sottopelle fino al punto massimo di resistenza per poi scoppiare in tutta la sua potenza repressa.

In Tonight Is The Night I Die, il quarto brano dell’album, è riconoscibile il tema di James Bond in un contesto ritmato che trasmette rabbia, dolore, dove il testo stesso della canzone assomiglia ad una lettera di addio, carica di disperazione e rassegnazione.

Il disagio del sentirsi incompresi, sfruttati a livello emotivo traspare in Fucking With My Head, la loro anima punk rock dilaga contagiando anche il pezzo seguente, Nervous Breakdown (brano adattissimo per il post quarantena). 

La ciliegina sulla torta, il pezzo più figo è la bonus track, Lord Of Lies, un vero delirio post punk, tra batterie incasinate, bassi impossessati, sirene come sottofondo e la voce di Remington che diventa demoniaca.

In questo nuovo album troviamo i vecchi traumi, dalla paura dell’abbandono alla depressione, passando per l’abuso di sostanze per arrivare a tendenze suicide, ma viste con l’occhio di chi è riuscito (almeno in parte) a sopravvivere. Di avere la libertà di non soccombere alle costrizioni della società.

C’è del talento, una buona coordinazione tra i vari strumenti. L’evoluzione si è compiuta attraverso la sperimentazione, il cambiamento. La crisalide si è schiusa, il loro vero essere si è liberato.                             

 

Palaye Royale

The Bastards

Sumerian Records

 

Marta Annesi

Il realismo positivo di Ghemon

È uno degli artisti più eclettici del panorama musicale italiano, in grado di unire il cantautorato al rap e al soul. A tre anni dall’uscita di Mezzanotte e con una partecipazione al Festival di Sanremo nel frattempo, Ghemon ha da poco pubblicato il suo ultimo lavoro, Scritto Nelle Stelle. 

Abbiamo fatto due chiacchiere al telefono per parlare dell’album, ma anche di concerti drive-in e stand-up comedy.

 

Ciao! Bentornato sul nostro magazine e grazie per averci concesso quest’intervista.

“Grazie a voi!”

 

Scritto nelle Stelle ha avuto un’uscita un po’ travagliata: prima il 20 marzo e poi il 24 aprile, sempre in periodo di lockdown. Com’è stato il lancio in questo momento così complicato?

“È stato particolare, sicuramente un lancio che non dimenticherò. Abbiamo preso la decisione di rimandare l’uscita del disco a inizio marzo, quando ancora il lockdown era parziale, ma già si sentivano umori piuttosto oscuri. Alla fine è uscito il 24 aprile, durante la fase discendente e quando si iniziava a percepire un po’ più di fiducia. Sono comunque fiero della scelta che abbiamo fatto, anche se va contro ogni logica commerciale, perché l’accoglienza è stata buona e ho ricevuto molti messaggi in cui le persone mi ringraziavano per averle aiutate con questo disco a trascorrere un po’ meglio la loro quarantena.” 

 

Si è parlato anche dell’ipotesi dei concerti stile drive-in per venire incontro al settore in crisi. Tu cosa ne pensi: meglio aspettare tempi migliori o provare a portare la musica in giro in questo modo?

“Penso che sia meglio aspettare. Non è per una questione di snobismo, ma perché è comunque difficile da organizzare: bisogna tenere conto degli spazi, della logistica e di eventuali assembramenti anche dentro le macchine. Però non credo che questa sia l’unica soluzione. Ad esempio, si è parlato di fare concerti sempre sullo stile drive-in, ma con le biciclette al posto delle macchine. Ad ogni modo, noi continuiamo a guardarci attorno e a cercare più alternative possibili.” 

 

Parlando del nuovo album, fin dalla citazione scritta sulla copertina si capisce che Scritto nelle Stelle è un album diverso, più sereno. Cos’è cambiato dal Ghemon di Mezzanotte?

“Sono io ad essere cambiato [ride]. Alla fine sono passati tre anni dall’uscita di Mezzanotte e per certe cose tre anni significano davvero un’era geologica. Sono cambiate le mie relazioni, il mio stato d’animo, il mio umore e ho fatto esperienze diverse, quindi avevo bisogno di raccontare questo posto nuovo in cui sono arrivato, di raccontare una sorta di nuova primavera, invece che rimanere ancorato alla nostalgia di una stagione passata.” 

 

I tuoi testi sono sempre molto sinceri. C’è uno sforzo dietro o ti viene naturale?

“È una cosa naturale. O meglio, all’inizio c’era sicuramente uno sforzo maggiore dietro, ma con la forza dell’abitudine questa sincerità è diventata la normalità. Volevo abbandonare la divisa da supereroe per cercare di cantare canzoni che dicessero la verità e mi rendo conto che è stata una scelta che ha dato i suoi frutti.” 

 

C’è una canzone di Scritto nelle Stelle a cui ti senti particolarmente legato?

“Non è una domanda facile. Sono molto legato a tutto il disco perché dentro c’è tutta una serie di cose che volevo fare e dire e che non ero sicuro se dire proprio in questo modo o meno. Ci sono soprattutto riflessioni che prima non avevo mai avuto modo di esprimere, come in In Un Certo Qual Modo oppure in Un’Anima, che tra l’altro è la mia prima ballad con solo voce e pianoforte. In generale in quest’album c’è un realismo positivo in cui mi rispecchio molto, quindi, nonostante le novità, non direi che si è trattato un esperimento, anzi mi ci rivedo parecchio. Però non c’è una canzone a cui sono più legato di altre, voglio bene a tutte allo stesso modo.” 

 

Sui vari social, soprattutto su Twitter ma anche nei video promozionali su Instagram, sembra che tu abbia sempre la battuta pronta. Qual è il tuo rapporto con l’ironia?

“Credo faccia parte del mio DNA familiare, da parte di mio nonno e di mio padre. Mi piace quel tipo di ironia fatto di battute ghiacciate ma dette con la faccia da poker, come se non stessi davvero scherzando, ed è una bella sensazione quando gli altri ridono per una battuta che ho fatto. Sono un fan della stand-up comedy e qualche volta ho anche provato ad esibirmi. Nelle canzoni tendo a non essere ironico, quindi questo è un modo per esprimere un qualcosa, un altro lato che di solito non traspare quando canto.” 

 

Francesca Di Salvatore

PearlJamOnline Livestream Fest con Brian Fallon, Joseph Arthur e tanti altri

Brian Fallon, Joseph Arthur, Liam Finn, Jim Ward e Jonah Matranga sono gli artisti che si esibiranno sul palco (virtuale) del primo festival.

 

Il momento è difficile per tutti, in Italia come negli Stati Uniti così come in tutto il mondo. Ciò nonostante la voglia di vedere i nostri artisti preferiti dal vivo non ci è mai passata.

Nasce da questi presupposti il PearlJamOnline Livestream Fest 2020, primo festival di PJ Online (virtuale) dedicato ad alcuni dei loro musicisti preferiti.

PearlJamOnline Livestream Fest 2020 sarà trasmesso in diretta sul canale Instagram a partire dalle 19:00 di sabato 16 maggio 2020. Ogni musicista sarà intervistato da Luca di PearlJamOnline e suonerà un paio di pezzi dal vivo.

Qui sotto la lista degli ospiti con l’orario d’inizio di ogni singola esibizione (per l’orario italiano, fare riferimento al fuso orario CET).

Ci vediamo sabato!

 

link alla diretta QUI

 

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DA LONTANO PER VEDERE MEGLIO: IL NUOVO SINGOLO DI AN EARLY BIRD

ESCE OGGI 15 MAGGIO

FROM AFAR

BRANO CHE APRE A SONORITÀ INEDITE

TRA DREAM FOLK, GLITCH MUSIC E ALT. POP

 

puoi ascoltarlo QUI

Un 2020 di nuove uscite per An Early Bird. Dopo il featuring con Old Fashioned Lover Boy in Talk To Strangers e l’apripista One Kiss Broke The Promise, primo estratto dall’imminente disco, esce il 15 maggio il nuovo singolo From Afar.

Il brano, distribuito da Artist First ed edito dai tedeschi Edition Mightytunes/Budde Music, racconta di una storia (in)finita che continua silenziosamente da lontano, in attesa di ritrovarsi sul ring di uno scontro odio-amore eterno.

From Afar, prodotta presso Il Faro Studio daLucantonio Fusaro, Claudio Piperissa e Luca Ferrari, conferma la sensibilità folk contemporanea di An Early Bird virando però verso sonorità pop contaminate: musicalmente suona come se i Tunng rivisitassero The Paper Kites, tra fingerstyle, sintetizzatori e pulsazioni elettroniche.

Quello che racconto in questa canzone penso sia qualcosa che tutti prima o poi si sono ritrovati a dover affrontare nel corso delle loro vite.

Di recente mi sono imbattuto in una poesia di Charles Bukowski che non conoscevoEd io ti penso ma non ti cerco – bellissima,

Nel leggerla ho avuto i brividi perché questo tenersi lontani e resistere in silenzio su un doppio binario che non lascia mai congiungere sembra essere un’attitudine eterna dell’animo umano.”

 

From Afar è il secondo singolo estratto dal secondo disco di An EarlyBird previsto per l’estate.

Per promuovere il brano è stata realizzata una video session da cui verrà estratto il video live ufficiale.

 

Mourning [A] BLKstar “The Cycle” (Don Giovanni Records, 2020)

Niente inganni, niente trucchi. È andata esattamente così.

Mi stavo apprestando ad uscire per la mia consueta corsetta e ricevuto un pacco all’ultimo momento dal partner di sudata, per darmi un po’ più di coraggio e vincere le possibili resistenze e le alternative certamente più allettanti che la mia psiche avrebbe sicuramente tentato di propormi, avevo optato per gli auricolari a farmi compagnia. Avevo già stabilito che avrei ascoltato i Fontaines D.C., perché Dogrel aveva la durata perfetta per il giro in programma (già testato, se non ci sono intoppi apro il cancello di casa a metà Dublin City Sky). Sta di fatto che mi ero appena cambiato, un’ultima scorsa al feed di Twitter, più per consuetudine che per reale necessità, quando avevo incrociato il tweet che come fai ad ignorare e più o meno recitava “Uscito oggi The Cycle. Disco dell’anno. Punto”. Per curiosità controllo se esisteva questo nome a me totalmente ignoto su Spotify, ed in effetti c’era: Mourning [A] BLKstar. 

Senza pensarci troppo su premo play e parto. Totalmente alla cieca. Precisazioni doverose: non avevo mai, mai sentito nominare questo nome, non sapevo che genere facessero (o facesse?), non sapevo da dove fossero (fosse), il nulla. E l’aspetto ancor più peculiare di tutta questa storia è che mentre scrivo queste righe sono nella stessa medesima situazione di cui sopra. Questo giro di proposito. Prima volta che mi capita nella mia gloriosa (rotfl) ultradecennale (lol) carriera (wtf) di recensore musicale di ascoltare e successivamente scrivere di un disco senza avere un minimo di contesto, due coordinate in croce, una mezza riga di biografia. A tal proposito ho sempre trovato assolutamente stimolante per possibili interminabili discussioni il passaggio di un disco dei Uochi Toki, Libro Audio, quando su L’Osservatore, L’Osservatore Primo, Napo enuncia “Non m’interessano i contesti sociali dai quali i gruppi musicali provengono, a meno che non si tratti di alieni, navi spaziali od antichi guerrieri più o meno medievali”. Ve l’ho buttata là intanto, poi un giorno magari ci torniamo.

Torniamo a me e alla mia corsa. Saranno gli auricolari di buona qualità, sarà che sto attraversando una sperduta stradina ai cui lati si distendono ettari di frumento ed altre non meglio identificate colture, sarà che a 4.50 al chilometro le difese si fanno più labili (ebbene sì, sono tornato sotto i 5 al chilometro) ma ci metto davvero poco a farmi ipnotizzare, forse trenta secondi e mi trovo a correre a Bristol con “3D” Del Naja e Beth Gibbons, che non sapevo corresse, e approfitto per dirle che mi innamoro di lei ogni qual volta la vedo fumare durante Glory Box su Roseland NYC Live. Passa poco e una traversata oltreoceano mi catapulta a Brooklyn, dove ad attendermi trovo Tunde Adebimpe e Kyp Malone, per poi spostarmi ancora verso ovest, destinazione Cincinnati, ospiti di Yoni, Adam e David e poi ancora più in là, verso la San Diego di Sumach Ecks. 

Sono queste le coordinate entro le quali si colloca questo The Cycle (ah, la copertina non ricorda tantissimo quella di Jane Doe, dei Converge?) il trip hop di matrice bristoliana targato Massive Attack e Portishead, le sfumature black dei primi TV On The Radio, il sommesso incedere dei Clouddead, il mood straniante, fuori fuoco, polveroso di Gonjasufi. Il tutto accompagnato da ottoni che suonano un peculiare klezmer sotto ketamina mentre ammiccano senza troppa timidezza in direzione Detroit, Grand Boulevard, citofonare Motown. O se volete un riferimento più recente alcuni passaggi dei The Roots.

Raggiungo la dimora sugli acuti irreali di So Young So, il tempo di una doccia e riprendo a lavorare (meraviglie dello smart working) in attesa della cena, e contestualmente riprendo l’ascolto. E non scende di livello, non perde un colpo nemmeno a cercarlo. Ecco, ascoltare questi Mourning [A] BLKstar ti lascia lo stesso senso di ammirazione (o invidia?) che provavi da bambino, quando avevi l’amico fortissimo a giocare a calcio, ma quando te lo trovavi a giocare a basket era ancora meglio, per non parlare di quando si metteva a sciare, snowboard o sci non faceva differenza. Questi stronzi fanno bene tutto (volevo scrivere dannatamente bene, come nei migliori doppiaggi italiani), qualsiasi vestito decidano di mettersi lo indossano alla perfezione, e la loro camminata rimane assolutamente inconfondibile; sono eclettici, liberi, e pieni di idee.

Ed ora, mentre in sottofondo scorrono le note di 4 Days (al minuto 5.40 quell’ipnotico passaggio dispari voce / pianoforte mi muove quasi alle lacrime), brano di chiusura di questo enorme lavoro, e non solo per i quasi 70 minuti di durata, eccovi le informazioni di cui vi sono debitore, ma che potete tranquillamente bypassare qualora la pensaste come il caro Napo: i Mourning [A] BLKstar più che una band nel senso stretto del termine sono un collettivo, di stanza a Cleveland, che ruota attorno alla figura di Ra Washington, il quale pare abbia portato dodici abbozzi di canzone in sala prove e tutti i musicisti abbiano creato e arrangiato le loro parti direttamente sul posto (delle altre sei non c’è dato sapere). Il numero dei membri varia, a vedere le foto dallo splendido loro sito e le varie line up accreditate. Ad oggi sembra siano in otto, abbiano tre cantanti e nessun bassista. Ed una bio che potrebbe rimettere tutto in discussione. O forse no:

We are a multi-generational, gender and genre non-conforming amalgam of Black Culture dedicated to servicing the stories and songs of the apocalyptic diaspora.

 

Mourning [A] BLKstar

The Cycle

Don Giovanni Records

 

Alberto Adustini

Lenire i malumori con il nuovo Calendario di Erbe officinali

Erbe officinali sono Riccardo, Daniel, Tiziano, Alessandro ed Elia. Il loro progetto nasce e cresce a Terracina, nel Lazio. 

Nel 2017 vincono il contest musicale per artisti emergenti di Anxur Festival con il singolo Quello che c’è fuori. Nel 2018 esce il loro primo disco Sospesi. Da quell’anno ad oggi pubblicano Schiena, Isola, Un altro mondo e l’ultimo arrivato: Calendario. In attesa del nuovo album, abbiamo fatto due chiacchiere con Riccardo e Daniel. 

 

È uscito il 7 Aprile il vostro nuovo singolo Calendario. Cosa racconta?

Riccardo: “In poche parole Calendario racconta di una certa fase della vita nella quale ti ritrovi tra due generazioni: quella precedente, durante la quale vai ballare tutte le sere e quella successiva, in cui ci si è sistemati, si ha famiglia eccetera. C’è un punto, una sorta di limbo nell’intermezzo, dove ti ritrovi a non fare più certe cose, a stare a casa sul divano a guardare Netflix, a ordinare pizze d’asporto e a bere birra. La canzone non parla di questo in maniera negativa, infatti nel ritornello diciamo: “Sono tutte le cose che non mi va di fare più”. Questo rappresenta una sorta di autoconsapevolezza raggiunta, una presa di coscienza.” 

 

In una vostra recente intervista ho letto che entrambi avete in comune una tendenza all’ansia e all’ipocondria e che, per fronteggiare questi malumori, solitamente usate rimedi naturali a base di erbe officinali (da qui il nome della band). In questo periodo dove l’ansia fa da padrona, le uniche cosa che ci mantengono sereni sono la speranza e l’ottimismo. Come si trasforma l’ansia in ottimismo?

Daniel: “Con la follia” (ride)

Riccardo: “Sinceramente non lo so. Non ho una ricetta per questo. Si potrebbe provare a cambiare qualche abitudine e far uscire qualcosa di positivo da questa cosa che sta accadendo. Noi lo facciamo attraverso le canzoni. Io ad esempio sto scrivendo moltissimo in questo periodo ma lo faccio per puro esercizio terapeutico. Ognuno ha il proprio modo per esorcizzare l’ansia.
Il periodo in cui abbiamo deciso di mettere su questa band, era un periodo di smarrimento generale nelle nostre vite personali, vuoi per la fine di un amore, vuoi per qualcosa di apparentemente banale come il non sapere quale università scegliere. La musica e il progetto Erbe Officinali ci dà una mano, è una via di fuga da quello che accade intorno. Per quanto mi riguarda la musica è terapeutica ma ognuno può trovare il suo modo per esorcizzare qualcosa. Alla fine, l’ansia è una manifestazione di un sentimento sottostante, quindi alle volte basta cambiare qualcosa, un pensiero o magari basta soltanto prendersi più cura di sé stesso.” 

 

Solitamente come create un pezzo? E com’è comporre in questo periodo di isolamento e distanza?

Daniel: “In realtà per noi non cambia niente in questo periodo perché scriviamo sempre a distanza. Credo che la differenza la faccia l’ispirazione che per alcuni può essere amplificata ma al momento per me è un po’ diminuita perché ci sono pochi stimoli dall’esterno: esci poco, vivi poche situazioni, conosci poca gente nuova, non vedi le persone a cui vuoi bene che sono quelle che ti scaturiscono l’ispirazione. Il nostro processo creativo però non cambia perché la nostra è sempre una staffetta Whatsapp tra me e Riccardo. Ci mandiamo quello che scriviamo e aggiustiamo il tiro nota audio dopo nota audio.”

 

Rispetto al vostro primo album del 2018 Sospesi, il vostro sound è cambiato? Cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo album? 

Daniel: “Sicuramente rispetto al primo album è cambiato molto l’approccio alla musicalità che abbiamo e anche la produzione. Il primo disco infatti è stato più un esperimento perché è nato dal nostro incontro, un po’ per caso e non avevamo idee chiare. Ci siamo fatti trascinare dal flusso di emozioni del momento e abbiamo messo su il primo album. Dagli ultimi singoli abbiamo iniziato a studiare e a percorrere sonorità più moderne e molto più elettroniche e quindi dal prossimo album c’è da aspettarsi una cosa completamente diversa.”

Riccardo: “Essendo autodidatti non avevamo nessun tipo di bagaglio esperienziale, per questo il primo disco è stato totalmente genuino. C’è stato un lavoro dietro ma non abbiamo pensato di fare una ricerca dei suoni e infatti è un disco molto acustico e molto crudo anche dal punto di vista delle produzioni: chitarra acustica, batteria… molto classico se possiamo dirla così. Mentre, come ha detto Daniel, dai singoli successivi fino all’ultimo, in particolar modo negli ultimi due o tre abbiamo cominciato a sperimentare molto di più e abbiamo cercato un suono che fosse più riconoscibile possibile. Quindi il prossimo disco sarà totalmente diverso dal primo e sicuramente molto più fresco nelle sonorità.”

 

Potete però dirci come passa la quarantena un musicista?  

Daniel: “Per quanto mi riguarda, del lato del musicista resta la chitarra: ogni giorno mi passa tra le mani perché ce l’ho qua in faccia ed è impossibile evitarla. Personalmente però sono molto meno ispirato quindi suono pezzi che mi piacciono ma non riesco a creare cose nuove. Poi vabbè, Netflix, videogiochi nel mio caso (che sono un po’ nerd) e qualche lettura.”

Riccardo: “Io dal punto di vista artistico sto scrivendo tanto, però lo faccio perché è una cosa che mi piace fare quando non ho niente da fare. Ovviamente non è detto che quello che scrivo sia qualitativamente utilizzabile per un lavoro, perché ci si ritrova spesso a scrivere delle stesse cose poiché gli stimoli non sono tanti. Si prova ad andare un po’ più lontano con l’immaginazione ma stando dentro quattro mura non è molto facile. Comunque sto scrivendo e chissà che qualcosa non esca dal cilindro. Per il resto, durante la mia giornata faccio le stesse cose che ha detto Daniel tranne per i videogiochi (non ho la playstation), porto fuori il cane, vado a fare la spesa, vado in farmacia e cose di questo tipo.”

 

Cecilia Guerra

Boston Manor “Glue” (Pure Noise Records, 2020)

I Boston Manor, quintetto di Blackpool formatosi nel 2013 ha già al suo attivo un EP Saudade (2015) e due album: Be Nothing (2016) e Welcome to the Neighbourhood (2018) sotto l’etichetta Pure Noise Records.

Sono una delle band britanniche che più di altre, con grande impulso creativo, affrontano temi forti, proponendosi al pubblico e ai fan come gruppo con “qualcosa da dire” come nell’ultimo album Glue: la colla ti invischia come una pervasiva angoscia, ma potrebbe essere invece la sostanza che ti tiene insieme, che ti ricompone.

Henry Cox, talentuoso e carismatico frontman, in tutta la sua discografia affronta un percorso di recovery da ciò che apparentemente sembrava averlo toccato solo marginalmente durante la sua infanzia trascorsa nell’attraente città di mare del Lancashire: all’età di dieci anni aveva assistito alla morte per suicidio di un uomo. Proprio nella sua città Cox ha sviluppato il suo percorso creativo cogliendone il background meno luccicante e più problematico.

In questo disco compie un ulteriore passo avanti e mette la sua esperienza a disposizione dei suoi fan e del suo pubblico. I temi che affronta sono importanti soprattutto nel nostro tempo: la mascolinità tossica, la salute mentale, il suicidio, le difficoltà di alcuni classi sociali dopo la Brexit.

Nei progetti precedenti queste tematiche erano già presenti, ma espresse attraverso metafore: in Glue diventa tutto più esplicito, diviene bisogno di condivisione, di non tenersi tutto dentro e mostrarsi con il cuore in mano.

Le sonorità dell’album hanno perso l’effervescenza del pop-punk e si sono orientate più verso il punk hardcore, generando uno stile più aggressivo e variabile con riff energici e suoni elettronici che sembrano arrivare dal futuro.    

Alcuni brani hanno un contenuto che si può definire politico, di denuncia, ed il rinnovato stile che Cox ci propone si fonde perfettamente con esso 

On A High Ledge, che inizia con Father, I think I’m different / I don’t like playing with the other boys / Father, I’m different / I like the way the flowers smell”, parla della mascolinità tossica insita nella cultura britannica e di come questa possa avere una responsabilità nell’importante numero di suicidi di giovani maschi. Ha un incipit lento con sonorità elettroniche che sembra prendere per mano e portare l’ascoltatore a riflettere sulla propria sensibilità. 

1’s & 0’s è una critica ad una generazione invecchiata che ha votato per la Brexit senza alcuna considerazione per il futuro dei giovani mentre Everything is Ordinary tratta dell’insensibilità diffusa e dell’ignavia del nostro tempo; entrambi sono brani squisitamente politici e di una straordinaria energia che fanno trattenere il fiato fino alla fine.

Ratking, con alcune reminescenze grunge che rimandano ai Soundgarden o agli Alice in Chains, è una metafora del forte individualismo: nel cercare di salvare solo noi stessi, senza collaborare, finiamo per distruggerci.

Glue è un album maturo con dei messaggi forti in quest’epoca così complessa: quello che auspica Henry Cox è una maggiore empatia, sarà forse una goccia nel mare ma rincuora sentire chi tende una mano ad una generazione in seria difficoltà.

 

Boston Manor

Glue

Pure Noise Records

 

Margherita Lambertini