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Mese: Settembre 2021

Oasis, Knebworth 1996

This is history, right here, right now!

 

Non capitava, da troppo tempo. Percepire quell’impulso di imprimere, anche soltanto con una parola chiave, una scena, una nota, un’espressione dal potere immaginifico che nasce in un frangente lontano ed unico, ma plasma e modella l’attimo presente. Correre, scorrere su una linea del tempo che tiene insieme una generazione, più di una generazione: quella che ha vissuto di cuore, di pancia agli anni Novanta e quella nata nella stessa decade. Anime benedette e maledette, alcune, per vibrare di un lascito passionale, impetuoso, idealista, fatalista. C’è chi può raccontare, con occhi orgogliosi, l’aver assaporato un’epoca nel suo gusto più autentico e chi può assistere ad un carosello di ricordi a bassa definizione, potentissimi in ogni pixel sgranato, in ogni chitarra distorta.

Non capitava da tempo, da troppo tempo. Perché è la sensazione che ha sempre contraddistinto lo stare in piedi di fronte ad un palco, con la transenna conficcata tra sterno e stomaco, quasi a sorreggere l’apparato dell’emotività. In questo caso, un concerto c’è ma su pellicola, sotto forma di documentario, di gioiello d’archivio. Musica e cinema, due dimensioni al limite del fantascientifico — oggi — in un 2021 post apocalittico in cui il sovvertimento pandemico e planetario ha tracciato un confine netto tra ciò che era prima e ciò che sarà. Ma nessun anacronismo, nessuna nostalgia ingiallita, soltanto verità leggendaria e testimonianze da pelle d’oca in Oasis, Knebworth 1996, il film documentario diretto da Jake Scott sui due concerti biblici della band inglese, nell’area verde dell’Hertfordshire, raggiunta — il 10 e l’11 agosto di venticinque anni fa — da 250.000 persone.

Location battezzata da nomi sacri – Led Zeppelin, gli ultimi Queen di Freddie Mercury – e da subito riconosciuta per quel qualcosa di “aristocratico”. La sfumatura complementare di un gruppo nato tra i quartieri popolari di Manchester, tra le mura intrise di birra e frustrazione dei pub, e giunto a distanza di ventiquattro mesi dall’esordio all’apice della propria carriera e del rock planetario. Un record firmato fratelli Gallagher, capaci di radunare una folla oceanica tanto eterogenea quanto accomunata da un’unica missione: vedere gli Oasis. Ed è proprio sulla prospettiva dei fan che viene incentrata la narrazione, non soltanto dell’evento ma anche di tutto quel corollario di esperienze, di avventure che lo precedono e lo seguono. Capitoli di uno dei tomi dell’enciclopedia della vita, quello relativo alla giovinezza, alla leggerezza, alla speranza. Quello che sporge sempre qualche centimetro in più sullo scaffale. La copertina consunta, il tratto inossidabile delle impronte che, pagina dopo pagina, hanno fatto la storia. Una storia pronta ad essere riletta, riguardata, riascoltata.

 

 

“The best of all things that come our way” — La corsa ai biglietti e l’attesa

Nessuna news virale, nessun annuncio ufficiale su siti o social, nessun tweet lanciato alla velocità della luce. Nel 1996, la due-giorni di Knebworth venne accennata da Noel Gallagher durante un’intervista promozionale e, da lì, rimbalzò su cartelloni, riviste musicali, tg nazionali. Il giorno della messa in vendita dei biglietti è riportato alla mente da coloro che parteciparono come un tripudio di sveglie programmate, attese interminabili al telefono, file chilometriche fuori dalle sedi dei circuiti ufficiali, voli dall’Italia con il sogno di due ticket fortunati. Stringerli in mano, vederli arrivare per posta, riceverli in regalo da qualcuno di speciale significava cerchiare in rosso quella data sul calendario. Avere qualcosa di incredibile da attendere. Da organizzare. Non importava quale fosse il modo per raggiungere la distesa più desiderata del Regno Unito (il 5% dell’intera popolazione nazionale tentò in quell’occasione di acquistare i biglietti): a bordo di un’auto sgangherata, di un bus carico di sorrisi e droga o zaino in spalla in direzione di una stazione dei treni dimenticata. Una volta arrivati lì e sicuri che il pass per il paradiso non venisse strappato malamente dagli addetti, tutto ciò che rimaneva fare era correre, correre, correre verso il pit, verso uno scenario in cui tutto era ancora possibile, faccia a faccia con il volto più florido della Cool Britannia e le pose di Liam Gallagher (e magari, prima dello scoccare dell’ora X, assistere all’apertura di band del calibro di Chemical Brothers, Ocean Colour Scene, Manic Street Preachers, Charlatans, Kula Shaker, Cast e Prodigy non troppo valorizzate dalle riprese).

 

“Maybe you’re the same as me” — Le voci

Oasis, Knebworth 1996 è un’opera di elettricità orchestrale di voci. I video dei live sono accompagnati, o meglio guidati, dal parlato fuori campo dei protagonisti del pubblico che rivivono la storia della musica –  “This is history, right here, right now”, per dirla alla Noel – attraverso la loro storia e attraverso le canzoni del cuore della loro band del cuore, quella per cui alla domanda “che cosa regalereste ai vostri idoli?”, qualcuno rispondeva “regalerei anche me stesso”. Dichiarazioni come “Sono fiera di essere loro fan”, “Gli Oasis parlano per noi. Loro sono lì sopra, noi qua ma sono come noi” attivano un effetto di transfert che supera l’ammirazione artistica. Succede quando tra i versi, gli accordi, le pause, le riprese di alcuni brani che hanno rappresentato la colonna sonora di un periodo si intersecano passaggi, tappe e riflessi di chi canta e di chi ascolta. Alla base, un unico comune denominatore: la sincerità. Così con Supersonic ci si elevava allo stato di rockstar, Cigarettes and Alcohol era la fotografia di anni di disoccupazione e tormenti affogati nelle nell’amicizia e nell’eccesso, The Masterplan divenne il manifesto a cogliere le occasioni che l’esistenza riserva come doni, come attimi irripetibili da trascorrere con qualcuno prima che, per la crudeltà del destino, se ne vada per sempre. “È stata l’ultima giornata che trascorsi per intero con mio fratello. Dopo pochi mesi se in andò a causa di un tumore”, confessa una delle fan coinvolte nel progetto. “Alcune ore prima del concerto, scoprii che la mia ragazza era incinta. Sarebbe cambiato tutto. Con la pioggia che scese durante I Am the Warlus venne lavata via anche la mia giovinezza. Non lo dimenticherò mai”, è l’istantanea di un altro speaker, dietro le quinte.

 

 

E poi le voci che animarono il palco. Liam Gallagher che poteva permettersi qualsiasi cosa, avvicinandosi al microfono, digrignando i denti, allungando foneticamente i vocaboli, incrociando le mani dietro la schiena. Lo stato di grazia del miglior frontman del momento. Un timbro nitido, acido e possente che rispecchiava una classe, la working class settentrionale, e un genere, l’indie, che, con loro, diventò a tutti gli effetti mainstream. “Tutto cambiò dopo Live Forever”, ammette Noel Gallagher, autore del singolo spartiacque. Lui, cinque corde, voce e soprattutto penna della band, capace di miracoli – “Scrissi Wonderwall e Don’t Look Back in Anger in una settimana” e che, con quegli stessi capolavori, fece cantare 250.000 anime che si sentivano a casa in quelle melodie, con la cieca fiducia che la modifica del testo fosse il sigillo di un patto rischioso ma autentico: “But please don’t put your life in the hands of a rock and roll band / Who’ll never throw it all away”.

Provando a sorvolare sul peso specifico pressoché inesistente riservato nel film al bassista Paul Guigsy McGuigan e al batterista Alan White, oltre alle suddette voci, risuonano anche echi di personaggi altisonanti, presenti ed assenti. Richard Ashcroft, “l’uomo senza ombra”, a cui venne dedicata una Cast No Shadow da brividi (ed un “Ripigliati cazzo!”). Il chitarrista Bonehead che sottolinea quanto lo avesse stupito assistere ad un sussulto tangibile di Liam su “Now that you’re mine” di Slide Away (scena che mi ha incollato alla poltrona del cinema). John Squire, chitarrista degli Stones Roses, che salì sul palco per Champagne Supernova, quei 7 minuti della tracklist che tutti aspettavano. Un iconico passaggio di testimone – “Il testimone ce lo eravamo già preso nel ’94″, puntualizza Noel –  ed una scia colorata di azzurro che nacque dagli occhi del cantante per accarezzare le lacrime del pubblico. Quei 7 minuti, quell’intro-mantra che, un paio di sere fa, durante la proiezione, tutta la sala attendeva. Atterrita, impaziente ed emozionata.

 

“You’re gonna be the one that saves me and after all” — Wonderwall 

Trai i racconti che si intersecano nel documentario, uno si distingue per lo spazio in cui vennero vissuti i concerti. È quello di un fan che, il 10 e 11 agosto 1996, chiese ai genitori di non essere disturbato, in quella determinata fascia oraria. Nella sua camera, delle audiocassette vergini, pronte per registrare il live dalla radio che lo trasmise in esclusiva. I tre secondi del “cambio lato”, misurati con il cronometro. “Ho portato con me quei nastri per anni, conoscevo a memoria ogni battuta di Liam”. La sua figura malinconica, ma comunque appagata, appoggiata alla colonna vintage di uno stereo ha racchiuso una delle immagini da Wonderwall, da muro delle meraviglie, al cui contatto tutto sembra possibile. Una superficie di sicurezza che svetta fino al cielo. Può essere la spalla di un amico che canta a squarciagola lì vicino, il compagno di avventure incontrato qualche ora prima dell’apertura dei tornelli, la donna che si abbraccia come se quel brano fosse stato scritto per lei. Oasis, Knebworth 1996 si chiude, inevitabilmente, con Wonderwall, una canzone destinata a diventare un inno al di là delle generazioni. Un inno al potere salvifico della condivisione, della musica e dell’amore. E dell’amore per la musica, quello che supera le differenze, le distanze, le difficoltà. Quello che unisce “after all”, nonostante tutto. Quella matrice di cui oggi, soprattutto nel nostro paese, si sente così tanto la mancanza. Quel motore che non ha bisogno di alcun filtro (neppure di quelli degli smartphone, per fortuna assenti all’epoca). Non necessita di alcun compromesso per rendere realizzabile l’impensabile, per sgranare gli occhi di fronte a Liam Gallagher che scende dal palco e regala il tamburello proprio a te, perché te lo aveva promesso. È ciò che fa le storie. È ciò che fa la storia. 

 

Laura Faccenda

Tre Domande a: Frank!

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

L’artista, o meglio, la band con cui mi piacerebbe collaborare di più in questo momento sono The 1975, gruppo britannico per il quale ho un debole da molto tempo. Le loro sonorità penso si sposerebbero bene con le mie essendo a metà tra l’analogico e il digitale. L’unione del mio mondo sonoro con il loro amplificherebbe la dimensione ibrida in cui mi piace gravitare.

 

Come ti immagini il tuo primo concerto live post-pandemia?
Il mio primo concerto post-pandemia lo immagino con tante persone che cantano a squarciagola le mie canzoni, che ballano e si divertono tanto quanto me! Se ci penso, riesco quasi a sentire quell’emozione prima di salire sul palco, quell’ansia che poi si trasforma nella spinta giusta! Essendo i miei brani usciti dopo l’avvento del COVID purtroppo non ho ancora avuto occasione di suonarli dal vivo davanti ad un pubblico. I concerti sono sempre stati uno dei miei aspetti preferiti del fare musica. Mi mancano moltissimo i palchi e non vedo l’ora che sia finalmente possibile ritornare a pieno regime anche per quanto riguarda i live show!

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?
Penso che ogni artista abbia sognato almeno una volta di suonare a Wembley. Uno stadio cosi grande e iconico sarebbe il massimo per me oltre che un grande privilegio essendo stato palcoscenico di molte band e artisti che nel corso degli anni hanno fatto la storia. Per quanto riguarda i festival, su tutti mi piacerebbe suonare al Glastonbury Festival, con tutte quelle bandiere che sventolano tra il pubblico!

Melancholia @ Assisi On Live

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• Melancholia •

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Assisi On Live

Assisi // 25 Settembre 2021

 

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Nevermind compie trent’anni e io no

Si è preso il pomeriggio libero. E una bottiglia di buon vino.
Telefono spento, non capitava da secoli. Doccia, vestiti puliti, quasi fosse un appuntamento. Arrivando al mobile del giradischi ha un’esitazione. Prende in mano il disco, osserva la copertina a lungo. 

Due soli pensieri lo sfiorano: il primo riguarda la sua personale opinione del soggetto immortalato, dopo la richiesta di risarcimento. E pace, esiste il karma, ne è convinto. Il secondo è che quel pezzo di cartone, quel bambino che nuota è il suo personale ritratto di Dorian Gray. Anzi, che lui stesso è, per quel disco, il quadro che invecchia. Quel fottuto bambino rimarrà per sempre piccolo, nudo e con pistolino notevole. Quel disco rimarrà per sempre giovane. Per sempre meraviglioso. Per sempre adorato. Lui invece no, invecchierà, diventerà noioso, conservatore e malinconico. Il disco si nutrirà di lui, perché il patto è stato sancito nel 1991 e mai verrà spezzato. Non c’è un solo disco che lui abbia amato che di colpo sia invecchiato male. O che proprio sia invecchiato. 

È il dono che la musica porta con sé, è il modo che la musica ha per fregare il tempo. Perché ci sono tempi scanditi dalle estati, dai viaggi, dalle relazioni, tempi scanditi da olimpiadi, nascite, morti e successi. Ma sono tutti punti sulla linea temporale. 

La musica invece ci segue, a volte ci insegue. La nostra relazione con i dischi che amiamo ha un inizio, raramente una fine, perché si impasta con la nostra vita, si intreccia nella storia, diventa colonna sonora, diventa compagna. A volte è un accento, a volte medicina. 

Lui aveva da poco fatto le analisi per colesterolo e tristezza, le principali candidate del suo malessere. Dieta e musica. Nessuno aveva contemplato il vino, ergo, fanculo. 

Andrea nevermind 30Nevermind compie trent’anni. E lui no. Lui ne ha compiuti di più. Però Nevermind e lui hanno compiuto trent’anni, quindi è il caso di festeggiare come si deve. 

Si siede per terra, si accende una sigaretta, il fruscio della sigaretta si confonde con quello della puntina. E allora cuffie su, il mondo resti fuori, questa è una cosa tra lui e i Nirvana.

Quattro accordi, che sono un portale per l’inizio di tutto. L’alfa degli anni novanta, il big bang, forse involontario o forse no, che cambiò le regole del gioco. Una overture che puzzava di icona generazionale dopo soli cinque secondi. Poi Novoselic riportava la calma, poco prima che Kurt chiamasse tutti alle armi. Letteralmente. 

“Venite siore e siori, venite grandi e piccini. Vi mostreremo come intrattenere tutti quanti per quasi quarantacinque minuti! Uno spettacolo di freaks da psicoanalisi, un trio di emarginati che mettono in versi, su un palco, il loro personal disagio! Rimarrete incantati da golosissimi riff e ritornelli orecchiabili, e nel mentre faremo passare testi pesantissimi, senza che nessuno sanguini dalle orecchie! Intanto caricate i fucili, si sa mai!”.

Benvenuti nella palestra più famosa della storia della musica. Potere di MTV, potere di una generazione pronta a smontare le permanenti di molte band. L’onda lunga degli anni ottanta sbatteva contro tre ragazzi armati di rabbia, intelligenza, sensibilità e una discreta dipendenza dagli oppioidi. 

La depressione, la disillusione, una geniale ironia a tratti macabra. Smell Like Teen Spirits era programmatico, era il manifesto di un disco, di un pensiero, di un inizio. 

(Scivola la puntina, scivola giù altro vino.)

Kurt gioca con Burroughs, e poi fa cantare tutti i fans dell’ultima ora, perfetti analfabeti funzionali, un ritornello che descrive la follia collettiva che li sta per investire. In Bloom. Sì, però. 

Però è la seconda canzone in cui si parla di armi, Kurt. 

Però questa non è solo ironia. Qua si parla di incomunicabilità. “I like beautiful melodies telling me terrible things”, diceva Tom Waits. Sembra la terza legge incisa a scalpello sulle tavole del grunge. 

Come as You Are continua sulla stessa ambiguità, sulle sfocature, in una canzone dove le parole scivolano una dentro l’altra, dove il nemico diventa memoria, dove aprirsi all’altro è una continua scommessa, dove essere disarmati è l’unica condizione per la conoscenza. 

(Vino. Serve vino.)

Paura, depressione, fuga di Breed. Si cade poi nel paradiso artificiale di Lithium, dove è bipolare la struttura della canzone, che diventa lei stessa messaggio, facendo per un attimo comparire McLuhan sopra la puntina. No, sarà il vino. Però la canzone-è-il-messaggio, poche storie. 

Polly rovescia i punti di vista, è come se a metà di una partita a scacchi vi scambiaste le parti. È un esercizio di stile, ma di nuovo è anche una domanda profonda sulla comprensione e sulla visione della realtà. Si passa a Heller, al Comma 22 , nelle terre tiratissime di Territorial Pissing, tre accordi in 2:22 per un crescendo di alienazione, di differenze, di urla disperate, mentre Grohl maltratta definitivamente la batteria e il “The Terminator”, il rullante comprato apposta per Nevermind dal suono quantomeno incisivo. 

Si passa ai sentimenti, all’amor scortese, quello per Tobi Veil, anche se Drain You fa un po’ di confusione tra infanzia, sesso e droga. Tra fluidi corporei e sostanze stupefacenti, tra dipendenze e interscambi. O forse è tutto voluto, sepolto solo da un velo di buoni accordi per celare il significato ai più?

Stay Away è un collage di frasi fatte, è inno alla superficialità. Il puzzle di Nevermind è quasi completo. Serve il non-sense di On a Plain, perché Kurt lo dirà, anni dopo: era pigro, spesso scriveva i testi all’ultimo e non sempre questi avevano un senso vero e proprio. “Impressionismo cazzaro”, fu definito da critico anonimo. A volte uscivano grandi cose, a volte materiale buono per la psicoanalisi, a volte solo parole.

(Sono veramente ubriaco)

diario nevermind 30 e1632507661176

Something in The Way ha dentro l’essenza di Nevermind. In studio proprio non veniva. Butch Vig, che durante le registrazioni rubava i takes a Kurt con ogni mezzo possibile, si accorge che il cantante stava finalmente suonando da dio, ma era in sala di regia, con la chitarra scordata e senza qualcuno che gli desse il ritmo. Ma era buona, vera e unica. Prese Novoselic e scordò il basso. E seguì il violoncello.
Nevermind era questo. 

Kurt urla ancora per qualche minuto nella ghost track. 

Poi la puntina esce dal solco. 

Silenzio, un bicchiere vuoto, un sospiro. 

Nevermind è stato il primo che “ho lasciato entrare”. Il primo album che ho amato, studiato, giustificato, idolatrato, tradito.
Nevermind fu il primo bacio. Indimenticabile, umido, direbbe il signor Gump, inaspettato. Sperato.
È il mio Dorian Gray, sarà sempre lì, identico e monolitico nella sua grandezza. 

Nevermind compie trent’anni. E io no. Loro sono diventati una pagina nera sul diario del liceo. Otto aprile, data dell’annuncio. Lasciarono un groviglio indistricabile di domande, un peso infinito nella testa di un adolescente. Fu un dolore fisico, che ricordo bene. La loro fine e la loro storia successiva sembrarono le risposte alle domande di Nevermind. Tre vie, tre possibili bivi da prendere, tre modi di affrontare la vita. Servono gli anni in più che ho per accettare il fatto che il lieto fine non è tanto rock. 

Ma questo album servì a iniziare qualcosa. Servì per aprirsi a una nuova musica, a nuovi anni, a trovare nei Pearl Jam il mio “bright side” del grunge e innamorarmi di nuovo, servì per i dischi, i concerti, la musica. 

Servì per parlare con nuove persone, con amici che resistono, servì a condividere, a ballarci su e a viaggiare cantando. Servì riascoltarlo dieci anni dopo, vent’anni dopo e vedere dove cazzo stavo andando. Serve riascoltarlo anche a distanza di trent’anni e sentire che gusto ha. 

Nevermind compie trent’anni. Io molti di più, ma stiamo ancora bene insieme. 

Senza arrossire, sono fortunato. 

Oh well, wathever, 

Nevermind. 

 

Andrea Riscossa

 

appunti andrea nevermind 30

Davide Shorty @ Arena Puccini

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• Davide Shorty •

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Arena Puccini (Bologna) // 22 Settembre 2021

 

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I Fast Animals and Slow Kids tra passato, presente e futuro

Con già dieci anni di carriera alle spalle, tornano i Fast Animals and Slow Kids con il loro ultimo lavoro, dal titolo È Già Domani. Abbiamo fatto due chiacchiere per parlare del nuovo disco, del tour appena concluso e soprattutto di tempo che scorre. 

 

Ciao ragazzi e grazie per quest’intervista. Avete appena finito il vostro primo tour dell’era post Covid. Come vi sentite, com’è stato?

Aimone: “Noi stiamo bene. È un momento in cui ci sembra che tutto stia tornando ad una sorta di normalità, dato che abbiamo appunto fatto un tour e adesso sta per uscire un nuovo disco, quindi sembra veramente che la vita stia tornando alla normalità, anche se ci rendiamo conto che non è proprio del tutto così. Per quanto riguarda il tour, è andato davvero bene. Abbiamo fatto questo tour in acustico dove ci siamo confrontati con una nuova modalità di musica e, nonostante all’inizio fossimo un po’ spaventati, nel corso del tempo ci abbiamo preso la mano e ci è piaciuto moltissimo. È stato un concerto intimo, di confronto, di chiacchiera… Abbiamo raccontato la storia di questi ultimi dieci anni di musica in giro per l’Italia. È stato davvero emozionante e anche i feedback sono stati positivi. Dopo due anni di ‘stop’ ci ha fatto molto bene, sia all’umore che alla testa.

 

Parlando invece del nuovo disco, in È Già Domani fin dal titolo torna un tema per voi piuttosto ricorrente, ovvero il tempo. Come mai questo titolo? E qual è il vostro rapporto col futuro?

Alessio: “Le due risposte sono legate.”

Aimone: “Sì, sono decisamente legate. È Già Domani è un titolo che mette in relazione da una parte il tempo che scorre e dall’altra il fatto che non facciamo altro che farlo scorrere più velocemente. Ci troviamo in una condizione — e questo ci sembra un po’ anche il leitmotiv del disco — in cui presente e futuro si sono estremamente avvicinati, quasi a fondersi. Tutto ciò che facciamo adesso è in proiezione di qualcosa che saremo tra cinque minuti, tra due ore, tra sei anni… E se da una parte questa cosa è bella perché spinge a fare qualcosa di migliorativo, a essere ogni giorno qualcosa di diverso e a crescere, dall’altro lato vivi anche una sorta di pressione perché quello che sei in quell’istante non è altro che qualcosa che dovrai essere dopo. È come se non riuscissimo più a vivere questo presente staccandolo completamente dall’idea di noi stessi tra qualche tempo. Il disco si muove in questo dualismo e lascia tante domande aperte, il che è un’altra sua particolarità. Ci sono domande a cui non diamo risposta, mentre normalmente chiudevamo un pezzo in se stesso, come se fosse un monolite. In questo caso invece i pezzi rimangono ‘eterei’ dal punto di vista delle tematiche. Inoltre, un’altra particolarità di È Già Domani che ci piace molto è che nel titolo mettiamo insieme un po’ di presente, un po’ di passato e un po’ di futuro: ‘è’ il presente, ‘già’ il passato e ‘domani’ il futuro. Ci piaceva filosofeggiare un po’ con questa visione di fondo.”

 

In questo album compare anche il vostro primo feat, Cosa ci direbbe con Willie Peyote. Com’è nata l’idea di collaborare?

Aimone: “Mentre stavamo scrivendo questa canzone ci siamo resi conto che c’era una parte in cui ci stava una spiegazione più concreta, più specifica. Volevamo che ci fosse una variazione perché ci sembrava quasi incompleta. Questa sensazione prettamente artistica, unita ai due anni di isolamento e distanza, ci ha portato a dire ‘okay, collaboriamo con qualcun altro’. E questo qualcun altro doveva essere una persona che ci capisse bene, un amico a cui avremmo potuto spiegare il testo in onestà, che avrebbe capito il nostro punto di vista e che avesse a sua volta un punto di vista che noi potessimo capire. Qualcuno con cui parlassimo ‘la stessa lingua’, insomma. Abbiamo chiesto a Willie perché lo stimiamo da un punto di vista artistico, quindi sapevamo che potevamo fare qualcosa di figo, e perché è un amico. Possiamo avere una conversazione reale, parlare di qualsiasi cosa e per noi era importante dato che, se ci deve essere il primo feat, deve essere una cosa dove ‘cadi in piedi’. È una prassi che si usa spesso in musica, ma noi non l’avevamo mai fatta. Fatta così, però, è una cosa che rifaremmo volentieri. È andata bene e siamo molto contenti.”

 

Fask interview

 

Quando è uscito Animali Notturni aleggiava un po’ la critica che “non foste più gli stessi di Hybris e di Alaska“. Come avete reagito?

Aimone: “Ma è vero! Noi non siamo più gli stessi di Hybris e Alaska, ma non siamo più gli stessi nemmeno di Animali Notturni. Io non sono più lo stesso di ieri! Abbiamo sempre fatto quello che era nelle nostre quattro teste, quindi, se esiste una coerenza, esiste una nostra coerenza interna che consiste nell’essere rappresentativi di noi stessi ogni volta che scriviamo qualcosa. Secondo me è molto più facile per un artista mantenere la stessa cifra stilistica una volta trovata una certa forma, così da non tradire mai nessuno. In realtà per noi non funziona così, perché la musica è troppo importante e soprattutto salva le nostre vite, quindi essere disonesti e fare qualcosa che non è più nelle nostre corde sarebbe peggio di sperimentare e provare a fare cose che invece sentiamo più nostre, sta tutto lì… Poi in generale c’è sempre una possibile critica per ogni disco che esce, ma abbiamo imparato a non ascoltarle nel corso di questi dieci anni. Le uniche che ascoltiamo sono le critiche interne: se uno di noi critica qualcosa di un pezzo vuol dire che non gli piace e se non gli piace è un problema. Già dobbiamo trovare una sintesi tra le nostre teste, ed è complessissimo così. Se in più dovessimo ascoltare anche le teste degli altri diventerebbe un inferno. Poi siamo persone che pensano molto alle cose, ragioniamo mille volte su quello che ci viene detto, quindi abbiamo deciso di concentrarci su un’unica coerenza, che è la nostra: quella di quattro persone che hanno cominciato a fare musica insieme dieci anni fa e sono amiche da una vita.”

 

In È Già Domani ci sono canzoni molto diverse tra loro, sia per sound che per testi. Metterle insieme è stata una scelta più ragionata o più casuale?

Aimone: “Molto ragionata. È Già Domani è un disco estremamente ‘cosciente’, nel senso che abbiamo avuto molto tempo per pensare, ripensare e scrivere i testi e questa forse è anche una differenza con i dischi precedenti tranne il primo. Le canzoni che abbiamo selezionato sono partiti da una scrematura magari di 40 pezzi. Con tanto tempo, ci siamo trovati di fronte a questi pezzi e li abbiamo riascoltati mille volte, parlando sia di testi che di arrangiamenti. Anche la scaletta, l’artwork, tutto è estremamente ragionato in modo che questo disco fosse concreto e rappresentativo di noi stessi.”

 

A novembre sono dieci anni da Cavalli. Se poteste tornare indietro nel tempo e incontrare i FASK di quel periodo, c’è qualcosa che vorreste dir loro?

Aimone: “Direi loro di non lasciare il furgone fuori ad Arezzo quella sera perché è stato un bel trauma. Direi loro di non fare alcune date che abbiamo fatto…”

Alessandro: “Di non leggere le recensioni.”

Aimone: “Sì, di non leggere le recensioni del primo disco per non demoralizzarsi, anche se di fatto poi non ci siamo demoralizzati… Non lo so, io in realtà sono molto felice del percorso dei FASK, di quello che eravamo a 20 anni e di quello che siamo diventati adesso. È un percorso molto lineare, fatto con le persone con cui hai iniziato. Poi c’è sempre qualcosa da migliorare o da recriminare al te stesso più giovane…”

Alessio: “Probabilmente i FASK dell’inizio non sarebbero stati pronti a fare le scelte di adesso. Non potremmo nemmeno consigliare di fare prima un determinato passaggio. è tutto molto giusto e calato nel momento…”

Aimone: “Ah, e poi gli direi bravi per non aver mai cambiato membri della band, per aver sempre premiato questo senso di amicizia e di unità che ci fonda e ci tiene in piedi da tempo. C’è una sorta di scudo che abbiamo nei confronti di tutto questo.”

 

Francesca Di Salvatore

I Ministri @ Jump Festival

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• I Ministri •

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Jump Festival

Piazza Saffi (Forlì) // 18 Settembre 2021

 

[/vc_column_text][vc_empty_space][vc_column_text]Foto: Luca Ortolani

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Spiritbox “Eternal Blue” (Rise Records, 2021)

Melodia furiosa

Gli Spiritbox, band canadese originaria dell’isola di Vancouver, nella Columbia Britannica, attiva dal 2016, sono pronti a dare al pubblico il loro primo full length, intitolato Eternal Blue. Ormai si sa, nei sottogeneri del Metal più moderno, soprattutto nel MetalCore, è spesso difficile spiccare ed è abbastanza comune che varie band, anche se con background completamente diversi e luoghi di provenienza più vari, possano risultare simili tra loro e che, soprattutto nei ritornelli, ci comunichino qualcosa di “già sentito” rischiando di restare nell’anonimato. Per questo, gli Spiritbox hanno sempre cercato di farsi strada nell’originalità, provando a distinguersi attraverso quello che è diventato il loro punto di forza, ovvero l’alternanza di leggerezza e pesantezza nel sound. 

Questa dualità che caratterizza la band canadese è facilmente riconoscibile già nei primi due brani presenti nell’album, Sun Killer e Hurt You. Infatti, se la prima mostra un animo più sinfonico, magari ricordando a tratti anche band come gli Evanescence ma dal carattere più moderno, la seconda resta più ancorata ai canoni del MetalCore, con chitarre e bassi pesanti affiancati ad uno scream aggressivo alternato al ritornello melodico con voce pulita. La terza traccia, Yellowjacket, presenta una grande sorpresa per gli amanti del genere, ovvero un featuring con una delle voci più potenti e importanti nel panorama Core, quella di Sam Carter degli Architects. Un brano carico e incredibile, in cui il contributo dato da un artista come Carter è più che palpabile e dove a fare da padrone è proprio lo scream di quest’ultimo, arricchito dai cori emozionali tipici del MetalCore che ricordano molto band come i Parkway Drive.

La fantastica frontwoman Courtney LaPlante ci delizia per tutta la durata dell’album con la sua voce armoniosa e piacevole, il cui apice si manifesta nella meravigliosa Secret Garden e nel brano di chiusura, Constance, solenne e introspettiva. 

Cosa dovrebbe aspettarsi dunque l’ascoltatore da Eternal Blue? Sicuramente un album molto valido, assolutamente non scontato e sentimentale, a tratti commovente. Gli Spiritbox mostrano dunque una combo vincente che sono sicuramente in grado di gestire, dimostrandosi capaci e maturi nonostante questo sia il loro primo full-length. Una band, quindi, che avrà tanto da dire nel panorama MetalCore.

 

Spiritbox

Eternal Blue

Rise Records

 

Nicola Picerno

Onceweresixty “The Flood” (Beautiful Losers, 2021)

Ce l’avete presente l’espressione latina nomen omen, che tra le diverse accezioni ha pure quella, semplificando, di significare “di nome e di fatto”. 

Faccio un esempio, in ambito musicale, un gruppo come gli Obituary non mi aspetto facciano dream pop, o che le Lollipop facciano grind core. Vero che ci sono le eccezioni e i “false friend”, come quella volta che scoprii che morbid in inglese non significava morbido/soffice e che quindi i Morbid Angel non erano una band Christian Pop, però la prima volta che ho cliccato play per ascoltare il nuovo, primo disco dei vicentini Onceweresixty, tutto mi immaginavo tranne quello che in realtà poi avrei sentito.

Aggiungerei che è un nome che potrebbe anche sembrare uno di quei moniker che spesso gli artisti utilizzano, tipo Apparat, o Caribou, ma sta di fatto che questi Onceweresixty, terzetto di Vicenza come si diceva sopra, hanno sfornato una chicca niente male con questo The Flood. Nove tracce per mezz’ora scarsa che si sviluppa in un territorio non ben definito nè tantomeno definibile, e la meraviglia che si prova ogni tanto quando non si riesce in poco tempo a rispondere all’orribile domanda “che genere fanno?”.

Ci sono gli anni ’60 ovviamente, sia quelli dei Velvet Underground (la chitarra di All I Want sembra volerne rendere omaggio), sia l’immediatezza melodica dei Beach Boys, filtrata dalle fantasiose e strambe visioni di Panda Bear (Six Six Sixty), lo spleen di Summer e la tenebrosa Delivery Boy. The Flood è stato registrato praticamente in presa diretta, senza passare per post produzioni e questo aspetto rende questo lavoro ancora più autentico e vero (si prenda il finale della title track ad esempio, dove l’attitudine lo-fi si palesa con maggior forza) e anzi, aiuta i brani ad emergere nella loro purezza e genuinità. Il finale clamoroso/rumoroso di Antipopsong è la classica ciliegina, tre minuti (che se fossero stati anche di più non mi sarebbe dispiaciuto ma vabbè) che definire catartici è riduttivo e che mi lasciano la certezza di una delle uscite italiane più interessanti che abbia sentito negli ultimi tempi.

 

Onceweresixty 

The Flood

Beautiful Losers/Uglydog Records 

 

Alberto Adustini

The Raven Age “Exile” (EX1 Records, 2021)

Corvi d’Autunno

È in arrivo l’autunno (finalmente, aggiungerei) e le giornate calde e soleggiate iniziano a lasciare spazio al cielo grigio e piovoso. Ora ditemi, cosa c’è di meglio, con questo meteo, che rilassarsi sul divano, bere un caffè caldo ascoltando musica rilassante? Beh, The Raven Age ci hanno proprio preso in pieno. Quest’ultima loro fatica infatti consiste in una raccolta di brani acustici, tra cui due nuovi pezzi inediti, cinque tracce scelte da Conspiracy, album del 2019, riarrangiate in chiave acustica appunto, e quattro live registrati in Cile, Canada, Regno Unito e Stati Uniti.

Ad introdurre Exile c’è la meravigliosa No Man’s Land, uno dei due pezzi inediti, in cui il vocalist Matt James ci delizia con la sua voce graffiante attraverso una power ballad molto anni ’80, ma allo stesso tempo originale e moderna, dal ritornello catchy ed emozionante. A seguire, troviamo già il secondo inedito, Wait For Me, che sembra essere scritto per calzare perfettamente in un live: ritornello diretto, struggente, chitarre imponenti ma melodiche. Un brano davvero affascinante. Ed ecco che arriviamo alle tracce scelte da Conspiracy, un album parecchio amato dai fan della band londinese. A quanto pare infatti, si tratterebbe di brani fan-favorite, chiaramente in versione acustica. Per la precisione, troviamo Fireflies, As the World Stood Still, A Look Behind the Mask, Dying Embers e Hold High the Fleur De Lis. Si sa, quando una canzone Metal viene riarrangiata in chiave acustica è sempre un’emozione che, certo, spesso può essere negativa, perché c’è sempre quella paura che si rovini qualcosa, ma poi va a finire che quella canzone che ami tanto diventa ancora più emozionante e ti entra ancora di più nel cuore. Questi riarrangiamenti sono davvero benfatti e funzionano, c’è poco da dire. Sicuramente accompagneranno l’autunno e, successivamente, il lungo inverno di molte persone, che non vedranno l’ora di poterle cantare anche dal vivo. 

Concludendo, The Raven Age si dimostrano una band ormai capace e matura, che non solo sa creare ballad incantevoli e originali, ma sa anche trasformare brani che ormai sono un must nelle loro scalette live in incredibili chicche acustiche. La band, inoltre, indovina il periodo dell’anno più azzeccato per una release del genere e questo darà sicuramente ad Exile un sapore ancora più intenso.

 

The Raven Age

Exile

Explore1 Music Group/EX1 Records

 

Nicola Picerno

Fast Animals and Slow Kids “È Già Domani” (Woodworm/Believe, 2021)

Che dovessimo guardare oltre i tempi di Hybris e Alaska, i Fast Animals and Slow Kids ce l’avevano detto già con Animali Notturni: “Ma oggi / Ho trent’anni / Vorrei soltanto dire quello che mi va / Lo so, ti parrà strano / Ma in fondo questa è la mia nuova libertà”. E questa nuova libertà se la sono presa tutta anche nel loro ultimo album, dal titolo È Già Domani, e anticipato dai singoli Come un animale, Cosa ci direbbe (in collaborazione con il rapper torinese Willie Peyote) e Senza Deluderti. 

Continua quindi la svolta cominciata due anni fa sia nei suoni, non solo più leggeri ma anche più sperimentali, che nei testi. C’è meno rabbia e quello spazio è stato riempito da una vasta gamma di sentimenti diversi, a tratti anche contrastanti: da Stupida Canzone con la necessità di trovare il proprio posto nel mondo a Fratello mio che è un inno all’empatia e alla compassione (quelli che Milan Kundera definiva i “sentimenti più pesanti di tutti”) passando per Senza Deluderti, dove si mischiano le diverse sensazioni che si provano alla fine di una relazione. La profondità dei testi rimane quindi sempre la stessa e si riconferma il marchio di fabbrica della band perugina. 

Dodici tracce che sembrano quasi delle fotografie, delle istantanee di tanti momenti e quindi piuttosto diverse tra loro. Sono canzoni che non solo si ascoltano, ma in qualche modo si guardano (passatemi la sinestesia): un esempio su tutti è Lago ad alta quota, che sembra sia stata scritta guardando esattamente le immagini che descrive, come la cena in solitudine, il lago di montagna o la persona che si arrovella davanti a uno specchio. 

È dunque un album concreto, dove tutto è visibile – a volte anche le metafore — e di conseguenza risulta piuttosto facile immedesimarsi in questo o quel verso, sia che si parli di calzini spaiati collezionati nel letto che più ampiamente e genericamente di insoddisfazione. Però non manca la poesia, nemmeno quella con la P maiuscola, quella di Pavese o di De André che fa capolino in Senza Deluderti e in Rave.

Non mancano poi i riferimenti al tempo, che è un po’ una costante della loro discografia, soprattutto al fatto di non averne e cercarne sempre di più, in continuazione. Riferimenti che si potevano scorgere fin dal titolo del disco nonché della prima traccia È Già Domani, una canzone quasi acustica che guarda prima un po’ indietro per poi prepararsi a guardare avanti e che crea una sorta di cerchio con la coda dell’album, È già domani ora.

Insomma, l’ultima fatica dei FASK è un disco che ricorda vagamente un quadro impressionista (continuo con le sinestesie), con tante immagini diverse, a volte un po’ fumose e poco nette, che vanno a creare un quadro che bisogna guardare da lontano per capire e incastrare bene i pezzi. 

Fuor di metafora, bisogna dargli più tempo di un solo ascolto prima di poter esprimere giudizi. Lasciatelo sedimentare per bene, in qualche modo troverà un’immagine con cui parlarvi.

 

Fast Animals and Slow Kids

È Già Domani

Woodworm/Believe

 

Francesca Di Salvatore

Liz Lawrence “The Avalanche” (Second Breakfast/Kartel Music Group, 2021)

Prendete una voce alla Florence Welch, dei testi a tratti criptici, a tratti che ricordano una Lorde prima della svolta zen di Solar Power e delle basi dance che sono un tuffo da medaglia d’oro olimpica negli anni 80. Fatto? Si potrebbe pensare ad un calderone di cose poco omogenee che cozzano tra loro e invece, in The Avalanche di Liz Lawrence, questo bizzarro e originale mix funziona.

A primo impatto, però, questo album è anche una sorpresa continua: si parte con Down For Fun, che ha tutta l’aria di essere una lettera alla se stessa adolescente infilata in una busta di musica pop-dance e un’estetica fatta di colori saturi per non cedere alla nostalgia facile.

Canzone dopo canzone, il mood del disco sembra delinearsi su questa via, ma nel momento in cui ti sembra di averlo capito, arriva la canzone che non ti aspetti, quella così diversa da dover rivedere il giudizio. Con Violent Speed e la sua intro di percussioni, per un minuto e 54 si esce di colpo dagli anni 80. I suoni si fanno meno elettronici e l’atmosfera più struggente, ma all’improvviso la canzone finisce, quasi come se fosse tagliata a metà, e si ritorna al sound precedente con Where The Bodies Are Buried. 

Allora il viaggio prosegue ancora, tra suoni distorti, saturazione e l’intensa voce di Liz Lawrence a fare da contrappeso. E poi, di nuovo all’improvviso, a sorpresa tra un sintetizzatore e l’altro, arriva Birds e la sua base in cui si sentono i canti degli uccellini a fare compagnia alla voce della cantante. 

Ma lo stato di natura dura giusto il tempo di una canzone, perché il finale con The Avalanche riprende il fil rouge della pop-dance dell’inizio del disco. È forse anche la canzone più realmente ballabile di tutto il disco: il degno finale di questo tuffo negli anni 80.

E come per qualsiasi cosa che arrivi da questo decennio, mentre lo si ascolta, qualsiasi cosa si faccia, è impossibile stare fermi.

 

Liz Lawrence

The Avalanche

Second Breakfast/Kartel Music Group

 

Francesca Di Salvatore

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