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Things Are Great è il disco che i Band of Horses hanno fatto come volevano

Things Are Great è il disco che i Band of Horses hanno fatto come volevano

| Francesca Garattoni

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Dopo quasi sei anni da Why Are You OK, i Band of Horses tornano con un nuovo album, Things Are Great, che – già dal titolo – promette alquanto bene. Tante le novità: la formazione in parte rinnovata, un produttore di talento ed un songwriting più trasparente e sincero che mai. Come lato complementare della medaglia, invece, ciò che non cambia è il suono iconico del gruppo di Ben Bridwell che ritorna alle origini, caratterizzate da un sound ancora più indie ed alternative rock. Abbiamo approfondito questi aspetti –  e molti altri! – nell’intevista con il batterista Creighton Barrett. Inevitabili anche i riferimenti alla sospensione, musicale e planetaria, connessa alla pandemia ed una menzione finale a The Funeral, che, poco tempo fa, abbiamo ritrovato come soundtrack d’eccezione in una serie TV italiana di grande successo. Ricordate quale?

 

Ciao Creighton e grazie di essere qui con noi! Partiamo parlando del nuovo album Things Are Great, fuori dal 4 Marzo dopo quasi sei anni dal vostro ultimo disco. Nonostante sia passato un po’ di tempo, è possibile che certe atmosfere latenti e qualche ispirazione fossero già presenti in Why Are You OK? Come se quel disco, oltre ad avere una connessione nel titolo, contenesse già una fine per un nuovo inizio?

“Si, beh, abbiamo avuto diversi membri che sono andati e venuti dall’ultimo disco: non è una novità, la nostra lineup cambia piuttosto regolarmente, nel bene e nel male. Ma si, penso che questa sia una continuazione nel senso che Why Are You OK è stato un disco che abbiamo fatto distintamente per fare il disco nel modo che volevamo fare il disco, in contrapposizione, forse, non tanto ad avere influenze dall’esterno ma forse tornare alle origini di noi (come band, NdT), solo per il gusto di fare i dischi che vogliamo fare e i dischi che vogliamo ascoltare. Pertanto, penso che questo nuovo disco Things Are Great sia ancora più tutto questo, questo essere quei ragazzini punk rock che eravamo abituati ad essere e non preoccuparci troppo di quello che la gente possa pensare: facciamo solo questo disco al meglio per noi e facciamo meglio che possiamo.
Penso che questi due ultimi dischi segnino definitivamente una sorta di separazione dal disco precedente a Why Are You OK, che è stato una specie di esercizio, con qualcun altro che ci diceva in che direzione andare e come farlo, e questo non ha proprio funzionato bene con noi. Quindi abbiamo preso le redini in mano.”

 

In termini di sound, possiamo ritrovare il suono iconico dei Band of Horses. Tuttavia, nella produzione dell’album il contributo di Ben Bridwell, che ha anche lavorato tanto con il tecnico del suono Wolfgang “Wolfie” Zimmerman, ha avuto molto più peso del solito. Cos’è successo in quella fase del processo e come sono andate le sessioni di registrazione?

“Avevamo iniziato il disco con il nostro precedente produttore da Why Are You OK, Jason Lytle, che viene da un gruppo favoloso chiamato Granddaddy. Avevamo fatto Why Are You OK con lui ed era stato grandioso, ma abbiamo iniziato le sessioni per Things Are Great di nuovo con lui e qualcosa non girava nel modo giusto, semplicemente non lo sentivamo bene.
Abbiamo registrato qualche traccia con Jason e ci siamo presi un po’ di tempo e abbiamo suonato qualche concerto e ci siamo seduti con quello che avevamo fatto fino a quel momento. Non eravamo dove pensavamo di dover essere e abbiamo deciso che, fondamentalmente, dato che eravamo all’inizio del processo non sarebbe poi stata questa gran perdita se ci fossimo detti “Sai cosa? RIcominciamo da capo!”.
Abbiamo questo buon amico che vive nella nostra città – che è Charleston, South Carolina – che si chiama “Wolfie” Wolfgang Zimmerman. È questo ragazzo più giovane di noi che fa della gran bella musica con queste band locali nella nostra città, e faceva delle gran belle cose in un ripostiglio, neanche in un vero studio. Quindi, se questo ragazzino è così talentuoso da far suonare queste band in modo così incredibile senza neanche essere in un vero studio, cosa succede se lo piazziamo in uno vero? La cosa ha funzionato in modo fantastico e penso che sia per Ben che per me – posso parlare a nome di entrambi – Wolfie sia stato una ventata d’aria fresca. È arrivato dicendo “Voglio che voi ragazzi suoniate come voi stessi”, che è una cosa che sai, la gente ti dice sempre quando ti metti a fare un nuovo album, ma le cose vengono tirate di qua e di là, in certe direzioni che poi finiscono per esserci tolte di mano. A volte, e questa volta è stato così, tutto quello che voleva fare è stato aver fiducia nel tornare indietro al modo in cui abbiamo fatto i nostri primi dischi. Ben e io non abbiamo nessuna educazione musicale, siamo autodidatti nel suonare i nostri strumenti e penso che Wolfie abbia voluto affinare questa cosa, più che fare un qualcosa che suonasse grandioso, ha solo voluto che suonassimo come quando siamo con i nostri strumenti e far musica. Che alla fine è come suona il disco, credo. Risposta lunga, sorry!” (ride)

 

Nella vostra discografia, i testi rappresentano una parte fondamentale di ogni disco: che storie raccontano le canzoni di Things Are Great? C’è una traccia a cui sei particolarmente affezionato?

“La mia traccia preferita dell’album s’intitola Ice Night We’re Having ed è questa sorta di galoppata veramente strana, una canzone che suona veramente indie rock, che è un po’ il mio cuore. Questa è la mia canzone preferita.
Per quanto riguarda i testi, Ben stava attraversando un sacco di situazioni pesanti durante la creazione di questo disco. Pertanto non posso veramente rispondere riguardo al contenuto dei testi, ma Ben davvero viene fuori (in quello che scrive, NdT) e pensa davvero a cosa sta dicendo. Ma penso che questo disco sarebbe comunque venuto fuori: abbiamo dovuto posticipare a causa della pandemia e di tutto ‘sto casino in cui siamo tutti; penso che questo lo abbia aiutato a scrivere le parole in un modo forse di più facile accesso, dato che tutti stiamo in qualche modo vivendo tempi difficili. Penso sia più facile abbattere quei muri che probabilmente aveva precedentemente messo su; adesso che siamo tutti in una situazione un po’ merdosa, le sue parole su questo disco si prestano ad essere più dirette che nei dischi precedenti, dov’era più come “Guarda, un po’ capisco cosa sta passando questo ragazzo anche se io sto passando qualcosa di totalmente diverso”, mentre adesso la cosa si presenta in modo molto più ovvia per tutti noi.”

 

Cover band of horses

 

Il titolo dell’album suggerisce un’accezione positiva, potremmo quasi dire una specie di proposito. Tuttavia, all’interno della tracklist troviamo canzoni come Tragedy of the Commons, In The Hard Times o In Need of Repair che si riferiscono a situazioni complicate. Lo scombussolamento planetario causato dalla pandemia ha influenzato la scrittura dell’album in qualche modo? Come avete vissuto o state ancora vivendo questi anni di sospensione e lontano dai palchi?

“In Luglio, la scorsa estate, abbiamo finalmente avuto il via libera per suonare i nostri primi concerti ed erano due concerti in preparazione al Lollapalooza. Abbiamo suonato qualche concerto, siamo tornati alla nostra vita, ma durante quell’anno o poco più di distacco, metti in discussione un sacco di cose: per dirne una, stavamo seduti su questo disco, che era finito, e il tempo senza far niente può diventare davvero orribile. Hai troppo tempo a disposizione per pensare “È un buon disco? Fa schifo?”
È stato così tanto tempo nella fase di creazione, come una specie di quadro che non finirai mai. Ad un certo punto devi mollare. Quel periodo è stato particolarmente duro per tutti noi, non solo finanziariamente: sai, Ben e io abbiamo entrambi famiglia, abbiamo dei bambini e gestire il tutto è stato difficile.
Ma ci ha anche fatto mettere in discussione un sacco di cose su cui forse prima non ci siamo mai fatti domande. È stato come se tutto si fosse fermato, non c’erano manuali d’istruzione, nessuno sapeva cosa fare, nessuno sapeva cosa farsene. È sembrato che per la prima volta – anche quando ci sono stati tracolli finanziari e simili, la gente continuasse ad andare a spettacoli e la gente continuava ad andare al cinema, come durante la Grande Depressione, la gente aveva uno sfogo artistico – per la prima volta non fosse una possibilità contemplata (quella di fare arte, musica, NdT). E quindi quando arrivi al punto di “Cosa ne facciamo dei musicisti che suonano live?” nessuno sapeva cosa fare. Tutto durante la pandemia era così focalizzato al non far succedere che era davvero opprimente. Era difficile pure arrivare al concetto di “Merda!”.
Abbiamo fatto questo per vent’anni ed è una specie di seconda natura per noi. Per i primi mesi non sapevamo neanche cosa ci stava colpendo. Era tutto un “Wow, iniziamo qualcosa di nuovo? Lo facciamo? Non faremo più nulla di tutto questo?” Nessuno aveva nessuna risposta, era tutto pazzesco e per fortuna il cielo si è rischiarato un po’ e abbiamo ricevuto le email per questi concerti pre-Lollapalooza e finalmente è stato “Cazzo, si!”.
Insomma, tempi folli…”

 

Non so se sei al corrente che la vostra canzone The Funeral è stata recentemente usata in una produzione Netflix Italia intitolata Strappare Lungo i Bordi. È un colpo di grazia emotivo, non appena le note inconfondibili della sua intro attaccano, il protagonista raggiunge l’apice del suo viaggio interiore verso la presa di coscienza e accettazione della realtà che sta vivendo. Com’è il tuo rapporto con questa canzone in particolare, che ha fatto così tante apparizioni sia sul piccolo che grande schermo, solitamente per sottolineare momenti intensi (e spesso pieni di lacrime)?

“Ad essere onesti, il peso di quella canzone non mi aveva veramente colpito finchè non abbiamo iniziato a suonarla dal vivo e allora è diventata tutta un’altra cosa. È stato come… nel bene o nel male, ci sono persone che conoscono solo quella canzone, e sono lì, agli spettacoli, che aspettano solo quella specifica canzone, e noi che dobbiamo piegarci a fare il nostro spettacolino con la consapevolezza che “Tu non arrivi alla fine del concerto”. Questo è un aspetto della cosa. Ma ad essere perfettamente onesti, non è mai un’occasione persa per me suonare quella canzone, perchè la sala cambia, significa così tanto per così tante persone in così tanti modi diversi. Non solo per qualcuno che ha veramente subito una perdita… è un suono identificativo per le vite di così tante persone ed essere parte del gruppo che lo ha fatto, ne sono follemente grato. Amo l’uso che ne viene fatto nei film perchè è la canzone perfetta per quella roba. È evocativa di suo e non posso neanche immaginare quanto sia evocativa per la gente che l’ha sentita e un po’ se l’aspettano. Ma per quello che mi riguarda, non perderà mai la sua meraviglia. La gente continua a metterla nei film… questo è un gran bell’uso di quella canzone! Ancora e ancora! Funziona! È somatica e cinematica in modo ovvio. Penso sia fantastica. Lo show (Strappare Lungo i Bordi, NdT) è bello?”

 

Si, è veramente una bella produzione. È un fumetto animato di Zerocalcare, un comic artist davvero talentuoso e molto conosciuto in Italia. Pensavamo fosse sarcastico e invece, alla fine, quando The Funeral attacca, siamo scoppiati tutti in lacrime. È davvero un’esperienza di formazione.

“Wow! Zerocalcare? Ci darò un’occhiata, grazie!”

 

Laura Faccenda
Editing e Traduzione: Francesca Garattoni
Foto: Stevie and Sarah Gee