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Iosonouncane @ Parco della Musica

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• Iosonouncane •

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Vieri Cervelli Montel

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Parco della Musica (Padova) // 31 Luglio 2021

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_empty_space][vc_column_text]Nonostante il maltempo di questi giorni risparmi parzialmente la domenica, con la pioggia, in Veneto, ci si impara a convivere.

Ma quella di Iosonouncane, è stata una pioggia sonica che sembra sceneggiatura presso il Parco della Musica a Padova.

L’evento che muove le moltitudini mi mancava. A un anno e mezzo dall’ultima volta, torno ad assistere a un concerto grande e a posteriori possiamo sentenziarlo anche come un grande concerto… come preferite.

Osservo un pubblico insolitamente tranquillo che ancora sta riprovando i meccanismi ormai persi da troppi mesi, parlando di vivere un concerto.

Tutti stanno aspettando sul palco Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, per cui le definizioni generiche, che possono innescare eventuali ilarità, sono sempre inadeguate.

Jacopo, musicista di Buggerru, ha pubblicato da poco il suo terzo album, il monumentale Ira: due ore di musica tra psichedelia, canzone d’autore, elettronica, prog e sperimentazione.

Allora comincio a chiedermi: come suoneranno le sue canzoni? Quali sceglierà? Quanto durerà? Di che umore sarà e soprattutto quante sigarette si fumerà?

Alle 20.30 in punto, ecco il live d’apertura di Cervelli Vieri Motel. Il loro disco uscirà quest’inverno ed è prodotto dallo stesso Jacopo Incani, che li ha voluto fortemente in tour. La loro mezz’ora si palesa con un tradizionale sardo e si conclude con una insolita ma interessante rilettura di Almeno tu nell’universo, forte di un finale con i rumori che arrivano a sconvolgere la melodia originale, un iter apparentemente banale ma audace e ben riuscito. 

Per il resto, i brani si snodano a cavallo tra un Free Jazz e un Post Rock con continue variazioni di dinamica che rendono i brani ancora più affascinanti. Da tenere d’occhio.

Ma arriviamo al dunque. Le 21.30 sono trascorse da poco e Jacopo sale sul palco, accompagnato dai suoi due musicisti Bruno Germano (che ha co prodotto l’album) e Amedeo Perri (che ci ha suonato dentro), con cui forma un trio dai suoni tanto alieni quanto tribali e viscerali. 

I tre sono sistemati di fronte a una serie di synth, campionatori e arnesi vari, vestiti completamente di nero, avvolti dal fumo e illuminati solo da qualche luce rossa e blu.

Non una parola, non un saluto, prima di cominciare, ma ci si getta subito nelle stringenti spire di Ira, una scelta di austerità in un climax crescendo, con brani estratti da questo nuovo disco lungo, ordinato e folle.

Nei primi minuti Incani si dimena per ottenere i giusti volumi, poi inizia il viaggio, un viaggio sonoro a tratti inquietante e funereo, che dall’Africa raggiunge i cieli oscuri del nord Europa e altri continenti obliati.I riferimenti artistici possono essere molti: da Andy Stott ad Apparat, da Scott Walker al tribale del Maghreb ma l’impronta è sempre più la sua, personale e intima, lontana dalle convenzioni e rituali, quasi volesse scrivere una nuova grammatica. Una musica labirintica in cui si ha il piacere di smarrirsi ed infine ritrovarsi.

L’attesa è ripagata da un concerto dall’impatto marmoreo e mastodontico, che esplode in un magma sonoro fragoroso che fa strano vivere seduti.

La musica è una liturgia solenne e drammatica, ostile a tratti violenta, caratterizzata da dilatazioni, pause e brusche accelerate. Senza troppi colpi di scena, abbiamo la conferma della bravura di un artista la cui abilità durante i live non è più una sorpresa. 

Difficile, praticamente impossibile sin dall’inizio, ipotizzare una vaga idea di scaletta. Ok lo ammetto, ho ascoltato diverse volte Ira ma ancora non associo i titoli alle canzoni, considerandola quasi una lunghissimo unico paesaggio sonoro. Forse è giusto interpretarlo così.

Le canzoni si lasciano il passo a vicenda, rincorrendosi, guardandosi negli occhi, in una trama di immagini bellissime. 

I pezzi dell’album Ira traslano dalla nevrosi ritmica al lento, per aprirsi a momenti d’improvvisazione. Chiudo gli occhi e decido di abbandonarmi ad un’esperienza immersiva: una sensazione di trance cui abbandonarsi facendosi accompagnare dalla traiettorie imprevedibili del suono.[/vc_column_text][vc_empty_space][vc_single_image image=”20555″ img_size=”full”][vc_empty_space][vc_column_text]

Apro gli occhi e mi volto verso il pubblico, e attorno a me vedo gambe piegate e corpi seduti rigidi, in ipnosi da suggestioni sonore da ascoltare, immobili.

A tratti voci ancestrali sono spezzate da un dolore innato, mentre le angoscianti trame di synth si levano come a sfidare un ostinato cielo che non vuole saperne di dare tregua.

I pezzi di Ira progrediscono verso l’ossessivo, ma c’è spazio anche per l’esecuzione di Tanca, tratta dall’album Die, uno dei suoi brani più riusciti, che conferma l’entusiasmo di un pubblico ancora molto affezionato al passato. Le teste ondeggiano e solo in questo pezzo si sentono urla entusiaste da hit tanto desiderata in scaletta.

Alcuni, pochi, travolti dall’entusiasmo, provano a riversarsi sui lati per assistere al set in piedi, ma vengono subito riportati a sedere dai più miti consigli dal solerte staff, quasi addestrato dall’artista. 

Nel frattempo la voce di Incani, un inserto momentaneo all’interno di pezzi di lunga durata, assume essa stessa funzione di strumento musicale che ne consente una più facile assimilabilità. 

Degno di nota la facilità con cui passa dall’uso del falsetto a timbri molto bassi, quasi baritonali (con l’uso anche di effetti), che rivelano una crescita importante per Jacopo anche nell’uso del canto. 

La birra, stretta tra le mani, diventa sempre più calda con il passare del tempo e con l’aumentare dell’attenzione che avvolge il viso dei presenti. Così, la lancetta gira in fretta, facendo perdere la cognizione del tempo agli ascoltatori. 

Incani ed i suoi lasciano gli strumenti a concludere da soli l’ultimo loop e i tre si dileguano col favore del buio. 

Sì, se né andato, Jacopo ha finito di stregare Il Parco della Musica di Padova. 

Una zona di convivialità tra tavolini, alimentari e drink ci portano verso una dimensione più rilassata, contornata da fili luccicanti che ci riportano ad un meraviglioso salotto all’aperto.

Sarebbe stato meglio stare in piedi e dimenarsi sotto il palco, ma in attesa di tornare anche a quello, siamo comunque grati per questo meraviglioso e ipnotico momento. Di questi tempi, non è scontato.

 

 

[/vc_column_text][vc_column_text]Foto e testo di Massimiliano Mattiello

 

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Vieri Cervelli Montel

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