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Tigran Hamasyan @ Teatro Olimpico

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• Tigran Hamasyan •

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Doctor 3

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Teatro Olimpico (Vicenza) // 19 Maggio 2022

 

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Se è vero che la musica è il traffico dei nostri pensieri, non oso immaginare cosa posa passare per la mente di Tigran Hamasyan.

Fatto sta che nel dirigermi verso il teatro, mi sono imbattuto in un incredibile traffico (urbano questa volta, meno poetico me ne rendo conto) e l’avvicinamento al Teatro Olimpico di Vicenza è stato alquanto rocambolesco, quasi propedeutico a quello che mi sarebbe aspettato.

No!!! Non dirò math-prog-jazz o similari, questa volta non è così e comunque non mi piace per niente definirlo con questi composti! Facciamo piuttosto un passo indietro. Tigran l’avevamo lasciato in Levitation 21, un infinito ipertesto ritmico che trova sintesi in una rocambolesca creatività priva di gravità (scusate il gioco di parole). Trattasi di una composizione inusuale e inarrestabile, dove la narrazione viene stravolta con spaventosi cambiamenti chiave in cui viene eviscerato il tempo di 21/8, si, ho detto 21/8..da rimanere a bocca aperta, lo so. 

Ma questa volta no, non mi attendo una performance labirintica a base di arrangiamenti convulsi e drammatici, dettati da tempi ultracomposti e scale mediorentali.

Questa volta mi aspetto qualcosa di diverso, perché Tigran si è messo in gioco in qualcosa per lui nuovo, dando forma a StandArt, Il suo primo album di cover, nel quale traduce un materiale noto se non familiare, realizzando, infatti, un personale manifesto espressivo sugli standard jazz del Great American Songbook.

È proprio sulle fondamenta di questi standard che Tigran libera una comunicatività nata sì con i classici a cui rende omaggio, ma con una lucentezza moderna e con un’onestà artistica che si manifesta in un’espressività senza risparmio, libera da archetipi e frasi fatte.  

Il nome di Hamasyan è balzato all’attenzione nella scena per la complessità del lessico musicale che lo caratterizza a più strati. Il suo personale eclettismo così libero richiama certe atmosfere norvegesi di Jan Garbarek, alternate a frangenti musicali metallici, industriali, dalle sfumature teutoniche di vent’anni fa. 

Forse potremmo decodificare la sua arte in due grammatiche compositive coltivate assieme, dove una fa da stampella all’altra. 

Il primo linguaggio sicuramente più d’atmosfera, riscontrabile nelle appoggiature cortesi e nel suo canto solenne, negli schizzi sulla tastiera, negli andamenti cromatici delicati, un flusso introspettivo e lieve dove jazz, ambient e classica vengono avvolti da folate di vento armene.

L’altro intento comunicativo, certamente più impetuoso, di contraltare è composto da una granitica e titanica robustezza, dove continui capovolgimenti melo-ritmici sconfinano tra progressive rock e jazz contemporaneo, andando a braccetto con soluzioni tipicamente metal djent e incastri ritmici non soliti. 

L’articolazione ritmica dei brani di Hamasyan si accosta infatti ai contorsionismi poliritmici di pilastri dello djent come Meshuggah e Tool, già da tempo ispiratori del musicista. Ma non è tutto qui, nel pianismo di Hamasyan è palese un ulteriore parabola estetica condivisa sottotraccia da queste due categorie, qualità che lo rende velocemente riconoscibile in entrambe le situazioni.

E dopo questo “Spiegone” in stile Marco Damilano in Propaganda live, eccoci quì: Tigran Hamasyan è lì, sopra il maestoso palco palladiano del Teatro Olimpico di Vicenza, e davanti a quelle quinte cinquecentesche in prospettiva sembra aver raggiunto il suo momento perfetto.

Personalmente, ogni concerto ha un punto di beatitudine oltre al quale desidero tornare a casa: beh, questa volta ho la sensazione che non sarà possibile enuclearlo. 

Veniamo al dunque, provando a rispolverare qualche vago concetto di tre anni di pianoforte ormai passati da un po’.

Tigran parte quasi in sordina con note ribattute alla mano sinistra, mentre le mani dei presenti, si congiungono e i nostri occhi fissi su di lui cominciano a creare un pianeta nuovo. Il suo suono ha un corpo imponente, sacro e mai oltraggioso.

In un pianissimo, le sue dita piangono su un pianoforte tonalmente non facile da definire. Introduce un piccolo tema che attraverso trasposizioni, va a creare tensione. 

L’ascolto, a partire dalla cellula melodica, pian piano cambia e diventa sempre più ricco di cromatismi ed arpeggi nell’ordine acuto, con molti strati di umori, sentimenti, sguardi ed espressioni.

Il trio suona dinamiche stop-start con tempi che mutano in continuazione e con battute molto misurate della sezione ritmica, a rinforzano la narrativa del concerto.

Sia nel caso di interplay o unisoni, il dialogo è sempre suddiviso in parti uguali e rari sono i momenti esclusivamente solistici. 

L’estetica del suono dei tre è fondata su schemi metrici maniacali. Ossessivi diventano i giochi d’incastro sbattuti senza indugi in primo piano, evitando manierismi tecnici per mero piacere estetico. Piuttosto risale una certa autenticità nel sottotesto narrativo del loro suonare. 

Tigran gioca con i suoni, con le loro altezze, sforzando i ritmi per una resa di rara efficacia emotiva. 

D’un tratto, nell’ordine acuto del pianoforte si manifestano arpeggi diminuiti, in un flusso interiore che sintetizza l’universo emotivo che lo circonda. 

Hamasyan con la mano sinistra tiene bordone con note ribattute e martella incessantemente la melodia con grappoli cromatici di note. Allo stesso tempo insiste sulla parte centrale della tastiera. Ricchi artifizi armonici creano un’atmosfera maestosa e solenne, mentre Justin Brown alla batteria detta un hip-hop dal groove rilassato.

Tigran graffia il pianoforte, si muove con grande teatralità e un’espressività impensabile anche ai più audaci dei tempi dispari. 

Il pianoforte di Hamasyan balza e rimbalza sul ritmo costantemente ribollente che Matt Brewer al contrabbasso e Justin Brown impongono.

Borwn articola complesse linee bebop in stile Parker nel bel mezzo di un improvviso cambio di tempo che va dal jazz 4/4 veloce al funk spezzato. 

Per Tigran esiste uno stato di ebrezza che coincide con uno stato di grazia: riesce a massimizzare il suo rendimento, la sua ispirazione, e quando suona gli riesce quasi tutto, ecco cosa è accaduto questa sera.

Quasi a ringraziare il suo strumento per averlo redento, Tigran Hamasyan si inchina davanti al suo pianoforte, dimostrandogli profonda gratitudine e amore. Gli applausi del pubblico ammaliato lo avvolgono e ringraziano per averci ospitato tra il traffico dei suoi pensieri. 

Quando tutto finisce, non vorrei più tornare nel (mio) traffico e rientrare a casa.

 

Testo e Foto: Massimiliano Mattiello
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doctor 3, Live, Music, tigran hamasyan, vicenza