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Nirvana ”Nevermind”: Riflessioni da Anniversario

Nirvana ”Nevermind”: Riflessioni da Anniversario

| Andrea Riscossa

24.01.1991

Esce Nevermind, secondo album dei Nirvana.

Però, questa volta, andiamo sul personale.
Il 1991 è stato l’anno di Gish, di Ten, di Spiderland, di Nevermind.
È stato l’anno in cui sono entrato in un liceo, e per la prima volta in vita mia mi sono sentito sperso. Di colpo condividevo spazi con ragazzi che mi sembravano adulti, avevo accesso all’improvviso a un mondo a me ancora sconosciuto, fatto di tribù, di riti iniziatici, di codici, di divise.
Fedele alla (mia) linea “fatti i cazzi tuoi”, in un basso profilo esplorativo figlio della mia devozione per Jacques Cousteau, mi lanciai nell’esplorazione della fauna locale, alla ricerca di un’appartenenza che mi concedesse l’accesso a riti magici e conoscenze superiori.
MTV e un walkman Sony con cuffie a spugnetta erano le mie chiavi, un primo argomento con cui cercare i miei simili in quel mare di giacche e scarpe tutte uguali.
La cassetta di Nevermind fu l’inizio. Mi venne regalata copia artigianale con titoli scritti a caso, ma fu il contenuto a folgorarmi, un nuovo e aggiornato San Paolo, folgorato su corso Damasco. Mi ritrovai davanti all’inizio, al primo capitolo di una storia fatta di gruppi, di musicisti, di ragazzi che cantavano il lato debole della loro vita, una consapevole esposizione del loro lato oscuro, del loro essere fuori tempo e luogo. Era un’adolescenza protratta nel tempo, forse un pelo elaborata, ma finalmente raccontata per quello che spesso sembrava: una merda.
Fu la magia degli anni novanta: una generazione di artisti che non ebbe alcuna paura a raccontare in musica le ansie e le paure dei propri coetanei, che delle hair bands di fine anni ottanta presero davvero poco (anzi, a volte se le diedero proprio), che ostentarono con fierezza il loro essere deboli, sfigati, sensibili, feriti, umani. Ci siamo riappropriati il diritto di non essere cotonati e felici, rompendo lo specchio dei narcisissimi anni ottanta in cui ci siamo specchiati privandoci della visione periferica.
Per un quattordicenne fu totale e indefessa identificazione. Era un S-I-P-U-O’-F-A-R-E urlato al cielo da una generazione che, non era più la caricatura di se stessa.

Nevermind puzzava di palestra ogni volta che MTV passava il video di Smell Like Teen Spirit.
Nevermind era subacqueo come certe serate in cui affogavi in parole e risate e vino. 

Nevermind era lo stato d’animo giusto al momento giusto perché dentro di sé aveva lo spettro completo delle tue emozioni, era un prontuario per l’adolescenza, era testo sacro da sapere a memoria.
Nevermind era argomento utile a dividere il mondo tra chi ascoltava – ancora – i Guns e chi li avrebbe sepolti l’anno successivo, allo stadio, con l’aiuto di Cornell e Patton.
E il 1991 diventò l’anno degli Smashing  Pumpkins, dei Pearl Jam, dei Temple of The Dog, dei Nirvana, dei Red Hot Chili Peppers, dei R.E.M, e chissà cos’altro che ora non ricordo.

Quel disco è perfetto. Ha scorci incredibili. Quando le cuffiette del walkman salivano, regalando al mondo 49 minuti di mia assenza, i Nirvana sembravano essere in sei. C’era la batteria che suonava, non accompagnava, suonava proprio, la chitarra faceva anche i cori, dissonava, dissentiva. E sotto Novoselic ciondolava rimbalzando.
Nevermind appartiene alla categoria “unskippable”, saltare un brano sarebbe uno sgarbo agli dei, una ὕβϱις, degna di prometeiche punizioni, come essere incatenati per l’eternità a una roccia, accompagnati fino alla fine del tempo da una playlist di B-side dei Nickelback.

Ah, dimenticavo.
Un segreto: per me Nevermind si rivela, scopre le sue carte, insomma ti lancia quello sguardo che non puoi non capire in un punto preciso: sta tra la fine di Territorial Pissings e l’inizio di Drain You. La prima finisce in tragedia: Cobain perde la voce, Grohl è stato denunciato dalla batteria per maltrattamenti, insomma, dopo due minuti e ventidue di disperata e paranoide ricerca siamo alle urla, allo sguardo annebbiato, si sentono solo più un paio di calli sulle corde della chitarra. Un secondo di silenzio per sentire meglio lo schiaffone appena preso e inizia Drain You. Lì, in quella pausa, in quell’attimo alberga lo spirito del disco. Ci trovo il suo gusto, ci ritrovo i miei anni novanta.

 

Andrea Riscossa