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Tre Domande a: Malacarna

Tre Domande a: Malacarna

| Redazione

Come e quando è nato questo progetto?

Malacarna nasce nel 2016 durante un breve periodo di permanenza nel mio paese d’origine Brienza. Il tutto accade nella mia casa di campagna, circondata da colline fiorenti che inghiottono la valle disseminata di vigneti, ulivi e querce. In cima alla montagna di fronte, si erge un Santuario dell’anno 1000 che con i suoi rintocchi di campana mi osserva da quando ero bambino.Questo luogo ha sempre rappresentato per me uno spazio di profonda ispirazione e intimità ed è stato determinante nella composizione di questo progetto.
Il tutto nasce con dei Blues semplici, rauchi, urlati o sommessi, dove qua e la balenano immagini sacre e profane, amore e morte. La lingua inglese ne costituisce l’ossatura con i suoi suoni semplici e immediati che generano sibilanti impossibili da riprodurre nella lingua italiana.
Le tracce registrate chitarra e voce, venivano spedite con un vocale direttamente sul cellulare di Vince. Ciò che mi tornava indietro era entusiasmante, le visioni di quei testi si vestivano di suoni eterei, pungenti, estremi, rumori grezzi allo stato primordiale ma sapientemente cesellati come sculture con echi e delays, elevati all’ennesima potenza da ritmi tribali, rulli incessanti, tuoni che echeggiavano lontani oppure battiti di ali che accompagnavano la voce.
Due direzioni diverse, diametralmente opposte ma in perfetto equilibrio tra loro. Questa è la caratteristica che da sempre accomuna me e Vince. Io che cerco nel blues, la composizione semplice ed essenziale mentre Vince nella sua ricerca sonica è un “alchimista”, intento ad utilizzare i più svariati metodi per vivisezionare un suono per poi ricomporlo in qualcosa di rumoroso ma allo stesso raffinato ed etereo oppure dolce, struggente e intimo.
Il progetto prende vita in questo modo ispirandoci l’un l’altro, io con la mia voce, Vince con suoi suoni.
Inutile dire che la vera svolta è avvenuta quando Vince ha espresso esplicitamente il desiderio di autenticità in questo progetto e che forse era arrivato il momento di usare la nostra lingua (Il dialetto) per raccontare la nostra cultura e le nostre storie.
Per me è stato un duro colpo, mi sono ritrovato nudo davanti ad uno specchio, ho sempre scritto brani in inglese perché il mio background musicale proviene assolutamente dal Blues e dal Rock in tutte le sue varianti. Mi sono ritrovato senza un linguaggio a disposizione, senza un modello dal quale attingere.
Un giorno riflettendo su uno dei brani che avevo già scritto in inglese (Dead Calm Sea), ho intuito che in realtà le immagini dei miei testi risiedevano nei proverbi, nei racconti e nelle figure retoriche appartenenti alla mia cultura.
Dead Calm Sea quel mare calmo ed insidioso non era altro che un proverbio Burgentino “iumë cittë nun passà” ovvero “fiume silente non attraversare” è stato come scoperchiare un contenitore dal quale attingere.
Gli stornelli di mio nonno, gli aneddoti, le canzoni popolari, i luoghi immaginari, terre di Santi e di riti pagani, abitavano la mia immaginazione da sempre.
Quella storia la conoscevo bene, me l’aveva raccontata mia nonna, si collega alla tragica vicenda di una paesana che camminando lungo l’argine del fiume in piena, mise un piede in fallo scomparendo tra le acque impetuose.

Mare Citte (Mare Silente): La prima canzone scritta in dialetto Burgentino, di fatto il brano che ha ispirato il progetto.

Marë cittë

“Si vuó vëní cu mi’ ind’a stu marë cittë
tu më rëcistë a mi
nun passá ca të nichë“

Mare silente

“Vieni con me in questo mare silente
ricordo quando mi dicesti
di non attraversare prima d’annegare”

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Senza dubbio il brano più rappresentativo di questo progetto è Nunn’è Rrëlorë. Questa canzone è stata una delle ultime ad essere concepita ma che porta con sé tutta la consapevolezza di cosa vuol essere Malacarna.
Nunn’è Rrëlorë è un concentrato di tutte le influenze sonore, stilistiche e di linguaggio che io e Vince siamo diventati, componendo questo disco.
Dico: “siamo diventati” perché compere un viaggio musicale inedito, ti porta inevitabilmente ad attraversare un processo di “autoanalisi”, di trasformazione del tuo “io musicale” che ti cambierà per sempre.
Le influenze stilistiche assimilate nel tempo che risiedono dentro di te in forma latente, finalmente vengono alla luce, impregnando così la tua “personalità artistica”, diventando connotati riconoscibili della tua scrittura.
Scavare dentro di sé è un processo di crescita estrema, un processo di maturazione che porta a saziare il proprio “ego creativo” e a rinnovarne la sete.
Tutto ciò è una sorta di effetto a catena che genera nuove energie ed apre a nuove idee e concetti.
Quando si comincia a scrivere, la visione di ciò che si fa è appannata, offuscata, l’embrione non ha forma, sarà il processo finale a definirne i dettagli, i connotati e i contorni con linee definite.
Nunn’è Rrëlorë è la realizzazione del quadro, la visione finale: un insieme di influenze Blues/Tribal/Goth/Industrial/Ambient intrise della passione di Vince per la cinematografia di David Lynch, Jodorowsky e Roger Corman, attraverso una meticolosa e approfondita ricerca.
Anche dal punto di vista lirico il dialetto si impossessa estremamente della sua capacità espressiva, attraverso “la poetica della detrazione “con concetti semplici, evocativi ed eloquenti.
Il ritornello è costituito da uno “Stornello” che recitava spesso mia nonna, la tematica Bene/Male/Vita/Amore/Morte si sintetizza in questo brano, bozzetti di jazz linguistici (come accade nei testi di Bob Dylan) si rincorrono in maniera apparentemente insensata, ottenendo con le due voci in alternanza, la proiezione di visioni contenenti tutti gli elementi costituenti di quest’opera: “la cultura popolare con la sua morale universale, credenze religiose, sacro e profano, superstizioni, detti locali, storie popolari, citazioni, situazioni familiari e storie al confine tra il mitologico e il grottesco”.

Nunn’è rrelore (Non è dolore): Il Vero male Traccia d’apertura dell’EP

Nunn’è rrëlorë

“(Nunn’è rrëlorë) chi rëlorë së sendë (Quand’è rrëlorë) chi perdë l’amandë
(si ‘u pierdë muortë) no nunn’è nniendë
(ma si ‘u pierdë vivë) e ttë passa pë ‘nnandë”

Il vero male

“(Il vero male non è) provare dolore
(il vero male è) perdere l’amato
(se lo perdi morente) non è il vero male
(ma se lo perdi in vita) e ti incrocia ignorandoti”

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Credo che la questione collaborazioni sia una delle cose meglio riuscite di questo progetto. Prima di elaborare Malacarna in chiave dialettale, Vince mi aveva passato Sanacore (Almamegretta) da utilizzare come spunto per la stesura dei testi. Il caso ha voluto che Vince entrasse in contatto col manager di Raiz il frontman degli Almamegretta, da questo incontro è nata un’affinità artistica e stima reciproca che è sfociata in un suo featuring per il brano Oh Signorë.
Una vera e propria perla nel disco, Il timbro di Raiz dona al brano vibrazioni incredibili e la sua performance è indubbiamente da brividi. Con il suo enorme spessore artistico è riuscito ad immedesimarsi sia nel mio dialetto (Lucano) che nelle atmosfere tribal/noise, donando tridimensionalità a tutto il pezzo.
Il senso di gratitudine e di soddisfazione per la collaborazione di Raiz valgono davvero tutti i sacrifici fatti per questo EP. Le mie parole non sono comunque sufficienti ad esprimere quanta stima artistica provo per lui.
L’altro punto di svolta di Malacarna è l’incontro di Vince con l’artista Dorothy Bhawl, colui che ha ricreato La Malacarna in termini estetici, una donna dall’aspetto inquieto, che trasmette un senso continuo di timore, metallo prezioso e metallo povero, sgorgano a fiotti dai suoi polsi, mentre con fare stanco si lascia andare sul suo trono profano. Questo personaggio appare e scompare sotto forma di donna un po’ dappertutto nel disco, si fa carico del suo fardello di condannata dalle malelingue ad essere causa di espiazione e dolore. Ovviamente questo personaggio vuol essere solo un punto di partenza per un discorso molto più strutturato sulle credenze popolari. Dorothy Bhawl è senza dubbio il terzo membro della band, Vince si è limitato a fargli ascoltare i brani e lui ha fatto il resto riuscendo a rendere perfettamente visibili i temi del disco.
È incredibile come le sue opere sembrino scaturire esattamente dai miei testi. La copertina è di forte impatto, si tratta di una lingua su di un vassoio d’argento che sbava oro ma è trafitta da tre chiodi della crocifissione. Il potere evocativo di queste immagini riesce davvero ad imbrigliare, tutti i temi trattati nel disco.