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A tu per tu con i Lovesick Duo

A tu per tu con i Lovesick Duo

| Alma Marlia

Incontriamo Paolo Roberto Pianezza e Francesca Alinovi al Santomato Live di Pistoia, dove stanno per esibirsi in un concerto. Loro sono i Lovesick Duo, un progetto musicale nato in Italia nel 2015, le cui radici attingono alla musica americana degli anni ‘40/’50 Rock n Roll, Western Swing e Country e che ha già riscosso molto successo sia in Italia che all’estero.

 

Benvenuti Francesca e Paolo, piacere di conoscervi; siamo curiosi di sapere quale è il percorso e quali sono le influenze che vi hanno portato a questo genere di musica che, nel nostro paese, non ha grande cultura e diffusione.

Paolo: “Ciao, siamo i Lovesick Duo, suoniamo come Duo dal 2015 e abbiamo all’attivo cinque dischi. Siamo partiti come tutti, dalle cover. Suonavamo le cover della tradizione, brani di Chuck Berry e Hank Williams; ci piaceva molto la musica degli anni ’50.
Abbiamo suonato con un quartetto per 5 anni, ma poi volevamo approfondire meglio questo genere e, dopo alcuni viaggi fatti negli Stati Uniti, con ancora addosso quell’entusiasmo del viaggio abbiamo deciso di dedicarci a questo percorso insieme. Dopo vari concerti in locali, ci siamo resi conto che in duo funzionava alla grande.”

 

Qual è stato il momento della svolta? Quando avete capito che c’era un progetto e che potevate fare quel passo in più?

Francesca: “L’abbiamo sempre saputo, in realtà, anche mentre suonavamo con la vecchia band. Non è mai stato un passatempo. Per noi che suoniamo insieme dal 2011 è sempre stata una professione, anche mentre facevamo altri lavori.”

Paolo: “Io studiavo all’Università e, contemporaneamente, all’Accademia di Chitarra, dove mi sono laureato; mi ricordo bene il momento in cui ho realizzato che non mi sarebbe servita una laurea in tecnica erboristica per fare il musicista. Non riuscivo a fare entrambe le cose insieme ed avevo bisogno di decidere. È stato tutto molto naturale.”

Francesca: “Io ho fatto mille altri lavori, sempre suonando; ho frequentato diverse Accademie per il Basso, due Conservatori per il Pianoforte e Contrabbasso. Nel 2010 sono cambiate molte cose nella vita, radicalmente, in diversi ambiti e alla fine ho pensato: se morissi domani quale sarebbe l’unica cosa che vorrei fare? Suonare.”

 

Le note di copertina del vostro ultimo disco A Country Music Adventure recitano: “Lo scopo di questo lavoro è anche divulgativo ovvero speriamo di suscitare un po’ di curiosità attorno a questo mondo che a noi continua a regalare tante emozioni”. Ci vuole davvero un grande amore ed anche un grandissimo coraggio per intraprendere un percorso come questo ed in maniera così rigorosa, in un paese che notoriamente non è mai stato troppo incline a questo genere musicale. Nei vostri live trovate un pubblico che conosce già le cose che proponete o incontrate anche gente che non conosceva ma si appassiona? Insomma, secondo voi questa curiosità che intendete stimolare, trova riscontro nel pubblico?

Francesca: “Si, in diverse forme, sia dal vivo che on line; l’idea di questo disco, abbinato al fumetto, è nata attraverso Lorenz Zadro, del nostro ufficio stampa.
Il pubblico che ci ha seguito in questi anni di pandemia era eterogeneo, gli piaceva quel sound, quell’atmosfera, quell’allegria che avevamo noi ma non aveva la conoscenza del genere o della lingua. C’erano tanti appassionati ma anche tanti che non conoscevano niente riguardo al genere.”

Paolo: “Questa cosa ci ha anche stimolato a scrivere cose nostre; ci siamo detti che se un pezzo che non conosce nessuno in cui noi mettiamo entusiasmo per le persone è come se fosse carta bianca, perché non lo conosce, perché non fare pezzi nostri? Perciò, abbiamo iniziato ad inserire sempre più brani nostri nei live.
Questo disco è di cover, ha uno scopo divulgativo, abbiamo pescato nel calderone della musica Country, abbiamo scelto i brani in modo specifico perché ricalcavano un fumetto, disegnato da Lorenzo Menini, ed abbiamo scelto la scaletta proprio per far sì che ogni personaggio importante nella storia sia presente anche nei brani.”

Francesca: “Il fumetto era la cosa fondamentale ed introduce le tematiche dei vari brani, incuriosendo, ed è servito molto.”

Paolo: “Siamo già in stampa con la versione inglese ed il vinile; abbiamo avuto molte richieste dall’estero, tant’è che è stata venduta la versione italiana in tutto il mondo per cui adesso lo stiamo stampando in inglese.”

Francesca: “Abbiamo anche un pubblico relativamente giovane, che scopre un Country moderno; in America ci sono una serie di indie Country e pop Country oltre ad un Country di nicchia e tanti giovani, conoscendo noi, arrivano ad una serie di playlist che li portano a scoprire un sottobosco che in Italia non esiste, ma che nel resto del mondo c’è. Ci sono moltissimi ragazzi di 20/25 anni che suonano questo genere, che non è vecchio, anzi ha sonorità super moderne.”

Paolo: “Una cosa importante del Country, sono i testi; al di là del sound che può essere più vecchio o più nuovo, più glitterato, più pop ma ci sono sempre delle storie molto belle, c’è tanto songwriting, composizione ed è tutto sempre attuale.”

 

Il vostro album La Valigia di Cartone era interamente cantato in italiano, come parte del successivo. Pensate di ripetere ancora questa cosa in futuro?

Paolo: “Questo è uno dei nostri crocevia. È stata una sfida quell’album ed è andato molto bene perché abbiamo avuto un bellissimo riscontro che è quello che cercavamo di ottenere dal vivo come ottenevamo all’esterno quando facciamo i brani in inglese ma in Italia con i nostri pezzi in italiano. Continuarlo? Non so…In realtà abbiamo molti pezzi già pronti, da decidere se e quando pubblicarli.
In questo momento abbiamo preso la strada dell’inglese perché avevamo tante cose all’estero. Volevamo metterci alla prova con l’inglese e vedere come andava; sta andando molto bene e quest’ estate avremo un bel tour europeo che si sta delineando sempre più ma mai dire mai.”

 

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Potete dirci qualcosa della vostra esperienza a New Orleans e negli States in generale?

Francesca: “Ne La Valigia di Cartone c’è tanto di New Orleans perché è là che Paolo ha scritto molti pezzi, vivendo da un musicista che spesso suona qui in Italia e con cui c’era un grande scambio di pensieri e riflessioni su come trasmettere certe cose nella nostra lingua.
New Orleans è una città super stimolante ma i viaggi in America sono stati diversi ed ogni volta super stimolanti sia per poter riparlare la lingua ma anche per ricaricarsi e prendere il più possibile dalla loro cultura; tante esperienze pazzesche, tipo registrare un album, tante jam sessions e concerti nati così, per caso.
La velocità di connessione negli States è impressionante. Quando sei un musicista, se hai una certa attitudine, ti capita davvero molto velocemente di poter fare qualcosa. Una cosa tira l’altra. Poi viverci sarebbe tutt’altra cosa.”

Paolo: “Avevamo trovato la nostra dimensione, due mesi là e poi qua in Italia ma la pandemia ci ha bloccati. Probabilmente questo autunno ci torneremo. Ci piaceva stare qua ed andare là ed avere questa doppia possibilità.
Ma ci piace molto anche viaggiare infatti questa estate viaggeremo molto in tutta Europa e ne siamo felici.”

 

Visto che avete una presenza costante sui social, ci piacerebbe entrare un po’ di più nel vostro privato, in particolare ci piacerebbe sapere cosa ascoltavano Paolo Roberto Pianezza e Francesca Alinovi?

Francesca: “Ascoltavo vinili dei cartoni, perché i miei me li compravano; durante il periodo del Conservatorio non ascoltavo troppo musica classica, ma qualcosa si. I miei non erano appassionati ma mio zio si e da lui vedevo TMC ed i vari live ed aveva dei vinili Metal. A sedici anni ho scoperto la musica Punk e da lì il mondo Hard Rock e Metal, tutti gli anni ’90, passando per lo Ska e poi il Blues, che ho conosciuto tardi, e il Jazz, tardissimo. I grandi come Beatles, Stevie Wonder, Jackson io non avevo nemmeno idea di chi fossero. Avevo una cultura underground musicale perché stavo dietro ai locali, facevo fanzine, avevo un furgone col quale portavo le band, per cui avevo più un tessuto di questo tipo ma dei grandi nomi…zero! Totalmente! Poi si è tutto evoluto. Adesso ascolto di tutto anche i dischi che ci mandano, li ascolto tutti quanti! Ascolto qualsiasi cosa e vado a periodi.
Paolo invece in macchina ha playlist su playlist.”

Paolo: “A me piace scoprire ma un po’ alla volta certe cose per cui quando prendo l’infilata con un artista lo ascolto a ripetizione prima di passare ad altro o faccio anche tante playlist ma ho bisogno di ascoltare tante volte la stessa cosa.
Sono un grande fan dei Beatles. Mio papà mi ha fatto sentire davvero tanta musica quando ero piccolo e adoravo ascoltare la musica in macchina. Mio papà era Beatles fanatico. Sento dei dischi di Paul McCartney che non ho mai sentito, ma in realtà conosco già tutto il disco. Loro, gli AC/DC, Stevie Ray Vaughan, Stevie Wonder, tutto questo mondo l’ho scoperto grazie a lui.
Sono sempre stato sveglio, suonavo il piano, ho imparato la chitarra da solo ma il legame con la musica vecchia è nata in realtà dal ballo. Io ballavo Lindy Hop e Boogie-woogie.
Un giorno mia mamma mi ha portato a lezione di Boogie ed è stato impiantato questo semino che è rimasto lì fino a che, verso i 18/19 anni, mi è tornato e, insieme ad una ragazza – che è stata campionessa italiana, tra l’altro – abbiamo fatto due anni intensissimi. A quel punto Elvis è diventato il pane.
Questo, unito al fatto che suonavo e con l’incontro con Francesca, ha fatto sì che tutto si riconnettesse ed è avvenuto il tuffo nella cultura americana.
L’altro snodo importante sono stati i viaggi in America perché hanno fatto fare un’impennata vertiginosa al mio inglese ed hanno fatto sì che potessi capire bene le parole delle canzoni che non conoscevo. Il mio insegnante di chitarra era americano, ho studiato là con lui. L’inglese è davvero importante nella Country music essendo i testi importantissimi.”

 

Live e streaming. La pandemia e la chiusura di locali e live theatre hanno aperto la strada ai concerti in streaming che, anche se non hanno la stessa immediatezza emotiva dei live, sono riusciti ad aiutare gran parte del pubblico ad affrontare un periodo così difficile, ma anche a far conoscere realtà artistiche e musicali che spesso rimangono localizzate. Pensate che i concerti in streaming potranno comunque avere un futuro ora che la situazione si sta aprendo? Pensate che sarà possibile integrare queste due forme di concerto oppure fate parte della corrente “purista” che aspira a un ritorno al solo concerto live? Quali vantaggi o svantaggi potrebbe portare quella eventuale integrazione al vostro genere musicale, che ancora ha difficoltà a diffondersi nel nostro Paese?

Francesca: “Per un po’ li abbiamo fatti. Per la maggior parte dei musicisti è fondamentale avere un momento catartico; ricordo che quando studiavo pedagogia musicale si parlava proprio del processo dall’inizio, dallo scrivere musica all’arrivo sul palco e se non arrivi a quel momento lì, in cui c’è lo scambio diretto con l’altra persona e quindi anche il volume, le luci, i riflessi che il corpo mette in atto, è paragonato ad un rapporto sessuale che non arriva alla fine e quindi il corpo ne soffre. Secondo me arrivare fino allo schermo non basta. Manca il viaggio, la conoscenza di tutte le nuove situazioni, il volume. Non c’è la stessa soddisfazione per cui torni al punto di partenze ed il ciclo non si chiude per cui secondo me non potrà mai cambiare.”

Paolo: “Abbiamo fatto un sacco di streaming da casa, son andati bene in quel momento c’era un pubblico che ci seguiva ed abbiamo prodotto un sacco di contenuti e quindi facevano parte di quei contenuti; se uno prendesse solo l’estratto dello streaming sarebbe una cosa diversa, nell’ottica di quel momento avevano un altro significato. Il concerto trasmesso in streaming invece è un’altra cosa, che è una figata! Anche non in streaming, anche se fosse registrato. Ma lo streaming a casa no. Preferisco comunque il video allo streaming in modo da avere delle belle riprese in quanto mancherebbe la forza dell’interazione perché saremmo su un palco e non potremmo rispondere nell’immediato. Allora se voglio vederlo voglio belle immagini ed un ottimo audio.”

 

In concomitanza con l’uscita di Threads nel 2019, Sheryl Crow ha dichiarato di voler abbandonare il mondo della musica perché, citiamo letteralmente, “Non c’è più voglia di ascoltare dall’inizio alla fine l’album di un cantautore. Il pubblico si crea il disco che vuole mettendo insieme delle semplici playlist. Il concetto di album appartiene al passato”. I vostri album sono dei viaggi musicali da vivere nei singoli brani, ma che nascono, comunque, per un ascolto completo del progetto: siete d’accordo con l’affermazione dell’artista statunitense? Pensate che questa attitudine a spezzettare i progetti per poi ricomporre delle playlist personalizzate sia il futuro della fruizione della musica oppure pensate che ci sarà un’inversione di tendenza? Come vorreste che fosse ascoltato un vostro progetto?

Francesca: “Penso che un personaggio così grande può dire che si è stufata e che adesso creare queste playlist fa parte del nostro mondo, che in qualche modo è sempre esistito. Ma non ascoltare un album intero no. Sentire solo singoli di un artista mi deluderebbe tantissimo. Mi stupirei del fatto che sia andato in studio ad incidere i singoli e non album.”

Paolo: “Se c’è una cosa che ti piace ne vuoi ancora e mettere tutto nello stesso contenitore un po’ alla volta fa anche sì che se ti piace così tanto ce n’è ancora, in quel disco lì! Ad esempio l’altro giorno ho messo su John Prine di John Prine e l’ho ascoltato due volte dall’inizio alla fine.”

Francesca: “Parlando con due mie cugine adolescenti, so che ascoltano YouTube e quindi passano ad artisti simili e scoprono. Seguono comunque un filone, non vanno a caso.”

Paolo: “Per noi che abbiamo un pubblico di nicchia credo che l’album sia fondamentale.”

 

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Francesca, abbiamo visto dai video che hai una sorta di “appendice” montata sulla tavola del contrabbasso, che suoni ad incastro allo slap con una spazzola da batteria. È un’idea tua o ti sei ispirata ad altri bassisti che usano questa soluzione?”

Francesca: “È partito tutto da Paolo, tornato da Nashville mi ha fatto vedere un video di Kent Blanton, un musicista che suonava un rullante applicato al contrabbasso e mi ha chiesto di provare. Io non ne avevo nemmeno l’intenzione. Circa due anni più tardi, sono andata anche io a Nashville e quando sono tornata sono andata mi sono decisa ad andare da un liutaio e provare a ricreare quello strumento.
Ho cercato video su YouTube ma nessuno mi ha aiutata per cui abbiamo proceduto per tentativi, cercando di capire quale fosse il modo migliore.
Da quando ho visto suonare Blanton a Nashville a quando sono riuscita a suonarlo è passato circa un anno!
Con il liutaio abbiamo poi pensato di fare un modello più sottile con i piedini regolabili per qualsiasi contrabbasso e fatto sta che adesso in molto lo hanno comprato. Io ho anche fatto dei video in cui spiego come suonarlo.
Ho anche fatto lezioni in America a degli americani che volevano suonarlo perché non sapeva come fosse. Oppure a qualcuno che ci aveva già provato ma non riusciva a capire come si facesse, come stava su o il suono o il tipo di pelle.
Ognuno ha il suo modo di suonarlo, adattato alla tecnica che hai sul suo strumento, per cui i movimenti saranno diversi per tutti.”

 

Vi incastrate a perfezione ed avete un rapporto che sembra bello anche al di fuori, come è nato tutto?

Paolo: “Noi siamo una coppia e ci siamo conosciuti in un bar. Lei suonava in un posto ed io suonavo con un altro ragazzo e siamo andati lì a bere una birra e ci siamo presentati. Quel giorno siam saliti sul palco a fare un pezzo insieme, immediatamente sul palco e così è nato tutto, compresa la prima band.”

 

Grazie mille per la disponibilità a Francesca e Paolo, Lovesick Duo.

 

Letizia Mugri e Alma Marlia
Foto Letizia Mugri