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Mese: Marzo 2021

Tre Domande a: Piqued Jacks

Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

Energia, sincerità, ambizione.
Energia. Viviamo (vivremmo, se potessimo) per il palco e per quello il live ci dà ogni volta. La nostra musica è fatta per essere suonata e condivisa davanti ad altre persone, per scambiare con loro – appunto – le nostre energie.
Sincerità. Atteggiarci per sembrare chi non siamo non fa per noi, siamo sempre stati genuini sia nel modo di essere ma anche di suonare. Crediamo che essere se stessi sia un punto di forza anziché qualcosa da mascherare, un po’ in controtendenza con la logica abbastanza diffusa dell’apparire e del prendersi forse troppo sul serio.
Ambizione. La nostra storia e il nostro percorso sono abbastanza esaustivi in questo senso; ad ogni disco ed ogni tour abbiamo sempre cercato di alzare l’asticella, confrontandoci con realtà sempre più importanti e internazionali. Sappiamo dove vogliamo arrivare e siamo consapevoli delle nostre qualità.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Tutto quello che abbiamo appena descritto, condividere in maniera molto naturale ogni aspetto del nostro mondo, trasmettere quello che la musica dà a noi senza nessun filtro di mezzo. Vorremmo instillare curiosità, aiutare le persone a capire che esiste un grande sottobosco di musica non mainstream con una sua bellezza e un fascino che ha bisogno di essere esplorato e portato alla luce. Ci piacerebbe che arrivasse il nostro messaggio di positività e resilienza, che ci permetta di connetterci con chi ci ascolta attraverso i testi e la nostra visione della vita.

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Domande del genere sono sempre pericolose perché danno sfogo ai nostri sogni più reconditi e alle idee di featuring più assurde, però stavolta mentre pensavamo ai vari Beck, Jack Black, Ozzy Osbourne, Toyah Willcox e Steve Lukather, avevamo la TV accesa ed è arrivata l’illuminazione. Vi diciamo Seth MacFarlane, il creatore dei Griffin. Da fan della serie, arrivare ad un livello tale da essere inseriti in un flashback politically (s)correct dei Griffin e magari poterci ridoppiare in inglese maccheronico, sarebbe un sogno che si avvera.

Spiderland fa 30 anni ed io mi rompo un piede. Una storia ricorsiva.

Fact: stamattina credo di essermi rotto mignolo (e forse anulare) del piede sinistro, cocciando violentemente contro il divano, il quale, poveretto si trova da svariato tempo in quella posizione del soggiorno ma che stamattina per un qualche remoto motivo ha deciso di frapporsi fra me e la mia destinazione;

Fact #2: due anni fa grossomodo mia mamma ha inopinatamente preso l’iniziativa di cestinare la maglietta degli Slint che avevo acquista al TPO di Bologna il 5 marzo 2005 ed è accaduto solamente perché per lavori in corso nella mia futura casa ero stato costretto ad un trasloco temporaneo, giusto per precisare;

Fact #3: molti anni prima del concerto di cui sopra, con ogni probabilità a ridosso dell’uscita del disco che oggi di anni ne fa 30, l’io bambinetto di quasi 10 anni, fuggendo dalle grinfie della sua (che sarebbe mia) mamma (la stessa di prima), con un improvviso cambio di direzione causò la frattura (o slogatura, ora non ricordo l’esito degli esami strumentali che vennero effettuati all’epoca) della di lei caviglia. Ricordo che col fiatone mi voltai a guardare il misfatto. E allora pensai “Ti sta bene, così siamo pari per quella volta, tra 20 anni circa, in cui deciderai di buttare la mia maglietta più preziosa (che aveva un minuscolo forellino sulla schiena, NdA). Aveva le date del tour sulla schiena. Davanti La Foto. Quella. Quella della copertina.

Era bellissima.

Non credo di averla ancora perdonata.

Ora.

Tutto sto preambolo per dire cosa?

Beh c’è senza dubbio una certa ricorsività in tutto ciò, perché esce Spiderland e mia mamma si azzoppa, Spiderland fa 30 anni e mi azzoppo io. Più o meno a metà quel concerto che resta uno (IL?) dei momenti più memorabili della mia vita. Perché dai, diciamocelo, gli Slint erano sciolti da tempi immemori, non era a memoria ancora partita sta corsa al tour evocativo che poi è stata una pratica iper abusata negli ultimi anni (sia chiaro, non sono affatto contrario a queste iniziative, anzi: c’ero per i Built To Spill, per i Black Heart Procession, per i Neutral Milk Hotel e molti altri), per cui quando credo sul retro di Rumore o di qualche rivista del genere lessi della notizia fu uno shock (sì, first reaction), perché accadeva qualcosa che al tempo non credevo sarebbe mai stata possibile (di fatti poi, al live dei June of 44 di qualche anno fa fui meno sorpreso e un po’ anzi ricordo che fuori dal Locomotiv mi atteggiavo e fingevo disinteresse perché avevo uno storico alle spalle, ma in realtà a Information and Belief stavo piangendo).

E poi che altro. Non lo so, è difficile da dire. Utilizzo quella copertina per tutti i profili social attualmente in uso, ho un pseudo blog chiamato For Dinner, non sono mai stato a Louisville nel Kentucky e quei 39 minuti li conosco meglio di ogni altra cosa con la quale io abbia mai avuto a che fare. 

E anche oggi, e trent’anni dall’uscita, a diciamo 19, 20 dal primo ascolto, trasalgo spesso, e grossomodo negli stessi punti, che sono molti, e ne voglio scegliere uno per traccia:

su Breadcrumb Trail all’attacco di “Spinning ‘Round, my head begins to turn. I shouted, and searched the sky For a friend”. Perché quel motivo lo hai già sentito da poco, ne sei ancora rapito, poi c’è quel piccolo intermezzo recitato e poi di nuovo giù nell’abisso ed io sinceramente ancora oggi fatico a contenere tanta bellezza;

su Nosferatu Man quasi tutta la seconda parte, quel lungo intervallo solo strumentale, perché se lo ascolti in cuffia e ti concentri sul ritmo che imprime la batteria le chitarre ti danno un effetto così straniante che rischi di perdere il pieno possesso delle facoltà mentali;

su Don, Aman mi fa impazzire che sia una canzone che si regge su due sole chitarre, nient’altro. E il momento in cui attaccano le distorsioni al termine del crescendo di “Don left, And drove, And howled, And laughed, At himself. He felt he knew what that was”. I classici momenti epici e dove trovarli. Ah, per inciso le chitarre sono una di Pajo, eh vabbè, e l’altra è di Britt Walford, che nelle altre cinque sta dietro le pelli (e la foto che vedete, scattata da me medesimo, è proprio relativa a questo brano;

su Washer cosa dire… sarebbero così tanti i momenti da segnalare che dico che il passaggio “Wash yourself in your tears / And build your church / On the strength of your faith” è illegale sia stato partorito da un ventenne;

su For Dinner, che è la cosa più bella successa alla musica in ogni tempo (fino al 16/09/2005 e non dirò mai perché a meno che qualcuno non arrivi con la risposta) l’ipnotico finale, da 4:11 a 4:51 grossomodo (dio mio quanto adorò la serialità);

per la conclusiva Good Morning, Captain non dirò quel disperato “I miss you”, no. Troppo ovvio. Ciò che mi fa impazzire è quello che accade poco prima, dal minuto 6:01 fino al finale, il crescendo orchestrato dalla batteria di Walford, che per tre giri tiene le briglie corte agli altri tre, dosando i colpi, per poi mollare tutto al quarto e scatenare il pandemonio, ed il resto è storia.

Il finale non c’è perché devo fare ghiaccio perché qua se non migliora la situazione mi tocca andare a fare una visitina al Pronto Soccorso a fare un paio di radiografie.

 

Alberto Adustini

Tre Domande a: Lumache Rosse

Come stai vivendo questi momenti così difficili per il mondo della musica?

Sinceramente male. Momento difficilissimo per il mondo in sé e di conseguenza per la musica che è una delle sue diramazioni più dirette. Io come tutti coloro che si esprimono in questo modo, vivo un periodo incerto. Noi tutti viviamo di emozioni, ed è difficile provarle in questo momento.
Sono sincero nel dire che le prime giornate in cui obbligatoriamente dovevamo stare rinchiusi, mi hanno fatto bene. Venivo da un periodo di forte repentinità in cui raramente riuscivo a trovare del tempo per me. La prima esperienza è stata positiva, necessitavo di tempo per riflettere; desideravo quella condizione momentanea per ristabilire l’ordine interno e dedicarmi a quello che dovevo fare. Certo che appena quella momentanea sosta si è tramutata in mesi, ad oggi in più di un anno, non è più stata e non è una condizione piacevole.
Penso di viverla male come tutti. Guardo molti film e mi fa strano vedere le scene per strada, dove la gente si abbraccia; quello che era la normalità ora pare inusuale.
Oggi è dura, con continui spiragli di apparente quiete per poi ritornare nuovamente rinchiusi; è un continuo sbalzo altalenante che fa perdere la fiducia e fa scendere il morale. Vivo di tisane che mi scaldano e mi tengono quieto, con sottofondi ambientali e pacati per sovrastare i caotici rumori di città.
Il mondo si è fermato e noi con lui; molti locali storici hanno chiuso e il sipario dello spettacolo si è inginocchiato. A volte penso ai vari tour interrotti e spero di veder presto la luce alla fine di questo tunnel.

 

Come è quando è nato questo progetto?

In realtà questa storia non penso di averla mai raccontata fino in fondo: questo progetto è nato nel 2015, quando conobbi per caso un certo Ciga, un amico di amici; entrammo subito in sintonia, vivevamo esperienze folli e bevevamo vino ascoltando la stessa musica.
Un giorno ero solo in camera mia con un ukulele, acquistato qualche giorno prima, ad un certo punto suonando le prime quattro note che impari è uscita una canzone, che ho subito registrato con un messaggio vocale, mandandola a lui; mi chiese di chi fosse, io gli risposi mia. Mi ha chiamato immediatamente dicendomi che era una delle cose migliori che avesse mai sentito. Da allora ci trovammo spesso dopo i pomeriggi delle superiori a casa mia, a casa sua, nei prati, nelle case di altri. Io suonavo e insieme davamo voce a quelle parole scritte dalla mia penna.
Registravamo in cantina con un computer vecchissimo, con una ventola che surclassava il volume della nostra voce, fuori tempo, stonati, ma quello che usciva era speciale, per noi e per i nostri amici.
Lumache Rosse era il nostro nome, nato da un disegno di Domer (un altro nostro socio). Scrivevo principalmente io, ma eravamo un duo e la sua presenza era tanto essenziale quanto la mia. Forse non avrei mai scelto questa via senza il suo supporto e nel suo apparente silenzio, mi dava la forza per urlare. Le prime nostre canzoni le abbiamo pubblicate su YouTube.
Come spesso accade, ad un certo punto le nostre strade si sono divise; Ciga sarebbe partito per l’Australia e alla festa per il suo addio abbiamo litigato per vari motivi.
Ho deciso di continuare, prendendo atto di tutte quelle piccole sfumature che mi avevano portato fino a lì. Ero solo, ma tenni il nome plurale, perché le persone possono anche allontanarsi, ma si insediano dentro a dei solchi profondi nella nostra vita, senza mai andarsene davvero.
Ho deciso di registrare nuovamente tutti brani e racchiuderli in un EP, titolato Via Cavour’, uscito nel 2018; Via Cavour è una delle parole contenute nella canzone che anni prima gli mandai in quel messaggio vocale.
Io e Ciga ci siamo riappacificati e ancora oggi mi supporta.

 

Progetti futuri?

Sto lavorando a un album da più di due anni ormai; la pandemia ha notevolmente rallentato la produzione e la possibile uscita, ma siamo a un buon punto. Quando sarò pronto, lo farò uscire.
È una tappa importante e vorrei che fosse valorizzata al meglio; racchiuderà i quattro singoli già editi, Rondine / Polvere / Ragnatela / Pale Eoliche, con altri brani di questo stampo che parlano dello stesso periodo di stesura. Mattia Tavani, il risolutore dei miei problemi, è il produttore che sta curando queste uscite ed è un onore lavorare con un artista che stimo moltissimo, così come i miei soci Riccardo e Alberto, hanno contribuito a rendere tutto questo reale, ma soprattutto speciale.
Lo ritengo una tappa essenziale, solo quando potrò condividerlo con tutti passerò al livello successivo.

Sanremo 2021: Apologia di un Festival

Disclaimer: in questo articolo si parlerà solo di musica. Eviterò quindi i riferimenti a siparietti, politica e monologhi vari su qualsiasi questione perché non è questa la sede.

 

“Non credo di esser superiore/anche io guardo Sanremo” cantavano nel 2011 gli Zen Circus ne I Qualunquisti, una canzone che come poche riassume l’essenza del nostro paese. Ed è vero, perché ogni anno questo concentrato di italianità in mondovisione (e viene anche omaggiato in tutto il mondo) tocca vette altissime di share e unisce un’intera nazione sotto il segno della ballad. 

Ma c’è un però.

Da qualche anno a questa parte, infatti, il “genere Sanremo” è andato in crisi. Un genere che ha dei canoni ben precisi e sono convinta che tutti voi, sentendo questa parola, abbiate già in mente un tipo di canzone in particolare. È quindi per questo che la kermesse sta spopolando sempre di più nella fascia 18-25 — basta farsi un giro su Twitter per rendersene conto — contro qualsiasi pronostico. 

Da un lato abbiamo il tentativo, quest’anno più forte che mai, di svecchiare il festival con artisti giovani, freschi, usciti spesso e volentieri da club e locali vari. Nomi come Fulminacci, Madame, La Rappresentante Di Lista, Coma_Cose che, al momento della presentazione dei cantanti in gara a Dicembre, hanno piacevolmente sorpreso me e lasciato un po’ sbigottita mia madre, che invece continuava a chiedersi chi fossero. 

Il target è cambiato, e di conseguenza anche la musica è cambiata. Certo, non possiamo prescindere del tutto dalla quota “Tipica Canzone Sanremese”, ovviamente presente e apprezzata in particolare dalla giuria demoscopica, ma c’è anche stata varietà. L’egemonia culturale della ballad è stata sconfitta e i premi assegnati sono uno specchio di questo cambiamento: non a caso abbiamo avuto miglior testo a Madame (così come lo vinse Rancore lo scorso anno, uno dei primi a portare il rap all’Ariston), ma soprattutto dobbiamo parlare dei vincitori. 

I Måneskin.

Possono piacere o no piacere (io personalmente ho la loro canzone a rotazione da martedì) ma è innegabile che siano dei performer clamorosi. Nel 2016 aprirono gli Imagine Dragons al Milano Rocks davanti a 60.000 persone, sotto un diluvio universale, e tennero il palco come se lo facessero da tutta una vita. Sono spavaldi, energici, sopra le righe e forse non saranno una rivoluzione nel panorama mondiale della musica, ma per il Festival sicuramente lo sono, quindi la loro vittoria può solo che farmi piacere (e darmi speranza per l’Eurovision di maggio).

Insomma, è stata premiata una band che fa un genere che non ha niente a che vedere con lo standard festivaliero, in cui il cantante è classe ‘99 (ha la mia età e qui devo ripetermi: il target è cambiato, la rappresentazione è cambiata con buona pace di chi si lamenta) e che durante la serata cover si è esibita con Manuel Agnelli, quindi se lui ci vede qualcosa, chi sono io per negarlo.

Ma non è solo lo svecchiamento della scaletta a far sì che a 21 anni qualcuno pensi che sia una buona idea fare nottata per seguire Sanremo. 

Perché Sanremo, come tutta la TV da qualche anno, sa che lo show (sì, lo show, perché non dimentichiamoci che non c’è solo la musica in ballo, ma è un evento di portata mondiale) non lo fai soltanto in televisione, ma anche e soprattutto su internet. 

Guardare il Festival — o per i più assennati solo le performance il giorno dopo, riducendo così i tempi di un terzo — significa avere accesso alla quantità stratosferica di meme, video e in generale contenuti prodotti sul web. Insomma, senza aver visto la performance di Aiello della prima sera, il video in cui il suo pezzo è stato ridoppiato con la voce del signore di “signora i limoni” perde di significato e magia. 

E sono proprio i meme a far sì che anche le vecchie, vecchissime glorie — da Ornella Vanoni a Donatella Rettore passando per Orietta Berti (che sono sempre più convinta sia stata invitata per la quota meme e non per far piacere al vecchio pubblico target) — abbiano un seguito enorme e creino più interazioni di molti altri che invece non hanno lo stesso potenziale sfruttabile da internet.

Insomma, il Festival può piacere o meno, ma è anche vero che negli ultimi anni si sia ricreduto anche chi non avrebbe mai pensato di guardarlo perché “è sempre la stessa musica”.

E invece, fortunatamente, la musica sta cambiando. 

 

Francesca Di Salvatore

Foto di Copertina: Instagram @maneskinofficial

La Rappresentante di Lista “My Mamma” (Woodworm, 2021)

Quando penso a La Rappresentante di Lista, immagino un abbraccio tra l’arte e la politica e quando ascolto My Mamma, il quarto album del duo composto da Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, mi immagino come una donna resistente.

My Mamma è un disco che ha deciso da che parte stare, che si schiera. È un disco libero, fluido, accogliente e pieno di spigoli” ha scritto La Rappresentante di Lista sul suo account ufficiale di Instagram, ponendo nuovamente l’accento sul tema della fluidità. Il gruppo ha dichiarato più volte di non voler essere definito con un genere specifico e quindi Lucchesi, Mangiaracina e la loro band hanno preso in prestito dalle rivendicazioni sull’identità sessuale il termine “queer”, che indica una non conformità alla cultura predominante e che descrive la loro musica. 

L’album mette al centro la figura femminile e lo annuncia con una copertina esplosiva che ritrae un nudo che gravita intorno alla vulva in primo piano: un’opera dell’artista palermitana Manuela Di Pisa, che si è ispirata a L’origine del mondo di Gustave Courbet. L’immagine richiama la vicinanza del gruppo alle lotte femministe attuali. Nel formato fisico sono previste tredici tracce, tra cui tre brani strumentali (Preludio, Lavinia e Invasione) che, invece, non sono presenti nel formato digitale. 

Alieno, uscito il 12 febbraio, è il primo singolo di My Mamma e con tutta la potenza della voce di Veronica Lucchesi, racconta la voglia di sconfiggere il dolore e provare amore. La Rappresentante di Lista su Instagram ha affermato che “Alieno è una canzone fuori posto, racconta di quando ci si sente a pezzi, avvilite, presi a botte dalla vita, spaesate”. Con il ritmo incalzante e il ritornello “Sono più forte del piacere, sono l’amore/Sono più forte dell’amore, sono il dolore/Sono più forte dеl piacere, sono l’amore/Sono più fortе dell’amore”, è difficile restare fermi. Si conferma, quindi, quella che per molti ormai è una certezza: La Rappresentante di Lista fa riflettere, ma fa anche ballare. Certezza che, peraltro, è arrivata anche sul palco del Festival di Sanremo con Amare e con la presenza scenica grintosa di Veronica Lucchesi, ben nota a chi ha assistito ai concerti del gruppo. 

Se si vuole fare una riflessione sull’attualità, non può mancare il tema dell’ambiente. Sarà è una canzone che parla della fragilità del pianeta che si riflette inevitabilmente nella dimensione individuale dei suoi abitanti e nella collettività. Il brano si apre con i drammatici versi “Sarà che la mia terra lentamente/Smette di respirare.”

Ma arriviamo ora alla canzone forse più emotiva di tutto l’album: Resistere. Le prime note accompagnano l’ascoltatore verso una strofa parlata che poi si apre nell’armonia del canto “Voglio provare ad esistere/La mia natura è resistere/E non mi importa di perdere/Quello che mi serve adesso è vivere.” A un certo punto, la voce di Veronica Lucchesi sovrasta la musica con quello che si potrebbe definire un monologo recitato, una riflessione carica di dolore e speranza. “Cosa vuoi che ti dica?/Sono a pezzi ma vado avanti.”

My Mamma è un viaggio introspettivo, un album che racconta il dolore, la fragilità e la voglia di andare avanti e amare, aiutandoci a conservare la voglia di ballare, che di questi tempi è tutt’altro che scontata. La Rappresentante di Lista ha scritto una storia travolgente che abbraccia l’attualità e la politica e noi dovremmo ascoltarla nell’attesa del primo concerto possibile. 

 

La Rappresentante di Lista

My Mamma

Woodworm

 

Marta Massardo