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Mese: Ottobre 2020

Bring Me the Horizon “POST HUMAN: SURVIVAL HORROR” (Sony, 2020)

Ci ricorderemo la lezione?

 

C’è una cosa che da tempo ormai viene recriminata ai Bring Me The Horizon: di non essere “più gli stessi”, di non essere più quelli che cantavano Chelsea Smile, ormai dodici primavere fa. E si sa che il fan duro e puro difficilmente perdona, tanto che a questa simpatica categoria antropologica era anche stato dedicato il brano Heavy Metal, contenuto nello scorso album e che era stato la miccia che aveva fatto dilagare ulteriormente la polemica. 

Però, con POST HUMAN: SURVIVAL HORROR, anche il fan duro e puro ritrova le sue vecchie certezze e le ritrova fin dal principio. La prima traccia, Dear Diary, ricorda molto i primi lavori della band, ma non si tratta certo di una regressione fine a se stessa o del ripudio del cambiamento che stavano attraversando. Questo album, infatti, è un ottimo frutto del suo tempo. Non a caso, lo stesso cantante Oli Sykes aveva già ammesso in un’intervista che sarebbero ritornati alle origini perché nel fortunatissimo anno domini 2020 avevano di nuovo qualcosa per cui essere arrabbiati e un sound più crudo e violento non può che esserne la naturale conseguenza.

Però la ricerca e la sperimentazione fatte in questi anni non sono state completamente dimenticate e lo si sente soprattutto nelle collaborazioni. Abbiamo l’intro quasi angosciante di Parasite Eve, eseguito in bulgaro da un coro femminile, in grado di dare un’idea di cerimonia solenne e contemporaneamente di qualcosa di incomprensibile in arrivo. 

Anche il featuring con Amy Lee degli Evanescence in One Day the Only Butterflies Left Will Be in Your Chest as You March Towards Your Death è un esperimento riuscito alla grande. In quella che sembra a tutti gli effetti una ballad — e mai avrei pensato di accostare la parola ballad ai Bring Me The Horizon — le voci di questi due cantanti che hanno segnato un’intera generazione di adolescenti si sposano alla grande e danno vita a una canzone struggente quanto basta per concludere un album decisamente arrabbiato con una nota di malinconia. 

In nove canzoni, i Bring Me The Horizon hanno infatti raccontato uno scenario post-apocalittico (o post-umano se preferite), dove la tecnologia fa da padrona e sembra impossibile qualsiasi contatto umano autentico. La sensazione generale che si insinua più facilmente è quella di essere di fronte ad un’imminente fine del mondo, ma con abbastanza rabbia in corpo per provare a reagire. 

Resta comunque molto facile scorgerci sotto elementi di attualità. Si sprecano i riferimenti e i richiami alla pandemia e anche se spesso e volentieri le canzoni sono state scritte prima della diffusione del virus — il primo singolo Ludens è uscito quasi un anno fa — il collegamento che si fa ascoltando questi pezzi è ormai immediato. Da titoli come Itch for the Cure (When Will We Be Free?) fino ad intere strofe in altri pezzi, l’album è in grado di riassumere quello che bene o male tutti abbiamo vissuto e stiamo vivendo, anche se probabilmente l’intenzione in partenza non era questa. 

Una su tutte, parte del ritornello di Parasite Eve, suona abbastanza profetica: “When we forget the infection/Will we remember the lesson?”

Quando avremo dimenticato la malattia, ci ricorderemo la lezione?

Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto qualcuno…

 

Bring Me The Horizon

POST HUMAN: SURVIVAL HORROR

Sony

 

Francesca Di Salvatore

Vanbasten “Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa” (Flamingo Management, 2020)

Vanbasten, nome d’arte di Carlo Alberto Moretti, ha pubblicato Canzoni che sarebbero dovute uscire tot di anni fa, EP d’esordio e chiaro biglietto da visita dell’artista romano.

Vanbasten ha 29 anni e ha alle spalle una carriera calcistica interrotta a 22 per iniziare a fare musica, avvicinandosi al rap in un primo momento e in seguito al punk e al pop.

Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa è un progetto ben articolato, composto da dieci brani dalle sonorità elettro-punk e pop. Le produzioni, curate da Francesco Bellani, riflettono la new-wave e la scrittura dell’artista è semplice e dissacrante, una commistione tra il rap e l’indie.

Kenshiro, il primo brano, ha una ritmica incalzante. Il testo parla di un conflitto in modo diretto e sincero. Il ritornello “Ora che sei in ginocchio, io sono Kenshiro, quanto sei stato stronzo a non avermi capito”, rimane subito impresso. Mascara è una canzone d’amore dal testo elaborato e delicato. La voce di Vanbasten è profonda e mi ha ricordato Vasco Brondi dal primo ascolto: “dimmi cosa dici ai tuoi occhi quando cercano me”.

16enne e Pallonate sono pezzi generazionali. L’artista parla a ragazzi consapevoli, emancipati che vivono serate buttate, spinti dalle pallonate della vita. I testi sono irriverenti e la scelta delle parole è talvolta drastica per il genere: “Veniamo dalla strada come i vizi, siamo fatti per soffrire o per decidere di ucciderci”, scrive Vanbasten in 16enne. 

Eurospin e Sparare Sempre sono indubbiamente i pezzi più belli dell’intero EP. “Proveremo a mangiare 10k di cose, io volevo soltanto giocare a pallone adesso invece non ci gioco più” scrive l’artista in Eurospin. Il brano è nostalgico e dal testo immersivo anche se in questo caso la melodia e la produzione raggiungono l’apice dell’intero progetto per l’originalità dei passaggi tra le strutture della canzone. Sparare Sempre è una bella presa di coscienza, nel ritornello dice: “Continueremo a fare come ci pare, tra gli spari non ci stiamo male (…) Vita normale a chi, vogliamo vivere cosi”.

Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa parla di vita vera, le immagini suggerite dai testi richiamano atmosfere notturne ed ambienti underground. Vanbasten parla ad un target di pubblico facilmente identificabile. La voce per quanto sincera rimane impenetrabile e a tratti ridondante. Le melodie non sono mai troppo incisive ma nel complesso si tratta di un progetto fresco che tocca tematiche semplici ma in modo innovativo. L’ascolto adatto ad un pubblico giovane e attento in cerca di musica audace.

 

Vanbasten

Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa

Flamingo Management/Artist First

 

Giulia Illari

Vianney “N’Attendons Pas” (Tôt Ou Tard, 2020)

Il 5 Dicembre si scoprirà se sarà lui il cantante francofono dell’anno secondo i NRJ Music Award, i premi istituiti vent’anni fa dalla radio NRJ per celebrare il meglio della musica francofona e internazionale. Ma nel frattempo Vianney — al secolo Vianney Bureau, classe 1991 — ha appena pubblicato il suo nuovo album in studio dal titolo N’Attendons Pas. 

Arrivato a quattro anni di distanza dal suo ultimo acclamatissimo lavoro, che contava mezzo milione di copie vendute, questo è il terzo disco di uno degli artisti più apprezzati oltralpe, tanto da venire paragonato spesso e volentieri in patria ad Ed Sheeran. Un paragone che si regge in piedi senza troppi sforzi, soprattutto guardando i testi e le sonorità.

N’Attendons Pas infatti contiene undici tracce decisamente pop, fresche ed omogenee tra loro, ma mai banali, anche senza l’aiuto di qualche effetto speciale di troppo. Anzi, è proprio la genuinità a fare da padrona in questo disco, con un connubio di chitarra e voce che ogni tanto sfiora le esibizioni in acustico e a cui si aggiunge talvolta un pianoforte, talvolta degli archi. Niente esagerazioni, nessuna spettacolarizzazione non necessaria, ma solo la musica pura e semplice che va ad accompagnare dei testi altrettanto genuini.

Non a caso, l’ultimo lavoro di Vianney è un album pieno di buoni sentimenti e di un ottimismo forse un po’ estranei a buona parte del panorama musicale italiano di moda oggi (vedi l’indie, che con la tristezza ci va a nozze, oppure il rap, che ha molte qualità ma di sicuro pecca un po’ di dolcezza). 

C’è soprattutto l’amore, ma è un amore che presenta numerose sfaccettature: quello per chi non c’è più in Tout Nu Dans La Neige — delicata ballad simil-acustica dedicata al nonno — oppure quello per i figli, anche se non hanno il tuo stesso sangue, come in Beau-Papa, canzone decisamente più pop dedicata invece alla figlia acquisita. 

Un romanticismo quindi che continua a vivere e a spingere per tutto il disco, nonché delle storie che, nonostante siano ormai finite, non lasciano mai spazio al rancore o al risentimento, ma continuano ad essere ricordate con affetto e gratitudine, da Merci Pour Ça a La Fille du Sud.

Ma comunque non di solo romanticismo vive questo disco: brani come J’Ai Essayé, che diventa una sorta di apologia del “fallimento pur avendoci provato”, oppure N’Attendons Pas, un invito a non aspettare l’arrivo di chissà quale coincidenza per cominciare a vivere la vita che si desidera, fanno capire che il filo conduttore dell’album, più che l’amore, sia l’umanità vera e propria, nel senso di tutto ciò che ci rende umani.

E tra amare e fallire, non so quale delle due cose sia più umana. 

 

Vianney

N’attendons Pas

Tôt Ou Tard/Believe

 

Francesca Di Salvatore

Tre Domande a: Lucio Leoni

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

“Altalenando momenti di calma a momenti di disperazione. Siamo in bilico e con prospettive decisamente ridotte ma non ci piace lamentarci. Riguarda tutti dunque proviamo a immaginare modi nuovi per continuare a raccontare storie. Questo, crediamo, è il nostro compito. Siamo davanti una tabula rasa, e paradossalmente potrebbe essere più facile. C’è da immaginare il futuro nuovo per modelli di spettacolo e ridistribuzione delle ricchezze economiche e culturali. Noi siamo quelli che sanno usare la penna per scrivere, per disegnare, per immaginare e noi siamo chiamati a dare la spinta propulsiva necessaria, altrimenti si muore.”

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?

“Abbiamo ascoltato molta musica per realizzare questo disco (Dove Sei lavoro pubblicato in due parti distinte nel corso del 2020, la parte 1 a Maggio e la parte 2 a Ottobre) e artisti anche molto distanti tra di loro. Ne abbiamo fatto una sintesi, la nostra sintesi. Negli ultimi tempi ci stiamo avvicinando sempre di più alle forme dello spoken word in cui i confini della forma canzone si dilatano e si trasformano. Artisti come Kae Tempest, Joyner Lucas, George the Poet, e mondi distanti che invece lavorano sull’assenza e sui vuoti come ad esempio Son Lux ci hanno fatto da faro. Dove sei è un progetto complesso, diviso in due parti è un lavoro che parte dal pensiero e dalla parola, poi diventa suono. Abbiamo invertito il metodo lavorativo e ragionato su come costruire sfondi sonori alle storie che volevamo raccontare provando a mantenere un immaginario coerente in entrambe le parti. Quello che ci interessava, più che una forma riconoscibile dal “mercato” era ottenere un lavoro organico che potesse anche allontanarsi dall’idea della canzone (nel particolare) e di disco (nel generale); abbiamo lavorato su forme diverse, più simili alla letteratura che non al classico approccio discografico.”

 

Progetti futuri? 

“Trovare alternative performative. La situazione ce lo impone e la condivisione del momento live non può fermarsi; deve modificarsi in armonia con quanto sta succedendo a livello globale. Stiamo immaginando trasformazioni e produzioni diverse che possano intersecarsi con intelligenza a questo momento. Come dicevo prima, c’è da immaginare il futuro. E’ completamente saltato il banco e chissà chi ritroveremo sopra e sotto il palco; le generazioni cambiano con una velocità impressionante ormai e ci sarà da confrontarsi con quella che verrà generata da questo momento di trasformazione gigante che stiamo attraversando. Inutile adesso far previsioni o lavorare sul presente, il presente è immobile e non possiamo ancora interpretarlo perché ci siamo dentro. Quello che possiamo fare è gettare il cuore oltre l’ostacolo e cominciare ad identificare i contorni del domani.”

Keaton Henson “Monument” (PIAS Recordings, 2020)

“Sono metà cantautore e metà uomo, e tuttavia la somma di queste due parti non fa un intero”. 

Riuscite ad immaginare un’immagine più forte di questa per descrivere la propria fragilità? Perché ho appena premuto play per ascoltare il nuovo disco di Keaton Henson, testè uscito per la PIAS Records e sono già steso sotto il consueto e sempre nuovo clima da soliloquio che lui, come pochi, pochissimi altri al mondo, sa creare.

Tra le prime pennellate di Ambulance e il dolce cadenzato arpeggio di Self Portrait ho poi ricevuto l’illuminazione: Keaton Henson è la trasposizione ai giorni nostri di ciò che era stata ed aveva rappresentato, nel diciannovesimo secolo, una delle più grandi poetesse di tutti i tempi, e per certo la mia preferita: Emily Dickinson.

Zia Emily, come era solito appellarla il mio professore di inglese al liceo, ha scritto “Ad un cuore in pezzi / Nessuno s’avvicini / Senza l’alto privilegio / Di aver sofferto altrettanto”. 

Se dovessimo oggi cercare una persona capace di aver mostrato, attraverso la propria arte, la sofferenza, interiore certo ma mai nascosta o taciuta, tanto da renderla quasi universale, nella sua compostezza, quella è Keaton Henson. Nessun dubbio a riguardo. Il quale, già di per sé incline al mettere in musica ogni minimo dettaglio ed emozione del proprio animo tormentato e della propria tumultuosa, quando non misera, infelice, vita sentimentale, ha dovuto passare attraverso un’ulteriore prova, ancor più dura da accettare e sopportare, ovvero la recente scomparsa del padre.

E questo nuovo disco, Monument, si svela come un lungo, sentito percorso attraverso il dolore, per esorcizzarlo di certo, ma anche e soprattutto per scolpirlo, scavarlo nella roccia o nel legno, affinché il ricordo non finisca, come sempre accade sotto l’azione dello scorrere del tempo, per affievolirsi o peggio,  svanire.

In mezzo a questo clima, al solito sempre molto composto, fanno anche capolino un paio di episodi, While I Can ed Husk, che rappresentano due anomalie all’interno del corpus del nostro, in quanto sembrano quasi, specialmente per la presenza di una sezione ritmica ed una chitarra sonante, in ambiente pseudo pop.

Tuttavia questo Monument è un gran disco, come grande è il suo autore, che ancora una volta si mette a nudo, senza pudore e senza imbarazzi, e lungo queste undici tracce riporta i sentimenti più puri e sinceri al centro della scena, come lui e pochi altri sanno fare. Probabilmente mancano i picchi, più musicali che emotivi, che costellavano il precedente Kindly Now, ma quello che scatena interiormente l’ascolto di un brano come Self Portrait oppure The Grand Old Reason è cosa per pochi. E in questo lui è probabilmente l’unico.

 

Keaton Henson

Monument

PIAS Recordings

 

Alberto Adustini

Three Questions to: Dig Two Graves

How and when was this project born?

“We started in 2017 by Josh and Kenny – who have been friends for years – and quickly found Mike, who was very interested in the project. We hit up Jesse over Instagram and the rest is history! Josh had one song written when we first started which we practiced and worked on to start out. After working on it for a while, it ended up changing pretty drastically and we finally decided on a certain version of the song. This then became our first single Wick. The earliest demos of the song are almost completely unrecognizable to what it ended up being.”

 

If you had to sum up your music in three words, what would you choose and why?

“Nice, fresh and organic. We believe that our music stands out from the metalcore/djent type of genre which was one of our goals from the start. We wanted to create a project that had the heaviness of that style of metal but with some more of our own sauce. We ultimately ended up going in a more melodic direction and tried to utilize a variety of song structures to keep things fresh.” 

 

What about your future projects?

“We are currently working on our debut full length album and we’re very super stoked on how it’s turning out. Two songs are very close to completion, which will most likely be released as singles before the album. Nothing is definite, of course, but that is the current plan. We are working to have at least one single out in the near future, hopefully.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto?

Abbiamo cominciato nel 2017. Josh e Kenny erano amici già amici da anni, poi abbiamo subito trovato Mike, che era molto interessato al progetto. Abbiamo contattato Jesse su Instagram e il resto è storia! Josh aveva già scritto una canzone quando abbiamo iniziato e abbiamo provato e lavorato su quella per cominciare. Dopo averci lavorato su per un po’, la canzone era cambiata in modo abbastanza drastico e alla fine ci siamo decisi per una certa versione. Questa poi è diventata il nostro primo singolo Wick. I primi demo della canzone sono quasi completamente irriconoscibili dalla versione che poi è diventata. 

 

Se dovessi riassumere la vostra musica in tre parole, quali sarebbero e perché?

Bella, fresca e naturale. Crediamo che la nostra musica si distingua dal genere metalcore/djent, che era il nostro obiettivo iniziale. Vogliamo creare un progetto che abbia lo stile “heavy” del metal ma aggiungerci qualcosa di più nostro. Alla fine abbiamo preso una strada più melodica e cercato di usare arrangiamenti diversi per mantenere un’idea di novità.

 

I vostri progetti futuri?

Al momento stiamo lavorando sul nostro primo album e siamo molto emozionati per come sta venendo fuori. Due canzoni sono quasi finite e molto probabilmente verranno rilasciate come singoli prima dell’uscita dell’album. Ovviamente non c’è niente di definitivo, ma questo è il piano attuale. Stiamo lavorando per far uscire almeno un singolo nell’immediato futuro, si spera. 

 

Francesca Di Salvatore

Lucio Leoni “Dove Sei Pt.2” (Blackcandy Produzioni, 2020)

Dove Sei è qui e adesso. 

Il 15 ottobre 2020 è uscito Dove Sei Pt.2 di Lucio Leoni per Lapidarie Incisioni e Blackcandy Produzioni. Con questo album l’artista romano conclude il suo terzo progetto discografico presentato in due parti, la prima uscita lo scorso maggio. Il lavoro abbraccia temi intimi ed emozioni globali e questa recensione si rifà alle immagini che appaiono nella mia mente durante l’ascolto. 

L’album si apre con L’archivio segreto di Galileo, un inno all’amore universale, quello del “non pensare troppo” ma ama e basta. “Facciamo un gioco e chi ride per primo ci giochiamo un bacio”, un bacio che prende la rincorsa spalancando il ritornello a una danza libera e scatenata. Il passaggio musicale dalla quiete ai ritmi ska è un’esplosione. I fiati finali sono inaspettati e ricordano qualcosa di magico, come quando sei a teatro in trepida attesa e gli strumentisti stanno accordando. 

Casa ti riporta alla realtà, è come uno schiaffo e ti avverte di quanto dimentichi in fretta l’energia dei sentimenti passati; di quanto, con il tempo, svanisca la profondità delle sensazioni. Casa è un posto in cui vuoi creare quelle emozioni, casa è dove vuoi. Ma “Dov’è dove vuoi? Dov’è casa?”. E se non riesci a rispondere, che sia a una persona o che sia al mare, tu dì solamente: “portami dove vuoi, portami a casa”.

A volte però a casa non ti senti sicuro, Francesca ce lo dimostra. Questo brano è una lettera di una moglie angosciata, spaventata: “Partiamo che ci sono gli avvoltoi e che qui c’è una congiura, partiamo che se non lo facciamo poi ci viene paura.” Nel pezzo, i fiati sembrano urla strazianti che ti squarciano l’anima e ti costringono a sentire.

Questa canzone è la lettera mai scritta da Francesca Morvillo al marito Giovanni Falcone.

Proprio delle partenze parla Autodifesa, quelle che ti fanno dire “basta, mollo tutto”. Ma quanto è vera questa affermazione? “Quanto cambia il contesto quando tu resti uguale”? Autodifesa ti induce a riflettere sulla necessità di provare qualcosa.

Questo viaggio nei sentimenti prosegue e Quasi Mi Spaventa l’intimità di questo brano che ti permette di concentrarti sul testo e sulle sensazioni trasmesse dal canto a volte sussurrato di Lucio Leoni. In risposta alla sua voce, si intervallano suoni che ricordano tuoni lontani e “se si apre il cielo ci viene voglia di ballare un tango”. Una canzone che parla dei rapporti con confidenza e per immagini.

La familiarità delle emozioni descritte dall’artista viene rafforzata in Per Sempre, una dedica al tempo, allo spazio e alle persone. Durante la pandemia, questa canzone sembra rappresentare un pensiero universale. La mancanza delle giornate passate con gli amici ci angoscia e ci addolora ma il ricordo di quei momenti felici sovrasta la tristezza, ci abbraccia e ci rassicura “come in macchina quando freno però ti metto un braccio davanti”.

E infine, un susseguirsi di immagini difficili da rincorrere. Nastro Magnetico in collaborazione con i Mokadelic è una sceneggiatura che Lucio Leoni racconta, recita. Ti spiega tutto ma non ti spiega niente. Ti ritrovi più confuso del momento in cui pensavi di non aver capito nulla. Il brano però ti ha ipnotizzano già dal principio, quando ti è sembrato di sentire il canto di una sirena. Ed è questa la forza del pezzo: ti incuriosisce e ti porta ad ascoltarlo più volte. 

In questo periodo storico complesso, Dove Sei è un progetto che ti fa riflettere. I suoni, le parole, le immagini e le doppie voci che ricorrono per tutto l’album, ti stringono e ti fanno capire che non sei solo, sei Dove Sei.

 

Lucio Leoni

Dove Sei Pt.2

Lapidarie Incisioni / Blackcandy Produzioni

 

Cecilia Guerra

Tre Domande a: Gaston

Come e quando è nato questo progetto? 

“Non ho lavorato intenzionalmente a questo EP (Cartoline, NdR). Faccio musica nel tempo libero e senza schemi o tattiche. Delle canzoni che avevo racimolato negli anni (ce ne sono alcune davvero vecchie, come Marea) queste cinque penso siano legate da un filo sottile ma tangibile. Sicuramente è ricorrente il tema della partenza, della ricerca di sé, del cambiamento e del distacco.
Mi sono sempre considerato uno spirito irrequieto, alla continua ricerca di qualcosa che forse neanche c’è.”

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?

“Artisti penso sia il termine giusto. Prendo ispirazione da ogni tipo di arte ed inaspettatamente. Nel corso degli studi universitari mi sono imbattuto in registi, pittori, musicisti, scrittori che hanno influito sul mio processo creativo. Ho tratto ispirazione anche solo da un titolo o da un dialogo, da una poetica o da corrente artistica. Penso ad esempio a Roman Opalka che ha ispirato un pezzo a cui sono particolarmente legato, Opalka.
L’arte è spesso l’input per creare l’arte stessa. A volte si tratta solo di rimescolare in maniera originale concetti già espressi, rimodernizzandoli ed adattandoli al proprio contesto storico-culturale. Se parliamo di musica poi sicuramente i grandi cantautori, sarebbe scontato anche citarli.”

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

“A chi mi ascolta cerco di raccontare la mia storia lasciando comunque ampio margine di immedesimazione.  Eventi e persone che affollano le mie giornate e la mia mente si mischiano in maniera indefinita, confondendo cause ed effetti.  Ne resta un ritratto malconcio di una gioventù mai vissuta a cuor leggero, per una pura inclinazione personale. Siamo spettri di vite felici fallite. Difficilmente riusciremo a diventare chi sognavamo e se anche ci riuscissimo potremmo scoprire che non era quello che volevamo davvero.”

Three Questions to: Fatality

How and when was this project born?

Fatality was formed in 2016 by me (Josh Abbott, vocals), Gareth Brimley (guitar) and ex-drummer Chris Batson, with our first EP being released in the same year. We performed at Asylum, a legendary Chelmsford venue for the release and raised £200 for the SNAP charity from merch and CD sales. In 2017 we recruited bassist Matt Shynn and subsequently recorded our second EP, which we released in 2019. We did a small tour of the Prey EP in aid of MIND and raised over £500 this time. In November 2019 we parted ways with Chris, our drummer, and joined forces with Jordan Maze, who now completes our current line-up. Since his recruitment in late 2019 we’ve written and performed a new set of tracks with Jordan as well as some Fatality originals. We played our first show with Jordan on a live stream in Summer 2020.”

 

Is there any specific artist you would like to collaborate with?

“For me personally it would be Jacoby Shaddix from Papa Roach. He’s someone that has hugely inspired me to do what I do and I am really influenced by his energy and stage craft. It would literally be the highest moment in my career if we got to work with him on a track or a project. If he’s reading this, then get in touch!” [laughs]

 

What about your future projects?

“Well, at the moment we’re unable to play unless there’s a completely reduced capacity which isn’t what we’re all about so the simple answer is no. As soon as we’re allowed to perform in indoor or outdoor venues or at festivals then we will be tirelessly booking and performing at shows again. However, we have new music in the works. We have a few tracks that are ready to be released and a load of new material that we’re constantly working on and refining. The Lesson, Indemnify and Eight will be released over the next few months with the idea that we will accumulate these and more tracks into a third project at the end of the year, ready for when live music is back.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto?

I Fatality si sono formati nel 2016 con me (Josh Abbott, voce), Gareth Brimley (chitarra) e l’ex batterista Chris Batson e in quello stesso anno è uscito il nostro primo EP. Per l’occasione ci siamo esibiti all’Asylum, una location pazzesca a Chelmsford, e abbiamo raccolto 200 sterline da devolvere in beneficenza dalla vendita dei CD e del merchandise. Nel 2017 abbiamo reclutato il bassista Matt Shynn e successivamente abbiamo registrato il nostro secondo EP, che abbiamo pubblicato nel 2019. Abbiamo fatto un piccolo tour per l’EP Prey, dove abbiamo raccolto più di 500 sterline a favore dell’associazione MIND, che si occupa di salute mentale. Nel novembre 2019 Chris e la band hanno preso strade diverse e abbiamo incontrato Jordan Maze, che adesso completa la formazione attuale. Da quando è entrato nella band a fine 2019, abbiamo scritto e suonato una serie di nuove canzoni con Jordan, ma anche alcuni nostri pezzi più vecchi. Il primo concerto con lui è stato un live in streaming quest’estate.

 

C’è qualche artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Parlando personalmente, sarebbe Jacoby Shaddix dei Papa Roach. È un artista che mi ha ispirato moltissimo nel fare quello che faccio e la sua energia, il suo modo di stare sul palco hanno una grande influenza su di me. Se riuscissimo a lavorare con lui per un pezzo o un progetto, sarebbe letteralmente il picco della mia carriera. Se sta leggendo questo, contattaci! [ride]

Progetti per il futuro?

Beh, al momento non possiamo suonare se non con capienze estremamente ridotte e non è quello che stiamo cercando, quindi la risposta più semplice è nulla. Non appena sarà permesso esibirsi all’aperto, al chiuso o ai festival, allora ci prenoteremo e faremo di nuovo concerti senza sosta. Ad ogni modo, siamo al lavoro su nuova musica. Alcuni pezzi sono pronti per essere rilasciati e c’è un sacco di nuovo materiale su cui stiamo costantemente lavorando e che stiamo rifinendo. The Lesson, Indemnify e Eight usciranno nei prossimi mesi e c’è l’idea di raccogliere questi ed altri pezzi in un terzo progetto per la fine dell’anno, che sia pronto per quando tornerà la musica dal vivo.

 

Francesca Di Salvatore

Tre Domande a: Tugo

Come e quando è nato questo progetto? 

“Il progetto Tugo nasce agli inizi del 2018 dopo un paio di anni di letargo del nostro precedente progetto musicale. Venendo da anni di militanza sui palchi di mezza Italia con un progetto acustico piuttosto scanzonato, la voglia di infilare nuovamente il jack nell’ampli e imbracciare, stavolta, strumenti elettrici era tanta; abbiamo così deciso di dare vita a qualcosa di nuovo, partendo però da solide radici: un’amicizia ventennale e la sala prove di sempre. Mesi e mesi di jam interminabili in sala prove e a metà 2019 siamo tornati a calcare i palchi forti di 7/8 nuove canzoni firmate Tugo.”

 

Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

“Ruvida: quando sul palco si è solo in tre c’è poco da fare: si butta il cuore oltre l’ostacolo, ci si mette tanta passione e, se si cerca di suonare rock, provi a fare quanto più casino possibile coi pochi mezzi a tua disposizione. Power trio raffinati nella scena rock internazionale non ne ricordo: Nirvana, Biffy Clyro, Muse, Motorhead, Verdena… tutta gente che ha sempre prediletto l’acufene alla partitura per corno inglese.

Genuina: per carità, belle le schede audio, bello Logic e Ableton Live, belli i sampler, i sintetizzatori modulari e le drum machine. Ci piacerebbe davvero tanto sperimentare nuove sonorità, imparare a miscelare le forme d’onda per riprodurre digitalmente il barrito dell’elefante indiano; purtroppo il tempo che possiamo dedicare ad imparare ad utilizzare questi device è poco (abbiamo ormai una certa età) per cui, per adesso, facciamo ancora alla vecchia: jack nell’ampli, volume sul 8/9 e pedalare. Pochi fronzoli e tanta voglia di picchiare sulle pelli.

Nostalgica: il nostro suono, se anche solo ci guardiamo in casa (Italia), non è certo la moda del momento. Tra fenomeni it-pop e trap, sedicenti cantautori e finti gangsta, la scena rock nostrana è dormiente da anni. Siamo cresciuti musicalmente a cavallo degli anni ’00 e imprescindibilmente ne abbiamo assorbito i suoni e l’attitudine provando poi a riproporli coi nostri pezzi. Una battaglia persa in partenza ? Chi lo sa…”

 

Progetti futuri?  

“Nelle prossime settimane uscirà il video di Giorni, il primo singolo estratto dall’omonimo EP. Sicuramente dopo i bagordi del release party torneremo in sala prove per comporre nuovi pezzi che, molto probabilmente, ci porteranno in studio nuovamente prima della fine dell’anno. Al momento non abbiamo ancora live programmati, l’inverno si prospetta avaro di occasioni per la musica dal vivo soprattutto quando si parla di band emergenti; vedremo dove ci porterà la fama scaturita dal lancio del nostro primo EP e, nel frattempo, ci godiamo il “lavoro” in sala prove.”

Three Questions to: Stone Sea

How and when was this project born?

Stone Sea was formed by Elvis Suhadolnik Bonesso around 2013 in São Paulo, in Brazil. After the release of the album Origins, Elvis moved to Ireland, where Stone Sea became a band with three members and released two EPs, Vaporizer and Mankind Maze. The latter also includes the track Dream Song, whose music video has been recently released.”

 

If you had to sum up your music in three words, what would you choose and why?

“Strenght, submission and time. I like to imagine our songs like sea waves hitting the shores. The sea and the stones are the same, but time defines the correlation between one and another.”

 

What would you like to inspire in those who listen to your songs?

“Inspiring people not to be afraid to be themselves and to accept changes, which are the only-known constant in our lives.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto? 

Intorno al 2013, gli Stone Sea sono stati fondati da Elvis Suhadolnik Bonesso a San Paolo, in Brasile. Dopo l’uscita dell’album Origins, Elvis si è trasferito in Irlanda, dove gli Stone Sea sono diventati una band di tre persone e abbiamo pubblicato due EP, Vaporizer e Mankind Maze. Quest’ultimo include anche la canzone Dream Song, di cui abbiamo recentemente fatto uscire il video. 

 

Se dovessi riassumere la vostra musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Forza, sottomissione e tempo. Mi piace pensare alle nostre canzoni come le onde del mare che si infrangono sulla costa. Il mare e gli scogli restano gli stessi, ma è il tempo a definire il rapporto tra l’uno e l’altro.

 

Cosa vorreste trasmettere a chi vi ascolta?

Ispirare le persone a non avere paura di essere loro stessi e ad accettare i cambiamenti, che sono l’unica costante conosciuta nelle nostre vite. 

 

Francesca Di Salvatore

An Early Bird “Echoes of Unspoken Words” (Artist First, 2020)

In punta di piedi

 

Un titolo che è un paradosso e undici tracce che, guidate da un’onnipresente chitarra e una voce calda, esplorano una terra di mezzo tra il folk, il pop e l’indie: così si presenta Echoes of Unspoken Words, il secondo album di An Early Bird, al secolo Stefano De Stefano. 

Le protagoniste sono quindi le parole non dette, quelle più intime e silenziose, ma che spesso e volentieri pesano più di tutte. Ad ogni modo, in questo disco trovano finalmente la forza di emergere grazie all’incontro armonioso e ben congegnato tra chitarre e sintetizzatori, tra acustico e non. 

Echoes of Unspoken Words è un susseguirsi di immagini e toni malinconici, nostalgici ma anche “cinematografici” — se così vogliamo dire — perché ogni canzone potrebbe tranquillamente essere inserita nei titoli di testa o di coda di un film di Greta Gerwig. Non a caso, anche i video che accompagnano i cinque singoli pubblicati dal cantautore in questi mesi, da State Of Play a One Kiss Broke The Promise, raccontano una storia ben studiata e sanno davvero tanto di cinema indie.

Ma, come già è stato detto, è proprio il paradosso, quello già anticipato dal titolo e declinato con varie sfaccettature, ad essere il filo conduttore tra i vari pezzi. 

Abbiamo il guardarsi un po’ masochisticamente da lontano ma senza cercarsi fisicamente in From Afar, la necessità unita alla difficoltà di stabilire una connessione con l’altro in Racing Hearts, il desiderio destinato a rimanere irrealizzato di poter cambiare il passato in Talk To Strangers, in collaborazione con Old Fashioned Lover Boy, o ancora un “heaven in hell”, un paradiso all’inferno in Stay, simbolo che anche nel male c’è qualcosa di buono. Tutte queste piccole, umane e spesso dolorose contraddizioni si dipanano sulle corde di una chitarra e colpiscono chi ascolta nel modo più delicato e dolce possibile. 

Echoes Of Unspoken Words è quindi sì un album onesto, ma che arriva in punta di piedi e ti rimane accanto. 

Ed è una fortuna che sia uscito proprio in questo periodo dell’anno: un’ottima colonna sonora per prendersi del tempo per riflettere su se stessi, magari in una giornata di pioggia autunnale.

Oppure, se preferite, per immaginarsi come i protagonisti di un indie movie di Greta Gerwig.

 

An Early Bird

Echoes Of Unspoken Words

Artist First

 

Francesca Di Salvatore