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Tag: alberto adustini

Roger Waters @ Unipol Arena

Bologna, 28 Aprile 2023

 

Stamattina mi son svegliato relativamente presto, considerato che ieri sera sono rientrato da Bologna quasi alle tre. Sbrigata una rapida colazione ho sentito l’urgenza di mettere su le cuffie ed ascoltare Brain Damage e in obbligata successione Eclipse.

Avevo bisogno di tornare a qualche ora prima, agli spalti dell’Unipol Arena di Bologna, necessità di metabolizzare le quasi due ore di concerto di Roger Waters, forse semplicemente di non interrompere quel flusso, apparentemente non esplicabile in maniera universale, anzi molto personale.

Che poi è forse quella la grandezza della musica, della grande musica, dei grandi musicisti, quella di saper creare migliaia di univoci sinceri rapporti.

Soprattutto, ma non solo, umani.

In una serata come quella appena vissuta, spesso ciò mi che resta di quel turbinio di emozioni contrastanti, slanci emotivi, momenti estatici, poche pause e diffuso senso di beatitudine, almeno personalmente, si riduce a pochi frammenti, pochi istanti.

Mi capita di continuo. 

Ancora non ho capito se sia la mia psiche, il mio cervello meglio, che necessita di fare “pulizia” e fissare pochi indelebili fotogrammi a imperitura memoria. 

Forse un pò come i ricordi base, se avete visto Inside Out, il film d’animazione della Pixar di qualche anno fa.

Personalmente (e per certi versi colpevolmente per aver tardato tanto) ero al mio primo, e con ogni probabilità unico, concerto di Roger Waters. Sapevo grossomodo a cosa andavo incontro, pur essendomi tenuto in questi mesi con ogni forza lontano da video, foto, recensioni, polemiche, setlist, per arrivare quanto più vergine possibile di fronte ad uno dei miei grandi numi tutelari in campo musicale, e le attese sono state ripagate. Abbondantemente aggiungerei.

Lo show messo su dal prossimo ottantenne (!) proveniente da Great Bookham si è rivelato da subito (l’apertura affidata a Comfortably Numb ha rappresentato in tal senso una dichiarazione d’intenti chiara) abbacinante, non solo dal punto di vista visivo, e travolgente, non solo dal punto di vista musicale. 

Il palco a forma di croce al centro del palazzetto, almeno sulle prime, ti lascia una sensazione di distacco, di lontananza, specie per chi come il sottoscritto sedeva sulla tribuna opposta rispetto a quella verso la quale era rivolto Waters, ma la resa in primis sonora dell’impianto e in secundis dei giganti led wall che riprendevano la scena, permetteva di azzerare la distanza e di compattare le quindicimila (stima mia spannometrica) presenze attorno ai nove musicisti al centro della scena.

Mi pare inutilmente retorico soffermarsi sulla perizia e maestria dei vari Wilson, Kilminster, Waronker, il sax di Seamus Blake (mio personale MVP comunque della serata, un paio di assoli cla-mo-ro-si), la band funziona a meraviglia e lo show non ha pecche, sia come ritmo, che come setlist, non banale, specie nell’ordine dei brani, con un paio di momenti (ecco i famosi ricordi base di cui sopra) di immane bellezza: l’accoppiata Wish You Were Here / Shine On You Crazy Diamond, accompagnata dal racconto di Waters e Barrett ad un concerto degli Stones, e la conclusiva Brain Damage ed Eclipse, dove migliaia di ghiandole lacrimali sono state messe a dura prova.

Il finale in acustico affidato ad Outside The Wall, con la band stretta in cerchio attorno a Waters seduto al piano, quasi fossero al bancone del bar spiega il nostro durante la serata, è un finale davvero centrato, azzeccato, quasi intimo per quanto la situazione potesse permettere, spoglio, in netta – e riuscita – contrapposizione con la maestosità e ricchezza che lo precedeva. 

È più o meno tutto qui. 

Ah già, ci sarebbe l’aspetto politico del concerto, quasi preponderante dato il numero di messaggi e input e riferimenti, più o meno espliciti, lanciati dai primissimi vagiti fino al crepuscolo della serata. 

Si svaria sui più diversi fronti, dal conflitto palestinese alla questione mediorientale, dalle guerre targate Stati Uniti ai diritti delle minoranze, passando per Chelsea Manning, Assange e i più crudeli ed efferati crimini di guerra, e l’impressione che ho, conoscendo in maniera superficiale e indiretta l’impegno e l’attivismo che Waters profonde da anni, è quella di un nobile intento forse non del tutto a fuoco. Senza dubbio ciò è ovviamente dovuto alla necessità di concentrare tante “missioni” in un tempo relativamente breve. E per questo, parer mio, va bene così.

E dopotutto è lo stesso Waters ad ammonire ad inizio spettacolo, con queste parole che tradotte suonano all’incirca così: “Se vi piace la musica dei Pink Floyd ma avete da ridere con la visione politica e i messaggi di Roger, beh potete tranquillamente andarvene a fanculo al bar”.

 

Alberto Adustini

Emiliana Torrini & The Colorist Orchestra “Racing the Storm” (Bella Union, 2023)

C’è stato un momento, a cavallo tra anni ‘90 e 2000, nel quale il principale fulcro musicale in Europa era rappresentato da un’isola posta a nord della Francia, a est della Norvegia e che sorprendentemente non rispondeva al nome di Inghilterra. 

Ólafur Arnalds, Gus Gus, Amiina, Mìnus, oltre ai più celebrati Mùm e Sigur Rós hanno fatto dell’Islanda un caso di studio, in quanto per un periodo, in una sorta di “effetto re Mida”, tutto ciò che varcava quei confini aveva le stimmati del capolavoro o quasi.

Tra i nomi da annoverare in quel gruppo c’era (e c’è tutt’ora) anche quello di Emiliana Torrini, evidenti origini italiane (il padre è di Napoli) ma in tutto e per tutto islandese di Kópavogur (concittadina tra l’altro di Hafþór Júlíus Björnsson, vincitore nel 2018 del World’s Strongest Man, che quell’anno si tenne a Manila, nelle Filippine).

Emiliana Torrini esordisce nel 1999, con un disco a metà strada tra il trip hop e un più canonico cantautorato folk, che diventa preminente nel successivo (e ancor più splendido) Fisherman’s Woman.

A questo punto la Torrini esce un pò dai radar, pur continuando ad essere attiva discograficamente, io per primo quasi me ne dimentico, per cui la gioia che mi ha procurato l’ascoltare questo suo ultimo lavoro è stata sincera e genuina. 

E per certi aspetti sorprendente.

Racing The Storm, questo il titolo del disco, è licenziato in realtà a nome Emiliana Torrini & The Colorist Orchestra, secondo capitolo di una collaborazione che aveva visto la luce nel 2016 con un live album (meno riuscito di questo imho) di brani già pubblicati dalla nostra.

Questa volta invece siamo di fronte ad un disco di inediti, undici per l’esattezza, scritti, composti ed arrangiati dall’artista islandese in concerto con The Colorist Orchestra, ensemble belga (anche se gira attorno alle figure dei due polistrumentisti Aarich Jespers e Kobe Proesmans) formatosi nel 2013.

Il disco è delizioso, veramente. Gli arrangiamenti architettati dai due Colorist sanno essere ora delicati come nella splendida Wedding Song, ora dirompenti, come nel finale di You Left Me In Bloom, strizzano l’occhio al folk nell’apertura intitolata Mikos (qui e lì ci puoi sentire rimandi a quel chamber folk in stile Ben Sollèe), echi pseudo trip hop in Smoke Trails, il dream pop di Dove o più spiccatamente cinematografici (The Illusion Curse o la strumentale A Scene From A Movie) dove i Tindersticks non sono così distanti.

Il resto lo fa la voce di Emiliana, capace di adattarsi con naturalezza alle diverse forme assunte dai vari brani lungo questo disco, un timbro particolare ed inconfondibile, in veste di guida e protagonista di queste undici gemme. Un’artista davvero (per me) ritrovata in tutto il suo splendore, nel pieno di una maturità artistica e varietà stilistica verso la quale è impossibile non rimanere affascinati. E adoranti.

Bentornata Emiliana.

 

Emiliana Torrini & The Colorist Orchestra
Racing The Storm
Bella Union

 

Alberto Adustini

Algiers “Shook” (Matador Records, 2023)

Non mi pare di averlo visto scritto da nessuna parte, ma non ci sarebbe stato male un alert stile “handle with care”, maneggiare con cura, sulla copertina di questo Shook degli Algiers.

L’ultimo lavoro in studio della band di Atlanta, uscito ancora per la fedele Matador Records, è probabilmente il loro lavoro più impegnativo, complesso e potente.

Non so dire se sia il loro migliore, anche perchè qui entriamo in una sfera strettamente personale, ed io lo ricordo ancora in maniera nitida qualche anno fa lo stupore che provai la prima volta che ascoltai The Underside of Power. 

Stavolta è stato diverso. Già con l’iniziale Everybody Shatter mi sono visto costretto ad abbandonare tutto ciò che stavo facendo e focalizzare l’attenzione nell’ascolto, nella potenza di un verso come “So we imprison ourselves and don’t see we hold the key”. 

Shook è un disco esigente, come d’altronde sono gli Algiers, nella sostanza, dall’alto delle sue 17 tracce e oltre 50 minuti di durata, o dei suoi innumerevoli ospiti, che campeggiano in bella vista sulla copertina del disco. 

Esigente soprattutto però nella forma, nei frenetici ritmi di A Good Man “So many shadows / that I can’t sleep at night”, o nei versi sempre taglienti di Zach de la Rocha nella travolgente Irreversible Damage “And my peace torn in an alley abandoned an’ murdered then reborn in a beat form breathless”, come nel lamento di Out Of Style Tragedy sulle sparatorie che ormai nemmeno fanno più notizia.

I momenti più riflessivi ed intimi sono affidati a dei simil spoken words, come in Born, con la voce di LaToya Kent, anima dei magnifici Mourning [A] BLKstar, o in As It Resounds (“We can no longer sit in acceptance of our own spiritual recession” è un monito drammaticamente vero e universale che difficilmente qualcuno di noi riuscirebbe ad ignorare serenamente) con le tonalità baritonali di Big Rube.

Non mancano ovviamente nemmeno i passaggi debitori al tanto amato gospel, che ben si sposa con la voce multiforme di Franklin James Fisher, Green Iris ed il suo incedere dispari o la conclusiva Momentary, un barlume di speranza, una luce in un presente fatto di violenza ed ingiustizia, di egoismo e di sempre più diffusa ignavia:

“When we die

Our beloved 

Our kinfolk 

Fear not

We rise”

 

Algiers
Shook
Matador Records

 

Alberto Adustini

Algiers @ Capitol

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• Algiers •

 

Capitol (Pordenono) // 18 Febbraio 2023

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Son da poco passate le 22, sistemati gli ultimi dettagli sul palco del Capitol (anomala sala da concerti, in primis perchè in centro, all’interno di un palazzo residenziale, et in secundis per la presenza sulla gradinata verso l’ingresso di un cospicuo numero di divani comodi e coccoli ai limiti dell’illegale che uno si deve far violenza poi per staccarsi e raggiungere il palco), una flebile luce rossa ad accogliere gli Algiers, oggi in formazione a cinque, con una – per il sottoscritto – sorprendente doppia batteria ad accompagnare il trio storico Lee Tesche (chitarra, cori e synth), Ryan Mahan (basso, synth e coreografie clamorose), ovviamente Franklin James Fisher (voce, piano e chitarra). 

Le mie aspettative per la serata sono tendenti all’altissimo (inteso indifferentemente come molto alto o con la A maiuscola, insomma ci siam capiti) e mi sposta di nulla il fatto che gli Algiers siano qui a presentare il loro quarto disco in uscita a giorni e del quale sono state messi in circolo una manciata di singoli, motivo per il quale la scaletta sarà prevalentemente inedita (set list che peraltro pare stiano cambiando ogni sera per cui il problema proprio non si pone).

È su un’intro rumorosa ai limiti del cacofonico, creata con una vecchia radio, che deflagra con una potenza abbacinante Irreversible Damage, che sul disco vede la presenza del signor Zach de la Rocha. L’aggettivo non è usato a caso perchè l’impressione è proprio quella di un fascio luminoso che squarcia il tetto e punta dritto verso le stelle, un cazzotto in pieno volto se preferite altro tipo di metafora, insomma una rabbia furiosa scaricata verso la platea.

I volumi sono decisamente sostenuti e coprono ogni rumore esterno, permettendoci di creare un privato e intimo collegamento con quanto avviene sul palco; la musica degli Algiers tende infatti ad esulare e evitare qualunque tipo di catalogazione o definizione, arrivando pertanto al pubblico più eterogeneo e diversificato: non è musica strettamente da ballare, date le ritmiche spesso sincopate (73% per citarne solo una), non ci si può pogare sopra, parimenti è difficile restare seduti (provateci voi durante Cry of The Martyrs), non è punk, o forse lo è, ma è anche gospel (Black Eunuch), è elettronica, echi industriali, ci sono passaggi quasi queercore stile God Is My Co-Pilot, un momento sembrano i TV on the Radio dei tempi belli e un attimo dopo i Nine Inch Nails di March of the Pigs. Questa incredibile capacità di mutare senza mai snaturarsi davvero e ciò che li rende a mio avviso uno delle cose più belle accadute alla musica negli ultimi dieci anni. E sono pienamente consapevole di quanto dico e pronto a sostenerlo di fronte a chicchessia!

Musicalmente parliamo di un gruppo con pochi, pochissimi eguali o emuli, e a questa singolarità ci accompagnano testi intrisi di militanza ed impegno politico: il risultato non può che essere un micidiale mix spigoloso e quanto più abrasivo potete immaginare, una band che letteralmente “non fa prigionieri”.

Nella speranza, speriamo non vana, che il quartetto di Atlanta (ma con base a Londra) torni a farci visita a breve, contiamo i giorni che ci separano dall’uscita del nuovo disco, Shook, e nel frattempo ci beiamo della bellezza di cui siamo stati testimoni.

 

Alberto Adustini

Foto di Massimiliano Mattiello
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I Gazebo Penguins e i loro dischi inevitabili quanto necessari

Dopo le quattro date evento per presentare il loro ultimo disco, Quanto, e in vista del prossimo tour in giro per tutta l’Italia, abbiamo intervistato i Gazebo Penguins, che si confermano una delle band più interessanti in Italia. E probabilmente la miglior live band che vi possa capitare di incontrare.
Ci ha risposto Capra.

 

Ciao ragazzi, grazie intanto per la vostra disponibilità e benvenuti su VEZ Magazine. A noi il disco è piaciuto davvero molto, per cui iniziamo col chiedervi quando avete iniziato a comporre le nuove canzoni e quanto tempo è stato necessario per avere le sette che sono poi finite nel disco.

“Allora, avevamo iniziato a buttare giù un po’ di bozze ancora prima del lockdown e successivamente abbiamo continuato a lavorarci anche durante i vari isolamenti forzati, ma onestamente pochissima della roba lavorata in quei periodi è finita nel disco, giusto un paio di giri. Quando si è potuto ricominciare a suonare da seduti abbiamo deciso di rimetterci in gioco, rivisitare le nostre canzoni e provare a dargli un senso un po’ deviato per il periodo deviato in cui ci si trovava a vivere.

Dopo quel tour, denso di sentimenti parecchio antitetici, è partito il lavoro più serrato verso il disco nuovo. Se dovessimo sommare tutti i mesi arriviamo tipo a contare quasi tre anni, ma in realtà i mesi più intensi e produttivi saranno stati otto.”

 

Si è trattato di un disco difficile da fare? E cos’è cambiato in voi rispetto al passato? Intendo soprattutto a livello compositivo, se negli anni è cambiato il modo di realizzare e registrare poi i brani. 

“È stato un disco nato e cresciuto in maniera molto diversa dagli altri.
Nel silenzio. Magari nemmeno tutti assieme. Le bozze dei pezzi crescevano settimana dopo settimana davanti allo schermo di un computer, senza fretta, cambiando e sostituendo parti se non ci convincevano più, riscrivendo fino a dieci finali diversi per la stessa canzone, a volumi bassi, senza amplificatori. E quando una prima scaletta del disco ci sembrava ok, abbiamo portato tutto il sala prove e alzato la manopola del gain.”

 

Sbaglio se dico di sentire una sorta di continuità, un trait d’union, tra Nebbia e Quanto? Sia come tematiche che molto anche a livello di sonorità.

“Probabilmente sì. Alla fine la ricerca del suono per noi è forse la prima cosa che emerge quando ci mettiamo a scrivere un disco nuovo. E la ricerca del suono non parte da zero, fa sempre parte di un percorso che hai intavolato nel momento in cui hai cominciato a prendere la musica sul serio. Procede. E si sposta man mano.
Sulle tematiche non sarei invece così sicuro di darti ragione.
Però, se volessimo trovare un tratto di continuità, potrei dire che Nebbia partiva da una riflessione sulle relazioni collegate a una dimensione – uhm – meteorologica, mentre Quanto prende spunto da tanti concetti cari alla meccanica quantistica e alla fisica del novecento per provare a raccontare storie del mondo, quello in cui viviamo, quello in cui vorremmo vivere, quello che non vivremo mai. In entrambi i casi si parte da una dimensione molto terrena, che da un album all’altro opera come uno scavo in profondità, nei recessi della materia e del tempo.”

 

Com’è nata l’idea di inserire il sax? Credete che in futuro potrà esserci spazio per altre sperimentazioni, anche più presenti e impattanti?

“Magari! Sulla strumentale di Nubifragio ci sembrava perfetto il suono del sax, uno strumento a fiato, un suono fatto di aria, che creasse qualcosa di turbinoso, ipnotico, e le idee portate da Mallo (Manuel Caliumi) in studio sono state esattamente quello che speravamo.”

 

Un po’ in controtendenza con quanto accade ormai sempre più frequentemente nello showbiz, non siete dei grandi utilizzatori delle collaborazioni, salvo rare eccezioni. C’è una motivazione dietro a questa scelta? E qualora ne aveste la possibilità, con quale artista, presente o passato, vi piacerebbe collaborare?

“Abbiamo sempre fatto uscire un disco nuovo solamente per un motivo di necessità. Non abbiamo mai avuto pressioni, né interne né esterne: un disco arrivava quando era il momento, quando per noi diventava inevitabile, necessario. Siamo legati all’idea, forse anacronistica, che la musica nuova che arriva debba rappresentarci nel modo più trasparente possibile, che sia qualcosa di nostro, in una maniera integra, completa. E, senza voler peccare di supponenza, ci piace l’idea di poter suonare tutto quello che ci serve per realizzarlo.
Detto ciò, non abbiamo nulla contro le collaborazioni, specialmente se diventano qualcosa che riesce ad entrare un po’ più nel cuore della composizione, senza essere troppo di superficie.
Abbiamo iniziato a fare qualche chiacchiera con i Post Nebbia, per capire se sia possibile inventarsi qualcosa che vada proprio in questa direzione.”

 

Come sono andate le quattro date di presentazione di Quanto? Avete già capito quali potranno essere i brani che entreranno in pianta stabile nelle scalette? La risposta del pubblico – almeno per quanto visto a Bologna – era stata davvero travolgente, segno che Quanto funziona davvero!)

“Guarda, la presentazione di Quanto nella quattro date di dicembre è stato qualcosa di assurdo. L’idea precisa che avevamo, concordata assieme a Garrincha e ToLoseLaTrak, era quella di portare dal vivo, per la prima volta, il disco nuovo, senza la possibilità di ascoltarlo prima in streaming o altro. Suonarlo dal vivo, e comprarlo esclusivamente dal vivo. (Il fatto che, alla fine dei concerti, un sacco di persone abbia poi deciso di comprarsi il cd o il vinile di Quanto appena ascoltato per la prima volta è stato chiaramente per noi una sensazione incredibile, un senso chiaro di missione compiuta).
Ridare centralità al momento del live, riportare il concerto nel cuore dell’ascolto – che è un po’ la nostra visione della musica. E restituire al concerto dal vivo anche quell’aspetto di scoperta che un po’ si è perso negli ultimi anni: scoprire qualcosa di nuovo, che poi ti possa piacere o ti faccia cagare è uguale: sarà comunque qualcosa che prima non conoscevi. E fare in modo che un disco nuovo diventasse, alla fin fine, un momento per ritrovarsi, un incontro di persone, dal vivo, portate lì per sentire un concerto.
Per quanto riguarda le scalette, al momento, in questa prima parte del tour che è seguita alle date di anteprima, abbiamo deciso di rinnovarci ad ogni weekend, senza portare mai le stesse identiche canzoni da un posto all’altro in cui ci ritroviamo a suonare. Ce ne sarà una più punk, una più classica, una più dilatata, una più revival e via così.” 

 

Dopo oltre quindici anni di onorata carriera continuate ad avere sempre lo stesso contagioso entusiasmo dell’inizio, i vostri live sono sempre una festa clamorosa e la cosa che più mi fa piacere è che accanto a noi, seguaci della prima ora ormai quarantenni, ci son sempre più giovani e giovanissimi che conoscono le canzoni parola per parola, dalle più vecchie alle più recenti. Non deve essere stato per niente facile per voi star lontano dai palchi per così tanto tempo. Cos’è significato ritornare in mezzo alla vostra gente senza impedimenti, come non fosse mai successo niente in questi due anni?

“Un grande, enorme . Quattro concerti che hanno spazzato via quella sensazione di sfaldamento e freddezza che, per un certo periodo, parevano inscalfibili. Ma che non hanno cancellato il senso di impotenza che ha scavato a fondo, su cui ancora ci si trova a inscurirsi e pensare. Cercheremo di suonare il più possibile, perché il tempo perso non esiste più, è irrecuperabile, ma riempire di musica il tempo a venire è ancora possibile. E via andare.”

 

Alberto Adustini

The Coral Sea “Golden Planet Sky” (Trees They Move, 2023)

Ed eccola qui, fresca fresca, la prima vera bombetta di questo 2023 in musica. 

Da qualche giorno è infatti ufficialmente fuori Golden Planet Sky, ultimo album del gruppo/progetto solista di Rey Villalobos, che a qualcuno – non a me sia chiaro – potrebbe essere capitato di ascoltare già in passato in quanto alcuni suoi brani, riporto paro paro dalla sua pagina Wikipedia, sono apparsi in alcune serie TV, vedi Californication, Grey’s Anatomy, altre.

La musica dei The Coral Sea, questo il moniker scelto dal nostro, al primo ascolto mi ha illuminato istantaneamente la casella relativa agli Antlers di Burst Apart, un rock vagamente sognante, sospeso, dove la voce in bilico tra un falsetto che tale non è e i momenti più spaziali di Wayne Coyne, poggia ora su tastiere kosmische (il brano d’apertura Golden Planet Sky, ma anche Hero per dirne un paio) ora su arpeggi di chitarra quasi folk (Peace Of Mind). C’è spazio per un paio di accelerate, sempre guidate dal particolare canto di Villalobos (qualche rimando ai Dream City Film Club qua e là lo noto solamente io?), Your Feathers Up e la conclusiva Broken Circle, ma tra le nove tracce che compongono questo splendido Golden Planet Sky ce n’è una che brilla più delle altre, Love Is No Sacrifice: poco meno di quattro minuti di poesia altissima che il musicista californiano dedica alla madre. “Decorate your emotions with the current landscapes” canta, dove da un fondo di tastiere e batteria si sviluppa un crescendo di rara bellezza che vede un ipnotico arpeggio di chitarra avvolgere la delicata voce, quasi tremante, in un invito che altro non è che un monologo, una preghiera forse al vento, “Meet me outside, meet me outside, ‘cause, I know that you’re already there”.

Ad oggi dubito possiate trovare in giro trentasei minuti, perchè tanto dura il disco, migliori di questi.

 

The Coral Sea
Golden Planet Sky
Trees They Move

 

Alberto Adustini

Gazebo Penguins “Quanto” (To Lose La Track / Garrincha Dischi, 2022)

Partendo dall’assunto, incontrovertibile, che Nebbia sia il miglior disco dei Gazebo Penguins, i quali a loro volta sono una delle migliori band nate in Italia negli ultimi diciamo vent’anni, quando appresi la notizia qualche mese fa che avremmo avuto un quinto lavoro in studio, pensai subito “Eh, non sarà facile mantenere le (mie) attese. Vi aspetto al varco, cari miei”.

Ebbene, al boh, decimo ascolto di Quanto (così s’intitola il nuovo disco) negli ultimi venti giorni devo dire che ce l’hanno fatta. Con margine. A mantenere le attese intendo.

Non che ci fossero grossi dubbi in effetti, lo hanno mai sbagliato un disco Capra, Sollo, Piter e Rici? La risposta è no. 

E sapete quale potrebbe essere il loro segreto? Che sanno scrivere, hanno idee, tante, i testi sono sempre più curati e danno l’impressione di divertirsi e amare enormemente ciò che fanno.

Nel tempo è poi cresciuta la componente della consapevolezza, della cura per l’arrangiamento (l’inserimento del sax è una chicca non da poco), l’affiatamento, quello che volete, ma ad ogni giro in studio i quattro ne escono con degli album che vivono di vita propria, con una propria identità e credibilità.

Sì perchè, se è vero che di Senza di Te ne nasce una nella vita, l’effetto live di una Nubifragio è clamoroso (ne sono stato testimone qualche giorno fa a Bologna), una detonazione che poco ha a che invidiare a Il Tram Delle 6 per dirne una, così come la potenza di una Cosa Fai Domani (che richiama lontanamente, come andamento, Pioggia), o l’immediatezza di Cpr14, il crescendo di Se Non Esiste Un Vuoto, ormai quasi un marchio di fabbrica della band di Correggio, cioè delle sette tracce che compongono questo Quanto faccio fatica a trovarne una più debole delle altre, uno di quei brani messi a mò di riempitivo per arrivare alla durata ideale.

Qui tutto conta e tutto è funzionale, e non a caso i testi di Gabriele CapraMalavasi sembrano seguire questo mood, questo andazzo, nell’evitare la sovrabbondanza, il molto, l’affettato, ma ricercano con grande abilità le parole misurate, giuste, per scavare sempre più a fondo negli affetti, nelle relazioni, nell’io.

Bravi.

E bravi.

 

Gazebo Penguins
Quanto
To Lose La track / Garrincha Dischi

 

Alberto Adustini

VEZ5_2022: Alberto Adustini

A dicembre scorso, mentre pubblicavamo per il secondo anno di fila le personali top 5 della redazione e degli amici di VEZ, ci eravamo augurati come buon proposito per l’anno nuovo di tornare il prima possibile e in modo più normale possibile ad ascoltare la musica nel suo habitat naturale: sotto palco.
Nel 2022 tutto sommato possiamo dire di esserci riusciti, tra palazzetti di nuovo pieni e festival estivi senza né sedie né distanziamenti. Però ormai ci siamo affezionati a questo format-resoconto per tirare le somme, quindi ecco anche quest’anno le VEZ5 per i dischi del 2022.

 

Black Country New Road Ants From Up There

Dall’esordio, altrettanto clamoroso, più orientato verso il post rock, la band inglese rimescola tutto e ci consegna uno dei dischi più emotivamente coinvolgenti e musicalmente interessanti dell’anno. La dipartita (speriamo temporanea) del cantante e chitarrista Isaac Wood rende Ants From Up There un lascito di valore ancora maggiore se possibile.

Traccia da non perdere: Snow Globes

 

Kae Tempest The Line Is A Curve

Un disco di spoken word che raggiunge livelli di intimità e poesia abbacinanti, nel quale attualità e introspezione convivono in maniera quasi magica. Un lavoro che mostra un’assoluta urgenza di raccontare e raccontarsi. 

Traccia da non perdere: Grace

 

Birds in Row Gris Klein

Terzetto francese, i cui componenti (B., J. e Q.) con questo Gris Klein ci regalano uno dei migliori dischi post hardcore da molti anni a questa parte. Violentissimo e super raccomandato.

Traccia da non perdere: Trompe l’Oeil

 

Vieri Cervelli Montel I

Una folgorazione autentica questo I, un disco che avanza per sottrazioni, per sussurri e bisbigli, tra racconti autobiografici e ricordi per un cantautorato poetico e minimale.

Traccia da non perdere: Primo

 

Cassels A Gut Feeling

Due fratelli inglesi, chitarra e batteria, la ferocia del post hardcore, le ritmiche sghembe del math rock, un disco pieno di idee, creatività e sana cagnara.

Traccia da non perdere: Mr. Henderson Coughs 

 

Honorable mentions 

Pinegrove 11:11 – Ritornati alla grandissima e Orange è la canzone più bella del 2022 e you can’t change my mind mi dispiace.

Mario Pigozzo Favero Mi commuovo, se vuoi – Si mette in proprio una delle figure fondamentali dell’indie italiano con una gemma cantautorale che cresce esponenzialmente con gli ascolti.

Micah P. Hinson I Lie To You – Il cantautore americano piazza il colpo di coda di questo 2022. Un disco intenso ed implacabile, bellissimo. Bentornato Micah.

 

Alberto Adustini

Eagle-Eye Cherry: Back on Track, finally back on a stage

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To celebrate 25 years of career, the Swedish songwriter Eagle-Eye Cherry returns with a new album, Back on Track, and a new World tour that will also stop in Italy next February. We had the chance to interview him to know a little bit more about the new songs, how he lived the forced stop given by the pandemic and on the legacy of having written Save Tonight.

 

Welcome on VEZ Magazine and thank you for your time.
Lets start talking about your album Back on Track: do you think its possible to find a link (it could be either a word or a feeling) among the tracks of the record?

“When I was working on the album I started revisiting the music I listened to when I was a teenager. Stuff like The Ramones, The Clash and Talking Heads and I think it found it’s way into the music. Not so much the sonically but the feeling I had when I was young and listening to their music… it got me inspired and energised.”

 

When did you start writing the new songs? Before or after the pandemic hit us all?

“I had started writing new songs prior to the pandemic. I wanted to capture the energy of our live shows in the recording so we went straight in into the studio right after finishing my Streets of You tour. We recorded eight songs planning to return and finish the rest album but then Covid came and put everything at full stop.”

 

After almost a career 25 years long, six albums and dozens of songs, has your creative process changed or your approach remained constant over time? And how do your new songs usually come to life? Over the guitar or in some other way?

“When I made my first album I wasn’t sure of who I was musically. So Desireless was the journey where I found out who I am. By the end of the album I knew exactly what I’m about musically. The difference between then and now is that today I don’t question during the writing of a song because I’m totally at home with my sound. Mainly drums, bass, guitar, keyboards and my voice.
Usually songs are written with an acoustic guitar. Either on my own or together with other songwriters.”

 

To compose, to kick-off a new album, in particular Back on Track is it something you feel you have to do, as to satisfy a creative need, or is it a more natural process, for which you don’t necessarily need to feel an urgency?

“There isn’t really a beginning middle or end. Songs are being written throughout so that the next album is up and running when the touring and promotion ends. Although after my third album I did take a long break from the business and thought maybe I wouldn’t continue as an artist. But eventually I missed touring too much and couldn’t stay away… I had to get Back on Track.”

 

Once the songs are recorded, do you like to be involved in the mixing and post production phases?

“Yes, I like to be involved and make sure the album sounds the way I want it. It’s got my name on it so I have to be 100% satisfied.”

 

Following up on this, how different is the current musician Eagle-Eye compared to the one from 1997?

“I’m a little older. I’ve been around the block a few times and don’t feel restless like I did in 1997. Now I know to focus on what is important. I love playing live gigs and that is my reward for all the hard work… writing, recording and promotion. I’m also a father now and that outshines everything else in life.”

 

During your upcoming World tour, who will be with you on stage? Who will take part to your band? What type of show will it be and what should the crowd expect?

“Yes, I’m very excited to get back on the road. It was very hard during the pandemic to not be able to go on tour. I love to travel and be on the move so to not be able to even leave your apartment had me climbing the walls.
So to finally get out in the world, to meet the fans and share the music will be fantastic. I’ll be bringing the band I’ve been working with a few years now. We are a tight unit after having played so many gigs together. We’ll be playing a lot of the songs from the new album. A lot of the new songs are written because I was missing these kind of tunes in our show. Big energy! And of course we’ll be playing several of my songs from earlier albums also.”

 

In the end, a question that might sound a bit weird but I’m going to dare… during your career you wrote a ton of beautiful songs, there are real gems in each and every one of your albums as undeniable proof of your value as a songwriter, so here’s the question: have you ever thought or wished you never wrote Save Tonight, a hit that remarks an age, that surely gave you visibility, success and so much more, but that also ends up to outshine everything else you have done? 

“It’s a good question. I often say that if having a massive hit like Save Tonight is a problem then that is a good problem to have. Save Tonight has taken me around the world and given me everything I dreamed since I was a kid. So, no I don’t wish I never wrote Save Tonight.”

 

Thank you once again for your time and see you in Milano!

 

Alberto Adustini
Editing and translation: Francesca Garattoni

Eagle-Eye Cherry: Back on Track, finalmente si torna sul palco

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Per i 25 anni di carriera torna il cantautore di origini svedesi Eagle-Eye Cherry, e lo fa alla grande con un nuovo disco, Back On Track, ed un nuovo tour mondiale che farà tappa anche in Italia a febbraio. Lo abbiamo intervistato per sapere qualcosa di più sulle nuove canzoni, su questa lunga pausa forzata e sul “peso” di aver scritto Save Tonight.

 

Benvenuto su VEZ Magazine e grazie per la tua disponibilità.
In riferimento al tuo nuovo atteso album, Back on Track, credi sia possibile trovare un trait d’union (sia esso una parola, uno stato d’animo) tra i vari brani del disco?

“Quando stavo lavorando sull’album ho iniziato a rivisitare la musica che ascoltavo quando ero un adolescente. Cose come The Ramones, The Clash e Talking Heads e credo che abbiano trovato la loro strada nella musica (che stavo componendo, NdR). Non tanto la parte sonica, ma la sensazione che avevo quando ero giovane e ascoltavo la loro musica… mi ha ispirato e dato energia.”

 

Quando hai iniziato a scrivere le nuove canzoni? Prima o dopo l’avvento dell’epidemia?

“Avevo iniziato a scrivere le canzoni prima della pandemia. Volevo catturare l’energia dei nostri concerti nella registrazione, così siamo andati diretti in studio subito dopo la fine del mio Streets of You tour. Abbiamo registrato otto canzoni pianificando di tornare e finire il resto dell’album, ma poi è arrivato il Covid e ha fermato tutto.”

 

Dopo quasi 25 anni di carriera, sei dischi e decine di canzoni è cambiato il tuo processo di composizione dei pezzi? O il tuo approccio si è mantenuto costante nel tempo? E normalmente i pezzi nuovi nascono alla chitarra o in altra maniera?

“Quando ho fatto il mio primo album non ero sicuro di chi fossi musicalmente. Quindi Desireless è stato il viaggio in cui ho trovato chi fossi. Arrivato alla fine dell’album sapevo esattamente dove fossi musicalmente. La differenza tra allora e adesso è che al giorno d’oggi non mi metto più in discussione durante la scrittura di una canzone, perchè sono completamente a mio agio con il mio sound. Principalmente batteria, basso, chitarra, tastiere e la mia voce.
Solitamente le canzoni sono scritte su una chitarra acustica. O da solo o insieme ad altri cantautori.”

 

Comporre, imbarcarsi nella stesura di un nuovo album, nella fattispecie in Back On Track è qualcosa che senti di dover fare, come una sorta di urgenza o è più un naturale processo per il quale non devi necessariamente avvertire un’urgenza?

“Non c’è esattamente un inizio, un mezzo o una fine. Le canzoni sono scritte nel mentre così che il prossimo album è già pronto quando il tour e la promozione (del precedente, NdR) finisce. Sebbene, dopo il mio terzo album ho preso una lunga pausa dal lavoro e pensato che magari non avrei continuato come artista. Ma poi mi sono reso conto che mi mancava troppo andare in tour e non potevo starne lontano… sono dovuto “tornare in pista” (gioco di parole intorno a Back on Track nell’intervista in lingua originale, come il titolo del suo album, NdR)”

 

Una volta che le canzoni sono incise ti piace essere coinvolto in quello che avviene in fase di mixing e post produzione?

“Si, mi piace essere coinvolto ed essere sicuro che l’album suoni nel modo che voglio. Ci sarà il mio nome sulla copertina e devo essere soddisfatto al 100%.”

 

In quest’ottica, quanto è differente l’Eagle-Eye musicista del 2022 rispetto a quello del 1997?

“Sono un po’ più vecchio. Sono stato in giro per un pezzo ormai e non mi sento più irrequieto come lo ero nel 1997. Adesso so come concentrarmi sulle cose importanti. Amo suonare dal vivo ed è la mia ricompensa per tutto il duro lavoro… scrivere, registrare e promuovere. Adesso sono anche un padre e questo eclissa tutto il resto nella vita.”

 

Nel tuo prossimo tour mondiale chi ti accompagnerà sul palco? Da chi sarà composta la tua band? E a che tipo di show assisteremo? Cosa dovrà aspettarsi il pubblico?

“Si, sono molto eccitato dal rimettermi in viaggio. È stato molto duro durante la pandemia non poter andare in tour. Amo viaggiare ed essere sempre in movimento e non poter neanche lasciare il mio appartamento mi ha fatto arrampicare sui muri.
Quindi, poter finalmente tornare fuori nel mondo, incontrare i fan e condividere la musica sarà fantastico. Porterò in giro la band con cui ho lavorato negli ultimi anni. Siamo un gruppo molto affiatato dopo aver suonato così tanti concerti insieme. Suoneremo un sacco di canzoni del nuovo album. Molte delle nuove canzoni sono state scritte perchè mi mancavano quei suoni nei nostri show. Tanta energia! E ovviamente suoneremo svariate canzoni anche dai miei album precedenti.”

 

Per finire, una domanda che potrebbe suonare un pò strana, ma correrò questo rischio… dunque lungo la tua carriera hai scritto un sacco di belle canzoni, ogni tuo album contiene diverse autentiche gemme, a testimonianza di quanto tu sia dotato come cantautore, quindi vengo al punto: ti è mai passato per la testa il pensiero “vorrei non aver mai composto Save Tonight”? Una canzone epocale, che ti ha sicuramente dato successo e molto molto altro, ma che inevitabilmente finisce per in qualche modo oscurare il resto…

“È una domanda interessante. Spesso dico che se avere una hit enorme come Save Tonight è un problema, allora è un buon problema da avere. Save Tonight mi ha portato in giro per il mondo e mi ha dato tutto quello che ho ho sempre desiderato da quando ero un ragazzino. Quindi no, non desidero non aver mai scritto Save Tonight.”

 

Grazie ancora e ci vediamo sotto il palco a Milano!

 

Alberto Adustini
Editing e Traduzione: Francesca Garattoni

Sigur Rós @ Gran Teatro Geox

Padova, 3 Ottobre 2022

 

Sapete qual è uno dei principali benefici che si hanno andando a vedere un concerto?
La sublimazione. Esatto. Non nell’accezione scientifica, anche se non ci giurerei che a qualcuno non sia mai capitato. Quanto piuttosto in quella spirituale, metafisica. 

Sei incolonnato, dietro a qualche migliaio di auto, in una romanticissima tangenziale, in un romanticissimo lunedì sera, impieghi quaranta minuti per fare l’ultimo chilometro che ti separa dalla destinazione, il ginocchio sinistro implorante pietà per le infinite volte in cui si è adoperato per premere la frizione, ma una volta varcate le soglie della “venue”, è il buio ciò che cattura da subito l’attenzione, le pareti nere del teatro, un fumo densissimo e immobile, decine di tiranti sullo sfondo a comporre un fantasioso piano cartesiano, poche luci che faticosamente si fanno strada a disegnare contorni e le sagome, appena percettibili, di quattro islandesi che stanno procedendo a far lievitare qualche migliaio di persone grazie alla loro musica.

Così si sono presentati al Gran Teatro Geox i Sigur Rós, nella prima, iper sold out, data italiana del loro World Tour, a cinque anni dalla loro ultima visita dalle nostre parti.

Ritornati in formazione “quasi tipo”, dopo il rientro di Kjartan Sveinsson e stante la forzata assenza Orri Páll Dýrason, sostituito ormai in pianta stabile da diversi anni ormai da Ólafur Björn “Óbó” Ólafsson (ma la meraviglia dell’accentazione nella lingua islandese? Ne vogliamo parlare?), i nostri hanno messo in piedi uno show, perchè effettivamente concerto potrebbe risultare leggermente riduttivo, articolato in maniera anomala in due piuttosto lunghe parti, intervallate da un intervallo, che fortunatamente non ha inficiato il clima di autentica poesia sonora alla quale io e qualche altra migliaia di persone abbiamo avuto la fortuna di esperire.

Una scaletta che ha attinto da quasi tutti i dischi, con una decisa predilezione per il quasi ventenne (), al quale viene affidata l’apertura con Untitled 1 (“Vaka”) e la consueta, dirompente conclusione con Untitled 8 (“Popplagið”) (stavolta senza velatura a celare la scena).

Due ore e mezza di rara delicatezza, l’accoppiata Untitled 3 (“Samskeyti”) seguita da Svefn-g-englar di una potenza evocativa difficile da spiegare, gli strobi abbaglianti che accompagnano gli squarci di batteria di Ný batterí, accolta da un boato assordante appena annunciata dalla linea di basso, boato forse ancora maggiore quando parte Sæglópur.

Un capitolo a parte lo meriterebbe tuttavia Jónsi, vero fulcro attorno al quale gravita quella meraviglia chiamata Sigur Rós; una presenza continua, ora con la sua chitarra, molto spesso con una voce ed una vocalità che ha spinto ad altezze abbacinanti. La lunga magnifica coda di Svefn-g-englar, quel ripetuto all’infinito “tjù, tjù”, o l’esecuzione di Festival, solo per citare un paio tra i molti momenti, restituiscono, almeno a me personalmente, un artista che ha davvero raggiunto la piena maturità e consapevolezza del proprio sterminato bagaglio artistico.

E mentre sul fondale compare in grande la scritta Takk e i quattro raggiungono il proscenio a ricevere il giusto, interminabile applauso di ringraziamento, lentamente si alzano le luci in sala e contestualmente noi tutti completiamo la nostra brinazione (non è colpa mia se il contrario del fenomeno della sublimazione si chiama così), col cuore colmo di gioia e gratitudine per essere stati per qualche ora in uno stato differente dal solito, fuori dal nostro solito corpo. 

Probabilmente era estasi.

 

Alberto Adustini

foto di copertina (Milano, per gentile concessione di Noisyroad) Maria Laura Arturi

Karate @ Link

Il secondo postulato di Adu il Vecchio, formulato verso il finire del ventesimo secolo, recita: “Tanto maggiore è il numero di magliette dell’artista o band che si sta per esibire (presenti tra il pubblico, NdA), tanto minore sarà la qualità dell’esibizione proposta”. Vi è poi un corollario che fa riferimento anche alle bandane e alle sciarpe ma ne parliamo un’altra volta. Trattandosi di un postulato è vero di per sé, senza bisogno di dimostrazioni o altro.

Ad ogni modo la prima data italiana, dopo qualcosa come diciassette anni dall’ultima volta, di domenica 31 luglio al Link di Bologna dei bostoniani Karate è lì a rimarcare ancora una volta l’assoluta veridicità di quanto sopra esposto.

Nessuna, dico nessuna maglietta dei Karate presente in loco (o almeno vista dal sottoscritto), in compenso, e anche dall’elenco (parziale) che segue s’intuisce la qualità enorme della serata: Girls Against Boys, Sebadoh, Fka Twigs, Nirvana (con la copertina dei Joy Division però…), Shelter, due Daniel Johnston, Jon Spencer Blues Explosion, Dinosaur jr, Pontiac, Eversor, Lush, Gazebo Penguins, Yob, The Soft Moon, Mad Season, Descendents, Idles, The Van Pelt, Wolfbrigade, Deus Ex Machina, Bauhaus e Einstürzende Neubauten.

Qui l’unico tasto un po’ dolente della serata, perchè ero partito da casa con la maglietta dei Marnero, ma me l’ero cambiata che dopo 150 km di macchina insomma non ero molto presentabile, e poi entro e chi vedo subito? Raudo e soci… Avrei potuto bullarmi un po’ ma vabbè…

Ma andiamo con ordine.

Già poco dopo le 20 l’area estiva antistante (o retrostante a seconda) del Link è già moderatamente affollata, segno tangibile di una serata per nulla ordinaria. In scaletta, prima del momento clou, due “vecchie” glorie del punk e hardcore italiano, i pesaresi Eversor (con il fondatore Marco Morosini tra il pubblico) e i torinesi Frammenti. Scelta quantomai azzeccata, visto anche la grande risposta e calore sprigionato dal pubblico sotto il palco. Si canta, si salta, un paio di tentativi piuttosto ben riusciti di stage diving, insomma tutto lascia intendere che se queste sono le premesse…

E poi… e poi, cosa vuoi dire.

Che i tre Karate salgono sul palco, e quei diciassette anni dall’ultima volta vengono dissipati dai primi attimi di Bass Sound, la linea di basso accolta da un boato del pubblico, Farina che ce lo ricorda, che saranno passati lustri su lustri, ma “one stays the same”, ed è subito 1998, sei un adolescente affamato ed insaziabile di scoprire e ascoltare e scoprire e ascoltare di nuovo e il tuo mondo è anche (soprattutto) lì, tra quelle note, quegli accordi. 

Il colpo di grazia per me arriva molto presto, ai primi accordi di Gasoline, ad urlare assieme “Stay” e “Sugar, Gasoline, When you’re nineteen, Sugar, if I keep it near, will it keep you here, will it keep you here”, e da lì in avanti è un lento, dolcissimo abbandonarsi ai racconti, ai ricordi, ai momenti. 

Troppo zucchero? Può essere, però è difficile spiegare (è difficile capire se non hai capito già). 

La sensazione che provavo, man mano si snocciolava la scaletta, era che in mezzo a quel pubblico così vario, ognuno, io compreso, venisse preso per mano da Geoff e soci, tanto il ventenne che li ha appena scoperti cazzeggiando su qualche sito (sì lo so che Scaruffi dà al massimo un 6.5) quanto il quarantenne per il quale sono il gruppo giusto al momento giusto che diventa di fatto culto, tanto i cinquantenni e oltre, capaci di cogliere il bello anche al di fuori degli anni ottanta.

La coda strumentale di This Day Next Year è suggello e apice di una serata di emozioni intense e reali, tangibili, genuine.

Mentre mi lascio il Link alle spalle, sulle note di —, penso a quanto ho letto una volta: “il mondo non aumenta di peso quando nasci né diminuisce quando muori, ma ciascuno di noi può lasciare un segno”. 

Di sicuro stasera qualche migliaio di persone tornerà a casa col cuore segnato in maniera indelebile.

 

Alberto Adustini