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Spiderland fa 30 anni ed io mi rompo un piede. Una storia ricorsiva.

Spiderland fa 30 anni ed io mi rompo un piede. Una storia ricorsiva.

| Francesca Garattoni

Fact: stamattina credo di essermi rotto mignolo (e forse anulare) del piede sinistro, cocciando violentemente contro il divano, il quale, poveretto si trova da svariato tempo in quella posizione del soggiorno ma che stamattina per un qualche remoto motivo ha deciso di frapporsi fra me e la mia destinazione;

Fact #2: due anni fa grossomodo mia mamma ha inopinatamente preso l’iniziativa di cestinare la maglietta degli Slint che avevo acquista al TPO di Bologna il 5 marzo 2005 ed è accaduto solamente perché per lavori in corso nella mia futura casa ero stato costretto ad un trasloco temporaneo, giusto per precisare;

Fact #3: molti anni prima del concerto di cui sopra, con ogni probabilità a ridosso dell’uscita del disco che oggi di anni ne fa 30, l’io bambinetto di quasi 10 anni, fuggendo dalle grinfie della sua (che sarebbe mia) mamma (la stessa di prima), con un improvviso cambio di direzione causò la frattura (o slogatura, ora non ricordo l’esito degli esami strumentali che vennero effettuati all’epoca) della di lei caviglia. Ricordo che col fiatone mi voltai a guardare il misfatto. E allora pensai “Ti sta bene, così siamo pari per quella volta, tra 20 anni circa, in cui deciderai di buttare la mia maglietta più preziosa (che aveva un minuscolo forellino sulla schiena, NdA). Aveva le date del tour sulla schiena. Davanti La Foto. Quella. Quella della copertina.

Era bellissima.

Non credo di averla ancora perdonata.

Ora.

Tutto sto preambolo per dire cosa?

Beh c’è senza dubbio una certa ricorsività in tutto ciò, perché esce Spiderland e mia mamma si azzoppa, Spiderland fa 30 anni e mi azzoppo io. Più o meno a metà quel concerto che resta uno (IL?) dei momenti più memorabili della mia vita. Perché dai, diciamocelo, gli Slint erano sciolti da tempi immemori, non era a memoria ancora partita sta corsa al tour evocativo che poi è stata una pratica iper abusata negli ultimi anni (sia chiaro, non sono affatto contrario a queste iniziative, anzi: c’ero per i Built To Spill, per i Black Heart Procession, per i Neutral Milk Hotel e molti altri), per cui quando credo sul retro di Rumore o di qualche rivista del genere lessi della notizia fu uno shock (sì, first reaction), perché accadeva qualcosa che al tempo non credevo sarebbe mai stata possibile (di fatti poi, al live dei June of 44 di qualche anno fa fui meno sorpreso e un po’ anzi ricordo che fuori dal Locomotiv mi atteggiavo e fingevo disinteresse perché avevo uno storico alle spalle, ma in realtà a Information and Belief stavo piangendo).

E poi che altro. Non lo so, è difficile da dire. Utilizzo quella copertina per tutti i profili social attualmente in uso, ho un pseudo blog chiamato For Dinner, non sono mai stato a Louisville nel Kentucky e quei 39 minuti li conosco meglio di ogni altra cosa con la quale io abbia mai avuto a che fare. 

E anche oggi, e trent’anni dall’uscita, a diciamo 19, 20 dal primo ascolto, trasalgo spesso, e grossomodo negli stessi punti, che sono molti, e ne voglio scegliere uno per traccia:

su Breadcrumb Trail all’attacco di “Spinning ‘Round, my head begins to turn. I shouted, and searched the sky For a friend”. Perché quel motivo lo hai già sentito da poco, ne sei ancora rapito, poi c’è quel piccolo intermezzo recitato e poi di nuovo giù nell’abisso ed io sinceramente ancora oggi fatico a contenere tanta bellezza;

su Nosferatu Man quasi tutta la seconda parte, quel lungo intervallo solo strumentale, perché se lo ascolti in cuffia e ti concentri sul ritmo che imprime la batteria le chitarre ti danno un effetto così straniante che rischi di perdere il pieno possesso delle facoltà mentali;

su Don, Aman mi fa impazzire che sia una canzone che si regge su due sole chitarre, nient’altro. E il momento in cui attaccano le distorsioni al termine del crescendo di “Don left, And drove, And howled, And laughed, At himself. He felt he knew what that was”. I classici momenti epici e dove trovarli. Ah, per inciso le chitarre sono una di Pajo, eh vabbè, e l’altra è di Britt Walford, che nelle altre cinque sta dietro le pelli (e la foto che vedete, scattata da me medesimo, è proprio relativa a questo brano;

su Washer cosa dire… sarebbero così tanti i momenti da segnalare che dico che il passaggio “Wash yourself in your tears / And build your church / On the strength of your faith” è illegale sia stato partorito da un ventenne;

su For Dinner, che è la cosa più bella successa alla musica in ogni tempo (fino al 16/09/2005 e non dirò mai perché a meno che qualcuno non arrivi con la risposta) l’ipnotico finale, da 4:11 a 4:51 grossomodo (dio mio quanto adorò la serialità);

per la conclusiva Good Morning, Captain non dirò quel disperato “I miss you”, no. Troppo ovvio. Ciò che mi fa impazzire è quello che accade poco prima, dal minuto 6:01 fino al finale, il crescendo orchestrato dalla batteria di Walford, che per tre giri tiene le briglie corte agli altri tre, dosando i colpi, per poi mollare tutto al quarto e scatenare il pandemonio, ed il resto è storia.

Il finale non c’è perché devo fare ghiaccio perché qua se non migliora la situazione mi tocca andare a fare una visitina al Pronto Soccorso a fare un paio di radiografie.

 

Alberto Adustini