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Tag: algiers

Algiers “Shook” (Matador Records, 2023)

Non mi pare di averlo visto scritto da nessuna parte, ma non ci sarebbe stato male un alert stile “handle with care”, maneggiare con cura, sulla copertina di questo Shook degli Algiers.

L’ultimo lavoro in studio della band di Atlanta, uscito ancora per la fedele Matador Records, è probabilmente il loro lavoro più impegnativo, complesso e potente.

Non so dire se sia il loro migliore, anche perchè qui entriamo in una sfera strettamente personale, ed io lo ricordo ancora in maniera nitida qualche anno fa lo stupore che provai la prima volta che ascoltai The Underside of Power. 

Stavolta è stato diverso. Già con l’iniziale Everybody Shatter mi sono visto costretto ad abbandonare tutto ciò che stavo facendo e focalizzare l’attenzione nell’ascolto, nella potenza di un verso come “So we imprison ourselves and don’t see we hold the key”. 

Shook è un disco esigente, come d’altronde sono gli Algiers, nella sostanza, dall’alto delle sue 17 tracce e oltre 50 minuti di durata, o dei suoi innumerevoli ospiti, che campeggiano in bella vista sulla copertina del disco. 

Esigente soprattutto però nella forma, nei frenetici ritmi di A Good Man “So many shadows / that I can’t sleep at night”, o nei versi sempre taglienti di Zach de la Rocha nella travolgente Irreversible Damage “And my peace torn in an alley abandoned an’ murdered then reborn in a beat form breathless”, come nel lamento di Out Of Style Tragedy sulle sparatorie che ormai nemmeno fanno più notizia.

I momenti più riflessivi ed intimi sono affidati a dei simil spoken words, come in Born, con la voce di LaToya Kent, anima dei magnifici Mourning [A] BLKstar, o in As It Resounds (“We can no longer sit in acceptance of our own spiritual recession” è un monito drammaticamente vero e universale che difficilmente qualcuno di noi riuscirebbe ad ignorare serenamente) con le tonalità baritonali di Big Rube.

Non mancano ovviamente nemmeno i passaggi debitori al tanto amato gospel, che ben si sposa con la voce multiforme di Franklin James Fisher, Green Iris ed il suo incedere dispari o la conclusiva Momentary, un barlume di speranza, una luce in un presente fatto di violenza ed ingiustizia, di egoismo e di sempre più diffusa ignavia:

“When we die

Our beloved 

Our kinfolk 

Fear not

We rise”

 

Algiers
Shook
Matador Records

 

Alberto Adustini

Algiers @ Capitol

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• Algiers •

 

Capitol (Pordenono) // 18 Febbraio 2023

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Son da poco passate le 22, sistemati gli ultimi dettagli sul palco del Capitol (anomala sala da concerti, in primis perchè in centro, all’interno di un palazzo residenziale, et in secundis per la presenza sulla gradinata verso l’ingresso di un cospicuo numero di divani comodi e coccoli ai limiti dell’illegale che uno si deve far violenza poi per staccarsi e raggiungere il palco), una flebile luce rossa ad accogliere gli Algiers, oggi in formazione a cinque, con una – per il sottoscritto – sorprendente doppia batteria ad accompagnare il trio storico Lee Tesche (chitarra, cori e synth), Ryan Mahan (basso, synth e coreografie clamorose), ovviamente Franklin James Fisher (voce, piano e chitarra). 

Le mie aspettative per la serata sono tendenti all’altissimo (inteso indifferentemente come molto alto o con la A maiuscola, insomma ci siam capiti) e mi sposta di nulla il fatto che gli Algiers siano qui a presentare il loro quarto disco in uscita a giorni e del quale sono state messi in circolo una manciata di singoli, motivo per il quale la scaletta sarà prevalentemente inedita (set list che peraltro pare stiano cambiando ogni sera per cui il problema proprio non si pone).

È su un’intro rumorosa ai limiti del cacofonico, creata con una vecchia radio, che deflagra con una potenza abbacinante Irreversible Damage, che sul disco vede la presenza del signor Zach de la Rocha. L’aggettivo non è usato a caso perchè l’impressione è proprio quella di un fascio luminoso che squarcia il tetto e punta dritto verso le stelle, un cazzotto in pieno volto se preferite altro tipo di metafora, insomma una rabbia furiosa scaricata verso la platea.

I volumi sono decisamente sostenuti e coprono ogni rumore esterno, permettendoci di creare un privato e intimo collegamento con quanto avviene sul palco; la musica degli Algiers tende infatti ad esulare e evitare qualunque tipo di catalogazione o definizione, arrivando pertanto al pubblico più eterogeneo e diversificato: non è musica strettamente da ballare, date le ritmiche spesso sincopate (73% per citarne solo una), non ci si può pogare sopra, parimenti è difficile restare seduti (provateci voi durante Cry of The Martyrs), non è punk, o forse lo è, ma è anche gospel (Black Eunuch), è elettronica, echi industriali, ci sono passaggi quasi queercore stile God Is My Co-Pilot, un momento sembrano i TV on the Radio dei tempi belli e un attimo dopo i Nine Inch Nails di March of the Pigs. Questa incredibile capacità di mutare senza mai snaturarsi davvero e ciò che li rende a mio avviso uno delle cose più belle accadute alla musica negli ultimi dieci anni. E sono pienamente consapevole di quanto dico e pronto a sostenerlo di fronte a chicchessia!

Musicalmente parliamo di un gruppo con pochi, pochissimi eguali o emuli, e a questa singolarità ci accompagnano testi intrisi di militanza ed impegno politico: il risultato non può che essere un micidiale mix spigoloso e quanto più abrasivo potete immaginare, una band che letteralmente “non fa prigionieri”.

Nella speranza, speriamo non vana, che il quartetto di Atlanta (ma con base a Londra) torni a farci visita a breve, contiamo i giorni che ci separano dall’uscita del nuovo disco, Shook, e nel frattempo ci beiamo della bellezza di cui siamo stati testimoni.

 

Alberto Adustini

Foto di Massimiliano Mattiello
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