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Tag: alma marlia

Atum: A Rock Opera in Three Acts

Act Three: l’atto di fede.

Premetto che questa recensione sarà atipica rispetto a una di quelle con una struttura canonica, perché non c’è più molta necessità di presentare il gruppo né il progetto (leggi qui le recensioni di Act One e Act Two, NdR). Gli Smashing Pumpkins hanno pubblicato l’atto finale di un’opera quantomai attesa e discussa. Come il secondo atto ha avuto il sapore dolce amaro di L’amore ai tempi del colera, l’ultima parte di Atum: A Rock Opera in Three Acts non può fare altro che richiamare alla mia un’altra opera di Gabriel Garcia Marquez: Cronaca di una morte annunciata. L’associazione non riguarda i contenuti, quanto l’impressione che il terzo atto ricorda più il sospiro agonizzante di Santiago Nazar che non il seguito dei rimpianti Mellon Collie e Machina.

Ascoltare la conclusione di un progetto così ampio e coccolato dal suo creatore dovrebbe essere un momento di magica estasi per l’ascoltatore. Eppure, questo momento tanto aspettato, cercato, voluto non arriva mai. A partire dall’apertura con Sojourner fino a Of Wings si passa da brani come Pacer, Harmageddon e Cenotaph dove il titolo rimane più impresso della musica stessa. Si possono incontrare delle chitarre distorte in qua e là, dei violini, synth, strumenti che trasmettono solo l’idea di un lungo lamento. La sensazione è che la musica non esploda mai, che l’emozione non decolli, anzi che venga proprio schiacciata da qualcosa che non riesce a librarsi nelle note. L’atto è impregnato di un desiderio incompiuto, senza la vibrante sensazione che il desiderio stesso dà. Le canzoni sono sempre lì, sulla linea di partenza, e se questo poteva essere accettabile, anche se non scusabile, nel primo atto, nel terzo no, non lo è, mentre la voce di Corgan non basta più a lenire il dolore per un amore che si è rotto, anzi diventa a tratti fastidiosa perché butta solo sale su una ferita ormai aperta. Se poi queste undici tracce si ascoltano nell’insieme del progetto completo, la delusione aumenta, e l’affetto per chi ti ha regalato un’adolescenza piena di momenti che ancora senti sulla pelle è inutile. Possiamo dire che ci sono degli spunti qui, o in questa canzone là, oppure in quel passaggio dove la chitarra elettrica emerge, e così via. Io aggiungerei che ci mancherebbe altro che qualcosa non sappiano fare, perché queste osservazioni vanno bene per chi non ha esperienza e fa i primi passi, non per chi ha un posto importante nel panorama musicale. Ascoltando tutto il progetto ti chiedi, però, se forse le tue aspettative non sono troppo alte, se non riesci più a capirli e quella frequenza che loro avevano trovato con altri progetti ora non esiste più dentro di te. Tuttavia, quando ascoltare è più un atto di fede che non un piacere, allora qualcosa non va. Realizzi che l’affetto nato dalla nostalgia di un tempo che fu non basta, che il tempo è passato e non solo per te, che il tiro va aggiustato. 

Atum: A Rock Opera in Three Acts – Act III va ascoltato per realizzare che niente è per sempre, perché la vena creativa può esaurirsi come l’oro del Klondike, le storie di Happy Days, le gomme da masticare preferite al bar sotto casa. Tuttavia, esaurire questa vena non vuol dire essere destinati a sparire, bensì fare la scelta di Klimt, che quando capì di non poter più dare molto al mondo dell’arte decise di usare la sua fama e il suo intuito per scoprire e promuovere nuove correnti, nuovi artisti. Si può essere sempre presenti e importanti nel mondo che sentiamo nostro, solo che è possibile farlo in altro modo e gli applausi, poi, verranno da soli per ciò che si fa nel presente e non solo per uno sbiadito omaggio a ciò che è stato vivo nel passato. 

Smashing Pumpkins
Atum: A Rock Opera in Three Acts
Martha’s Music/Napalm Records

Alma Marlia

Kerala Dust “Violet Drive” (PIAS, 2023)

La bellezza del suono

Edmund Kenny alla voce e strumenti elettronici, Harvey Grant alle tastiere e Lawrence Howart alle chitarre. Questa la fromazione dei Kerala Dust, band alternative rock britannica nata nel 2016 a Londra, ma che oggi si muove tra Berlino e Zurigo. Dopo tre anni di tour in Europa e sei pubblicazioni, è solo nel 2020 che esce Light, West il loro primo album in studio. Su Play It Again Sam, il gruppo pubblica Violet Drive, il loro secondo progetto di ampio respiro già anticipato dai singoli Red Light, Pulse VI e dalla title track. L’album si compone di dodici tracce dove i Kerala Dust confermano le influenze che il rock psichedelico, il blues e la musica techno hanno avuto sulla loro formazione. 

Per ascoltare Violet Drive è imperativo lasciarsi andare al suono, e seguirlo ovunque esso ci porti. Catturano subito i battiti incalzanti di una loop station ipnotizzante, mentre le tastiere creano trame dove la chitarra elettrica cerca e trova il suo spazio in modo graffiante, ma non per questo aggressivo. Da Moonbeam, Midnight, Howl si scivola così in un mondo di melodie suonate come un fiume in piena, dove i testi, estremamente essenziali, sono appigli a cui ci si aggrappa non per salvarsi, bensì per continuare a sentire il piacere di questa fluidità su di noi. La voce di Kenny è come un faro, ma non un approdo dove fermarci, solo la tappa di un percorso da continuare. Mentre viaggi con la band, ti chiedi dove stai andando, ma forse quella domanda è solo un riflesso incondizionato di una mente troppo abituata a esaminare la realtà che la circonda. Basta poco perché ogni titubanza venga meno. Senti dei colpi, sintetici, ma molto vicini al cuore. Pensi davvero che sia il tuo battito, anche se è diverso da come è sempre stato. Solo con un piccolo sforzo, ti rendi conto che sei circondato dalle suggestioni new wave di Pulse VI che rendono l’atmosfera robotica. Ignorate le inutili domande, la mente libera se stessa per creare immagini vive attraverso il gioco di synth, tastiere e suoni onomatopeici della strumentale Nuove Variazioni di una Stanza. Le emozioni che trasmette la musica dei Kerala Dust si amplificano di brano in brano. Nell’ascoltatore nasce un senso di bellezza sonora mentre viene raggiunto dalla dominante corda dell’onirica Salt e dalla elegante Fine della Scena; le parole si spogliano del loro senso letterale per essere solo suono avvolgente fino a che la chitarra si distorce, la batteria esplode e il progetto raggiunge quella potente delicatezza che solo il rock sa dare.

Violet Drive è il frutto di una forte sensibilità sonora ed emotiva. Non lascia niente al caso, eppure l’ascoltatore è libero di interpretare ciò che sente, senza alcuna costrizione. Nella loro musica si sente quella voglia di trasmettere le sensazioni senza imporle. I brani possono essere ascoltati nella sequenza stabilita nell’album, oppure in modo casuale, ed ogni nuova combinazione crea atmosfere sempre diverse, ma comunque accattivanti. Piegarli alla dittatura di una recensione è un peccato originale. Tuttavia è un peccato da commettere, perché quando li ascolti, descriverli e l’unico modo che hai per condividere l’esperienza che ti hanno regalato. Rimane però ancora un desiderio: la voglia di ascoltarli dal vivo, ma in Italia il loro tour non farà tappa. Peccato.

 

Kerala Dust
Violet Drive
PIAS

 

Alma Marlia

Yo La Tengo “This Stupid World” (Matador Records, 2023)

Una sfida contro il tempo

Basta dire Yo La Tengo per parlare del trio Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew di Hoboken, New Jersey, protagonista della storia dell’alternative rock statunitense. Alla loro produzione costante nei decenni, si aggiunge ora This Stupid World, per Matador Records, un progetto di nove canzoni dove ancora una volta mettono in gioco loro stessi.

La chitarra elettrica distorta di Sinatra Drive Breakdown accoglie la voce di Kaplan che canta l’essere umano nella sua autoreferenzialità, mentre osserva un mondo desolato intorno a sé. Kaplan parla con nostalgia a chi vorrebbe vicino, ma l’inglese you ci lascia nel dubbio che si possa rivolgere a un singolo tu oppure a un molteplice voi. Solo nella chiusura “until we all break down” percepiamo un senso di ineluttabile collasso corale, avvolto dalla continua distorsione sonora che ci ha accompagna per tutto il brano.
Più industrial è l’atmosfera di Tonight’s Episode: i loop melodici profondi del basso di McNew sostengono un ritmo e una voce incalzanti. L’ascoltatore non può fare altro che seguire questo movimento melodico arrivando ad un momento surreale di rivelazione dell’anima che caratterizza l’album.
L’apice di questa intimità è raggiunto, però, nella ballata Aselestine: gli accordi della chitarra si allontanano dai suoni ansiosi dei brani precedenti per respirare insieme al suadente timbro vocale della Hubley. Le parole compongono immagini da cui nascono pensieri ed emozioni; le sensazioni trascendono un tempo ormai non più schiavo di ticchettii di orologi, perché ormai tutto sembra sospeso sul confine della morte.
Brain Crapers ha, invece, melodie più cupe, ben scandite da altri loop di basso e dai punch della batteria. Con le loro voci, Hubley e Kaplan creano un turbine di ricordi simili a crepe di luce nate dalle semioscurità notturne.
Il tempo è ancora astratto, un luogo da lasciare e a cui tornare seguendo solo le tracce dei pensieri. Come ascoltatori, rimaniamo intrappolati in questo gioco, ma non scappiamo, perché preferiamo rimanere dentro queste stanze di un io spesso trascurato.
Persi nelle sensazioni, siamo catapultati nella lunga This Stupid World, dove la band si lascia andare a suoni distorti e suggestioni psichedeliche. Il cantato è un confessione di dolore e amore per un mondo letale, ma che, paradossalmente, è l’unico che sappiamo amare. Un amore tossico da cui ci possiamo salvarci solo sfidando noi stessi ad uscirne, combattendo tutto ciò che non va. 

Con This Stupid World gli Yo La Tengo confermano la loro longevità artistica nello spazio dell’alternative rock americano e la loro voglia di sperimentare creando un progetto di contenuti musicali e lirici ben curati. L’intensa atmosfera intima e riflessiva dell’album li rende adatti a chi vuole ascoltare la musica veramente. Il gruppo affascina ancora perché si muove tra melodie e parole con la consapevolezza compositiva data dall’esperienza e la freschezza nata dalla passione per ciò che fanno. Hanno la capacità di arrivare al pubblico con il loro messaggio che non stravolge l’anima, ma vi si ancora dentro per rimanerci. 

 

Yo La Tengo
This Stupid World
Matador Records

 

Alma Marlia

The Smashing Pumpkins “Atum: A Rock Opera in Three Acts” (Martha’s Music/Napalm Records, 2022)

Act Two: l’aspettativa dolce-amara dell’anima rock.

Solitamente una recensione si compone di tre parti: un preambolo per introdurre l’artista e il progetto, un corpo centrale per focalizzarsi su alcuni dettagli del progetto stesso e una chiusura dove si tirano le fila del tutto condite da qualche considerazione. L’occasione dell’uscita del secondo atto di Atum – A Rock Opera in Three Acts può farci saltare un’altra presentazione di un gruppo come gli Smashing Pumpkins, che si presentano da soli, e ci proibisce di volgere nuovamente lo sguardo ai nostalgici ricordi della gioventù in cui Mellon Collie and the Infinite Sadness faceva da colonna sonora a inquietudini adolescenziali. Un secondo atto è un passaggio tra un primo e un terzo, che può convincerci a restare all’ascolto, oppure ad abbandonare senza mezzi termini, ma sempre un passaggio è. Così sarà questa recensione. 

La band aveva definito Atum come il seguito di quel Mellon Collie ancora tatuato nella pelle di tante generazioni. E quando dici così a chi ha ancora voglia di provare certi brividi sonori, l’aspettativa che crei è talmente alta che corri il rischio di passare dai fremiti di piacere al freddo più intenso in un solo accordo. Così è ascoltare questa seconda parte. Non possiamo dire che non sappiano suonare, né che la voce di Corgan non ci provochi quella stretta allo stomaco che ancora c’era tempo fa. Potremmo dilungarci sulle atmosfere elettro wave di Neophyte oppure quelle industrial di Moss. Anche l’evoluzione dal pop alla dance di Every Morning potrebbe attirare la nostra attenzione, così come potremmo confrontarci con la chiusura acustica di Springtimes. Tuttavia, quello che pervade dall’inizio alla fine è quella sensazione dolceamara che prova l’anima in attesa da tempo di ciò che aveva desiderato, così attaccata al ricordo del tempo che fu da rimanere sorpresa quando si accorge che invece il tempo è passato, così come rimane stupito Florentino, protagonista di L’amore ai tempi del colera di G. G. Marquez quando dopo anni vede finalmente il seno di Fermina non più giovane, ma solo per quello che è: il seno di una donna invecchiata dal tempo. Si rimane incastrati nello stupore, comunque circondato dall’amore che porti nel cuore per chi le emozioni te le ha fatte provare davvero, eppure qualcosa ormai sembra non esserci più.  

Se nell’attesa siamo vissuti, nell’attesa ci troviamo, perché l’opera non è ancora conclusa. Le aspettative sembrano diametralmente opposte rispetto all’uscita del primo atto, i “se” si affollano nella mente, un po’ come quando si gira in moto e sei nel dubbio nell’affrontare o no una curva in un certo modo: quel dubbio contiene già la risposta. Rimane però il fatto che un’opera non può essere ascoltata solo in parte, perché è solo nella sua globalità che ha senso e parcellizzarla sarebbe tradire la musica stessa. Quindi non ci rimane che aspettare senza aspettarsi niente, e semplicemente continuare ad ascoltare. 

 

Smashing Pumpkins
Atum: A Rock Opera in Three Acts
Martha’s Music/Napalm Records

 

Alma Marlia

Joe Henry “All The Eye Can See” (earMUSIC, 2023)

La voce che apre le crepe dell’anima

Cantautore. Joe Henry è un Cantautore, di quelli che ancora ti fanno provare emozioni profonde che resistono al tempo che scorre e alla modernità che aggredisce tutto, anche la musica. Trent’anni di carriera come cantautore e produttore discografico dalle molte collaborazioni tra cui possiamo contare nomi come Solomon Burke, Shivaree, Elvis Costello e molti altri. Ci si può perdere nell’elencare i suoi progetti tra album ed EP, tra cui ricordiamo il tagliente Civilians del 2007 e The Gospel According To Water del 2019, scritto dopo una diagnosi di cancro. Dominato dalla sua vena creativa, l’artista esce ora con All The Eye Can See, un album composto da dodici tracce che lo confermano ancora tra i più interessanti cantautori statunitensi della nostra epoca. 

Ascoltare l’album è un piccolo viaggio tra narrazioni sonore, dove il timbro dell’artista non sempre è perfetto, ma sono proprio queste imperfezioni che si ficcano come chiodi nella nostra anima creando crepe da cui possiamo dare uno sguardo a ciò che siamo, che potremmo essere o che non vogliamo essere più. Così colpiscono brani come il gioco di sola chitarra e voce di God Laughs, un canto che è richiesta di essere ascoltato da un Dio troppo spesso spettatore del destino dell’uomo. I brani si sviluppano musicalmente accogliendo oltre venti musicisti tra cui il figlio Levon Henry al sassofono e al clarinetto, David Pitch al basso, Patrick Warren al piano e John Smith alla chitarra acustica. Sono narrazioni di semplici quotidianità che svelano all’ascoltatore momenti speciali in cui entriamo quasi in punta di accordo come la nostalgica Kitchen Door o la melodia drammaticamente innamorata di Karen Dalton. Piccoli squarci nella tenda del quotidiani, fratture necessarie attraverso le quali la musica ci penetra per raggiungere l’amigdala delle sensazioni e dalle quali noi facciamo uscire le nostre reazioni emotive alle narrazioni che Henry fa accompagnandosi con la sua musica. E poi vieni colpito in pieno petto dalla title track che riassume tutto quello che l’artista ci vuole comunicare come con la semplicità di chi vuole solo descrivere senza giudicare la vita che ci scorre addosso “Trouble begins at waking / the weight of the world near-breaking / its wave on the heart’s undertaking / of all the eye can see”. Un momento di confidenza intenso, atteso per quasi tutto l’album. 

Joe Henry non crea musica di sottofondo per serate languide, né divertenti canzonette simili a jingle per festeggiare eventi, ma neppure un gioco di note fine a se stesso, perché le trame che crea sono un tessuto dove ricama storie sfumate dai colori scuri, ma sempre colori restano. Colori sonori che l’ascoltatore può usare come preferisce, portandoli con sé e attraverso le ombre farne uscire toni brillanti oppure vivendoli oscuri come sono. Un progetto questo che non si merita un ascolto casuale, bensì un’attenzione piena e consapevole delle melodie semplici e fluide ma ben studiate, in armonioso contrasto con i testi densi e spigolosi, ma, proprio per questo, assolutamente necessari. 

 

Joe Henry
All The Eye Can See
earMUSIC

 

Alma Marlia

Ladytron “Time’s Arrow” (Cooking Vinyl, 2023)

Ladytron. Una parola che se scandita a punta di lingua sa di anni ’70 del secolo scorso, e più precisamente del 1972, di canzone di un album di debutto e soprattutto dei Roxy Music. Un tuffo nel passato che diventò presente nel 1999, quando quattro ragazzi britannici originari di Liverpool, in Inghilterra, decisero di far sentire la loro passione nel panorama musicale. E anche se non si chiamavano Paul, John, Ringo e George, ma Helen, Mira, Daniel e Reuben, decisero che il mondo li avrebbe ascoltati al di là di ogni confine fatto di tè delle cinque, gossip reali e mirabolanti scogliere. Così fu, e i Ladytron attirarono l’attenzione del pubblico su di loro con la loro musica fatta di chitarre, percussioni e strumenti elettronici, combinando sonorità new wave con lo shoegaze, sottogenere dell’alternative rock, e l’elettropop. 

Dopo l’eponimo album Ladytron del 2019, il gruppo esce ora con Time’s Arrow, il settimo album in studio, in Italia per Cooking Vinyl. Un lavoro di dieci tracce di melodie ben curate e testi che non vogliono semplicemente seguire la musica oppure dominarla, bensì semplicemente farne parte come un compagno di viaggio. Le atmosfere si caricano di distorsioni leggermente noisy per un effetto onirico ma anche futurista come nell’introduttiva City of Angels e la leggera ed evocativa We Never Went Away. Contrariamente alle fantasie più malinconiche dell’album precedente, il nuovo progetto sembra prendere più respiro e le melodie, per quanto tutte caratterizzate dallo smodato uso di suoni synth-pop, non si omologano con il rischio di diventare un gioco di ripetizioni, bensì emergono ognuna con una propria identità, come la rarefatta ma pulsante Fight From Angkor, dove le chitarre distorte diventano sensazione per l’ascoltatore che ne rimane intrappolato. Ipnotica è, invece, Faces, dove la ripetizione a loop della parola che dà il nome al brano crea un’atmosfera di ossessione ma anche di liberazione dall’ossessione stessa, come una liberazione emotiva da un contesto in cui ci si sente soffocare da volti da guardare per tenerli con sé e al tempo stesso lasciarli indietro per continuare ad andare avanti. La chiusura dell’album è lasciata alla title track Time’s Arrow, dalle sfumature più oscure, con bassi presenti e vocalità che rimangono oniriche ma scendono nel timbro per poi risalire e trascinare l’ascoltatore dietro la scia di una freccia melodica che, quando scoccata, non si può più fermare, che sia esso il tempo o semplicemente i Ladytron. 

Il disco non sorprende, perché conferma la cura del gruppo nella propria produzione musicale e la volontà di mantenere costante la propria identità, sfidando mode e rimanendo fedeli a ciò in cui credono. Potremmo definirlo di nicchia, ma sarebbe riduttivo per un progetto che si fa ascoltare e anche molto bene, non annoiando mai. Certamente non lo troverete tra le colonne sonore di spumeggianti festeggiamenti con fuochi di artificio, ma questo non vuol dire che non vi porterà altrettanto lontano, né che la loro musica non arrivi dentro per farvi muovere vivendo emozioni speciali, come le sue melodie, sintetiche sì, ma piene, seducenti e vibranti. 

 

Ladytron
Time’s Arrow
Cooking Vinyl

 

Alma Marlia

VEZ5_2022: Alma Marlia

A dicembre scorso, mentre pubblicavamo per il secondo anno di fila le personali top 5 della redazione e degli amici di VEZ, ci eravamo augurati come buon proposito per l’anno nuovo di tornare il prima possibile e in modo più normale possibile ad ascoltare la musica nel suo habitat naturale: sotto palco.
Nel 2022 tutto sommato possiamo dire di esserci riusciti, tra palazzetti di nuovo pieni e festival estivi senza né sedie né distanziamenti. Però ormai ci siamo affezionati a questo format-resoconto per tirare le somme, quindi ecco anche quest’anno le VEZ5 per i dischi del 2022.

 

Benjamin Clementine And I Have Been

Un pianoforte per negare le proprie radici, una voce per ricordare le proprie origini. Vivere una relazione di amore-odio con noi stessi, perché ciò che siamo diventati porterà sempre le tracce di ciò che siamo stati. Trasformare questa sensazione in arte, farne musica è un destino inevitabile.

Traccia da non perdere: Genesis

 

Auge In Purgatorio

Il rock italiano esiste e può essere spietato. Nove brani per parlare di profondità dell’anima, una musica che non rimargina, ma apre ferite. Una chitarra elettrica che taglia le pieghe della pelle, un basso potente che scava in profondità e una voce che ha il coraggio di guardare dentro l’abisso e da gemito di dolore si trasforma in grido di liberazione.

Traccia da non perdere: Tu Sei Me

 

The White Buffalo Year of the Dark Horse

Come il cavallo del titolo, il progetto si muove libero sfuggendo a interpretazioni e definizioni muovendosi tra stili e atmosfere diverse, per soffermarsi, poi, su note intime e paesaggi musicali dolci e familiari. Un piccolo necessario stato di grazia.

Traccia da non perdere: C’mon Come Up Come Out

 

Fantastic Negrito White Jesus Black Problems

Il quarto disco in studio per Xavier Amin Dphrepaulezz con il soprannome Fantastic Negrito dove il rock contemporaneo lascia prevalere le tradizioni ritmiche della black music unita a quel q.b. di psichedelia per parlare di razzismo, disuguaglianza sociale, violenza, ma anche amori struggenti viaggiando tra passato e presente come una macchina del tempo. 

Traccia da non perdere: You Better Have a Gun

 

Florence + the Machine Dance Fever

Dal passato arrivano i demoni esistenziali che prima non si riuscivano a capire, e che ora, invece, vengono affrontati con maggiore maturità e consapevolezza. L’esperienza della pandemia fatta di ansie e aspettative diventano testi che oscillano tra l’introspezione e l’audacia per esorcizzare fantasmi e paura a ritmi di ballate oppure sfumature pop più moderne e synth brillanti. Il tutto abbracciato dall’accattivante voce di Florence Welch.

Traccia da non perdere: Anti-Hero 

 

Honorable mentions 

Cris Pinzauti Moonatica – Musica per raccontare l’essere umano nella sua fragilità di vittima e carnefice, destinato alla follia per rimanere se stesso. 

Pixies Doggerel Un basso pulito e sonorità eleganti per una band che onora la propria storia musicale senza rimanerne intrappolati.

Ivan Francecsco Ballerini Racconti di Mare. La via delle spezie. – Essere cantautori è un mestiere difficile oggi, ma, come i navigatori di un tempo, l’artista affronta i pericoli e le meraviglie dei mari misteriosi della musica.

Harry Styles Harry’s House – L’accattivante voce di Harry Styles si muove tra melodie piacevoli e in apparenza leggere, per svelare momenti di intimità, la malinconia, ma anche la gioia di vivere ogni momento. 

Ariete Specchio Ariete è forza delicata, un simbolo di opposti dove la giovane età abbraccia la profondità di un animo più maturo di molti artisti della vecchia guardia. 

 

Alma Marlia

Sinplus “Waiting for the Dawn” (Dream Loud Entertainment via AWAL, 2022)

Attendere l’alba con i Sinplus è musica

La Svizzera è spesso famosa per le sue innevate montagne, i fragranti formaggi e gli ineccepibili orologi, ma quando parliamo di musica e soprattutto di rock, non è sicuramente tra i primi paesi che possono venire in mente agli appassionati del genere. Eppure, in luoghi così apparentemente tranquilli, nascono i Sinplus, duo alternative rock formato dai fratelli Ivan e Gabriel Broggini di Locarno, e che a loro attivo hanno già cinque album in studio più il nuovo EP Waiting For The Dawn, anticipazione del progetto completo che uscirà in primavera. 

Come suggerito già dal titolo, il progetto propone cinque brani uniti dal senso di attesa, ma non inteso come una grigia passività di eventi che devono accadere e che sono fuori dalla nostra portata, bensì quell’attesa di un atleta fermo ai blocchi di partenza, ma che ha dentro di sé tutta l’adrenalina pronta a esplodere in energia per iniziare una nuova avventura. Così la title track al terzo posto nell’EP diventa il cuore pulsante di un movimento sicuro e forte come i primi break sincopati della batteria, che ospitano riff pieni di energia e soprattutto l’interpretazione di Grabriel forte e delicata, che libera lo spirito della canzone dall’inizio alla fine, per concedersi un breve passaggio dolce e accattivante che cattura l’ascoltatore. Un fascino che penetra nell’audience già con Dark Horse Running dove le chitarre abbracciano un testo fatto di immagini che prendono forma tra accenni di distorsione e coralità evocative, ma sempre decise e graffianti. Si guarda il mondo, si aspetta solo nuovamente il via per tornarne protagonisti, ma non si può scordare le proprie origini ed è così che i Sinplus propongono una convincente cover di Need To Believe, tributando così i trenta anni di carriera della band svizzera Gotthard. 

Waiting For The Dawn è un progetto che, nonostante racchiuso nelle semplici dimensioni di un EP, propone una profonda intensità tematica oltre che a un’interpretazione vocale e sonora che riesce a mantenere l’attenzione dell’ascoltatore dalla prima all’ultima canzone. Non sono brani che vogliono svelare chissà quale misterioso segreto nascosto nell’uomo oppure nel cosmo, né melodie che vogliono rompere con un passato musicale che in realtà omaggiano muovendosi tra sonorità new wave. Alternative rock e post-punk. Quello che passa dei brani e la voglia di intercettare quella voglia di ricominciare che vibra nell’aria dopo gli anni che ci hanno visto chiusi e divisi, il desiderio di parlare e condividere emozioni e pensieri attraverso musica cercata, creata, pensata e non abbozzata da qualche stratagemma digitale. Un EP che preannuncia un album altrettanto ben fatto e, se il buongiorno si vede dal mattino, provate ad ascoltare quest’alba. 

 

Sinplus
Waiting For The Dawn
Dream Loud Entertainmente via AWAL

 

Alma Marlia

The Smashing Pumpkins “Atum: A Rock Opera in Three Acts” (Martha’s Music/Napalm Records, 2022)

Act One: emozioni contrastanti  per un’opera da ascoltare nella sua completezza

Per la mia generazione gli Smashing Pumpkins sono tante cose. Sono un gruppo musicale alternative rock nato nel 1988 che dagli Stati Uniti è esploso sulla scena mondiale con album come Siamese Dream e Mellon Collie and the Infinite Sadness. Sono quella vena di dolore e di tristezza trasformati in parole e musica che accoglievi a braccia aperte mentre tornavi da scuola, mentre eri con gli amici, oppure dentro la cameretta a sognare di essere grande, ma a percepirne anche tutta la difficoltà. Sono la fake news di Billy Corgan co-protagonista delle serie statunitense anni ’80 Super Vicky, la voglia dei molti fans di crederci, e la soddisfazione di altri quando ti svelavano la verità come se ti avessero detto che Babbo Natale non esisteva. Ma gli Smashing Pumpkins sono soprattuto la voce di Corgan, che passava per la tua pelle e si insinuava nei tuoi pensieri per farti gridare con Bullet with Butterfly Wings che nonostante la tua rabbia, eri ancora un ratto in gabbia, o per cantare Landslide dei Fleetwood Mac in modo così dannatamente struggente da farti sentire nudo in mezzo al mondo, con il viso rigato di lacrime. 

Ed è quella voce che, come una freccia scoccata dal passato, arriva al nostro presente attraverso il primo atto di Atum: A Rock Opera in Three Acts, il nuovo progetto composto da 3 parti con uscite programmate anche per il 31 gennaio e il 23 aprile 2023.  Ma il passato rimane il passato e per quanto la voce di Corgan emozioni l’ascoltatore come sempre, la band non ha più voglia di manifestare la rabbia e la tristezza attraverso il sound che li ha caratterizzati e resi iconici per un’intera generazione, perdendo un po’ di mordente e adagiandosi in un uso forse eccessivo dei synth per tutto l’album, creando a volte atmosfere gigionescamente rarefatte, altre troppo rivolte a un vecchio pop. Se la strumentale title track propone sei corde elettriche distorte e ci anticipa sonorità sintetiche, questi suoni si propagano nell’album un po’ come onde non sempre ben distribuite, tanto da farsi poco amalgamate come in Hooray, mentre una canzone come Hooligan ha contrasti ritmici interessanti che però non riescono a svilupparsi e combinarsi in modo accurato. In Butterfly Suite, le variazioni che scaturiscono in un bridge, riportano il brano da un’inziale incertezza a una buona tenuta, anche sono proprio queste difformità che caratterizzano tutto l’album che rendono perplessi al primo ascolto. Un ascolto orfano del singolo Beguiled uscito a settembre con una buona accoglienza del pubblico. Un ascolto che in Steps in Time e The Good in Goodbye trova echi di riff potenti del passato e chitarre elettriche incisive che confermano il carattere della band e suggeriscono che forse non finisce tutto lì, anche se in fin dei conti lo sappiamo già, perché l’opera deve essere completata degli altri due atti per capire in pieno il progetto finale. 

Mentre Atum: A Rock Opera in Three Acts si muove nell’ascolto digitale, il web esplode in opinioni di chi li preferiva agli esordi, e chi ci vede una protesi di Cyr, tra synth che spadroneggiano su canzoni prive di personalità. Non possiamo negare che il primo atto del progetto lascia perplessi, eppure si percepiscono tracce di un gruppo che ha ancora da dire e, in alcuni momenti, ti chiedi se è vero oppure se nel tuo cuore si nasconde una sorta di riconoscenza emotiva per chi ti ha fatto provare alcune tra le più belle sensazioni della tua giovinezza. Le domande si affollano nella mente e sgomitano per farsi spazio in un crogiuolo di ricordi ed emozioni, mentre nel sottofondo riecheggia quella forte chitarra elettrica che ti chiede di aspettare fino alla fine per capire cosa voglia dire quest’opera, perché potrebbe ancora sorprenderti. Fiducia mal riposta? Lo scopriremo solo ascoltando.

 

Smashing Pumpkins
Atum: A Rock Opera in Three Acts
Martha’s Music/Napalm Records

 

Alma Marlia

Phoenix “Alpha Zulu” (Loyaute/Glassnote Records, 2022)

Nell’immaginario, spesso la Francia è un paese di arte, moda e cucina dove la baguette regna sovrana, ma per la musica, il primo pensiero va a sonorità languide e canzoni che sanno di bistrot parigini. Perciò non può non stupire la presenza di un gruppo come i Phoenix, un gruppo musicale pop rock nato a Le Chesnay e formatosi a pochi chilometri da Parigi, più esattamente a Versailles, che deve il suo successo a un lavoro minuzioso fatto sul suono e le sfumature musicali trasformandoli da una band di quartiere a star del pop sintetico con già sette album in studio all’attivo e il nuovo progetto Alpha Zulu per Loyaute/Glassnote Records.

Il synth domina l’album, con un forte richiamo alla new wave, ma con un uso così sapiente e combinazioni sonore calcolate talmente nel dettaglio che la band è riuscita ad evitare l’omologazione tra i brani per farli vivere della loro peculiarità. La title track Alpha Zulu apre l’album esplodendo con la forza di un beat potente come un martello, ma chiunque si lasciasse fuorviare dal titolo per trovare qualche richiamo tribale in questi suoni rimarrebbe deluso; quei colpi così decisi non sono altro che la riproduzione della potenza degli elementi naturali, o meglio della tempesta, la stessa in cui si è trovato durante un volo il frontman Thomas Mars che della frase di emergenza pronunciata dal pilota ne ha creato una canzone. L’emergenza diventa quindi bisogno creativo e filo conduttore del brano e di tutto il progetto attraverso un ritmo incessante di musica e parole. Il beat diventa più cupo e ovattato per Winter Solstice, mentre Mars crea della sua voce un sussurro leggermente robotico, per una canzone emozionante, dalle note più lunghe, che quasi si adagiano per poi ripartire e non fermarsi mai. La sensazione di ipnosi pervade l’ascoltatore mentre il solstizio invernale ci avvolge in un profondo mistero. Altrettanto eterea, anche se con un ritmo più veloce è All Eyes On Me dove, attraverso il flusso sonoro, l’ascoltatore si perde in un loop di sguardi. Con Tonight, invece, i Phoenix si muovono, per la prima volta nella loro carriera discografica, in un featuring con lo statunitense Ezra Koenig dei Vampire Weekend per una melodia disinvolta ed accattivante di un brano semplice e ricercato al tempo stesso. 

Alpha Zulu è un progetto di eleganza e ricercatezza, ma non per questo un inutile giro di note che ripetono e finiscono se stesse. Si vive nel ritmo a cui ci si può lasciare andare per ballare, oppure per vedere come i testi sono perfettamente incastonate nei suoni, quasi a diventare melodia della melodia stessa, senza languide sospensioni, solo cadenze che giocano su combinazioni senza sbavature, anche se con una certa sfumatura naif che rende la loro produzione fresca e godibile in qualsiasi momento. I Phoenix non sono una banda per chi cerca gigioneschi suoni oscuri, qualche rantolo che gratta il microfono e pose da artisti compassati. Loro sono semplici e diretti, eppure molto minuziosi in ciò che fanno, per questo motivo possono soddisfare chiunque desideri farsi trascinare dalla musica.

 

Phoenix
Alpha Zulu
Loyaute/Glassnote Records

 

Alma Marlia

Counting Crows @ Tuscany Hall

Firenze, 6 Ottobre 2022

 

Posso solo dire che finalmente si ricomincia! Con la stagione estiva appena finita costellata di tanti concerti di artisti nostrani e internazionali, ecco che, dopo due anni di difficoltà e incertezze la stagione autunno/inverno si offre al pubblico con un panorama fatto di mille tentazioni, dove scena è divisa tra chi inizia il suo tour ora e chi recupera le date saltate a causa della pandemia: i Counting Crows sono tra questi. Mantenuto fede al numero 6 della data saltata di aprile, forse per caso o forse per scaramanzia, ieri la band americana ha fatto vibrare il palco e l’audience al Tuscany Hall di Firenze per la seconda tappa italiana del tour che segue l’uscita del loro ultimo progetto Butter Miracle: Suite One. Il Tuscany Hall ci ha accolto nella sala buia che faceva risaltare le luci sul palco che giocavano tra il fucsia e il viola, colore simbolo della città, ed era talmente fremente di iniziare che mentre buona parte del pubblico stava ancora entrando, David Keenan già stava suonando sul palco accompagnato dalla sola chitarra acustica. Cantautore irlandese di Dundalk passato dall’adolescenza da busker di Liverpool al successo internazionale di A Beginner’s Guide to Bravery che Keenan cantava con la sua voce pulita mentre il pubblico riempiva la platea sedendosi sulle poltroncine preparate per la serata. 

Chiedersi se quelle poltroncine erano lì per farci stare comodi o perché si aspettavano un pubblico di età avanza è stato un attimo, perché il cambio palco tra Keenan e gli attesissimi Counting Crows non ha richiesto molto tempo. Tutta la band è entrata senza divismi e fragori, salutando il pubblico come si salutano gli amici quando ci ritroviamo per quattro chiacchiere e una bevuta. Adam Duritz ha da tempo abbandonato i capelli lunghi, il look appare più sobrio e casual, ma poi sulla maglietta nera trionfa una bella banana wharoliana, a ricordarci che si può crescere senza annullare il nostro spirito. La serata inizia con Speedway, tratto dall’album This Desert Life del 1999, sulla band il passare del tempo lo vedi da qualche segno in più sul volto e i capelli bianchi e grigi che si alternano su barbe e capelli, ma la loro voglia di suonare, stare bene e soprattutto farci stare bene  cancellano in un attimo qualsiasi malinconia del tempo che passa, e l’aria si riempie talmente tanto di emozioni che già alle prime note di Mr Jones una parte del pubblico si è alzata in piedi, rimanendo ai margini della sala per esprimere con il corpo quelle sensazioni che la canzone fa provare. La voce di Duritz non tradisce il timbro a cui eravamo abituati, e improvvisamente il passato diventa presente e le serate passate con amici e primi amori, cocenti delusioni, sogni nei cassetti, a bere le prime birre e a reggere qualche sbronza tornano alla mente grazie a quella che era stata la loro colonna sonora. Non sai se quello è un successo irripetibile oppure sono i momenti di quella giovinezza che sono irripetibili, ma non importa capirlo, la cosa importante è lasciarsi nuovamente prendere dall’emozione di quella canzone. La serata continua tra vecchi e nuovi successi, tra cui Elevator Boots e Bobby And The Rat-Kings che vengono interpretate dalla band con potenza e dinamicità, e il rock ringrazia, mentre le storie cantate da Duritz sono vere e proprie narrazioni quasi cinematografiche, tanto i dettagli sono precisi e vivi.  Anche Hard Candy ci regala ritmo serrato e voglia di ballare, ma lascia poi il posto all’attacco in acustica di David Bryson per un’atmosfera sospesa ed intima dove tutti gli altri strumenti seguono da vero gruppo, in contrasto con una canzone che parla della solitudine di chi sceglie la strada dell’arte, che spesso ti porta lontano da chi ami. Il pubblico è diviso tra chi pende dalle loro note e le labbra di Duritz e chi quelle labbra le muove per vivere ancora più intensamente il concerto, soprattutto quando il solo pianoforte di Gillingham apre Colorblind e noi tutti galleggiamo con leggerezza nella malinconia di un suono che culla le parole e il vuoto è reso magnifico dalla musica. La fine è uno scroscio di applausi gli stessi che più tardi accolgono Rain King e la batteria potente di Bogios che, come un martello, vuole farci saltare sugli attenti, ma inutilmente perché ormai gran parte del pubblico è già in piedi, le poltroncine sono ormai troppo strette per chi un concerto lo vuole vivere come un concerto comanda, in piedi in segno di rispetto, attenzione e partecipazione per chi quelle emozioni ce le fa vivere. Da lì è invasione di campo, tutti gli spazi vuoti si riempiono di persone, sotto il palco non c’è più posto, i musicisti sono felici, si muovono ancora più di prima, mentre Powers dall’alto del suo basso fa una foto a questo che non è più un concerto, ma una festa di voci, mani e teste. Siamo tutti felici, e ci vuole, e questa felicità ci vuole, ora più che mai. 

Il concerto si chiude con la romantica A Long December che ci prepara a un bis che non si fa attendere molto. Holiday in Spain è la chiusura reale della serata, il saluto di una band con una storia che tutti vorrebbero vivere, fatta di un successo internazionale grazie ad alcuni singoli e la profondità dei testi di Duritz, oltre a delle sonorità che si incastravano nella tua vita per non lasciarle più. Un rock americano di chitarre ruggenti e momenti di intimi di riflessione di un amico davanti a una birra, o quello che preferite. Una serata fatta di sonorità grintose, ma anche evocative, forti eppure delicate, un insieme di stimoli pronti a diventare sentimenti opposti tra loro, pieni di contrasto, ma che proprio per questo, non ti lasciano andare via, e quando le luci si spengono, quelle canzoni dentro di te rimangono accese. 

 

Alma Marlia

 

foto di copertina (Roma) Simone Asciutti

The Mars Volta “The Mars Volta” (Clouds Hill, 2022)

L’arte di giocare con un prisma di sonorità

La categorizzazione è un processo della mente umana mediante la quale idee e oggetti sono raggruppati in categorie per renderli riconoscibili, differenziati e compresi, per poterci muovere al meglio nella realtà che ci circonda. Così, come ogni aspetto del quotidiano, anche la musica è soggetta a una divisione in generi per facilitare il nostro approccio, anche se per sua stessa natura non sé divisibile in compartimenti stagni. The Mars Volta sono una dimostrazione di tutto questo, con la loro storia caratterizzata fin dalla loro nascita nel 2001 da numerosi cambi di formazione, tranne per i due fondatori il chitarrista e compositore Omar Rodríguez-López e il cantante Cedric Bixler-Zavala, e per la loro passione per la sperimentazione e l’utilizzo di generi diversi che vanno da rock alla salsa, dal jazz al prog sperimentale, per passare da miriadi sfumature sonore di un curioso prisma musicale. Dopo dieci anni di pausa da Nocturniquet del 2012 e il loro scioglimento l’anno successivo, la band torna sulla scena con l’album omonimo The Mars Volta, che segue la pubblicazione dei singoli Blacklight Shine, Graveyard Love e Vigil, l’ultimo in ordine cronologico. 

L’ascolto di The Mars Volta con le sue ben quattordici tracce non è certo un impegno da poco, in una società dove il tempo dedicato all’ascolto è sempre minore. Eppure, il vantaggio di un album come questo sta proprio nella varietà di sound che propone, perché non rischia di annoiare o anche solo abituare l’ascoltatore e perché può essere ascoltato come un progetto unico visto nei suoi aspetti molteplici, oppure in ogni singolo brano senza che rimanga un senso di incompiutezza del messaggio trasmesso. Così stupisce, ma fino a un certo punto, la presenza della spensierata e danzereccia Que Dios Te Maldinga Mi Corazòn di netta ispirazione salsera in un album con atmosfere rarefatte da synth come Shore Story e la quasi acustica melanconica Tourmaline. L’influnze caraibiche si fondono invece con un prog sperimentale in Blacklight Shine, dove Bixler-Zavala canta in spagnolo e racconta di un flusso di blackout ondulati che trascinano i ricordi sulla riva della memoria, e le percussioni riflettono il battito di un cuore che ancora ricorda tutto e non smette di provare emozioni. Sempre sperimentale, ma più suggestiva e sofisticata è Vigil, che si sviluppa in sonorità più pop e dolci, ma per cantare vite logorate da forze più grande di lui, un vortice che ti prende, e anche se pensi di avere il controllo su ciò che ti circonda, secondo Bixler-Zavala ,“Ottieni quello che ottieni quando è la vita stessa a girarti intorno”.

L’album è un ottimo ascolto per chi non vuole adagiarsi su sound troppo simili tra loro e ama lo spirito di sperimentazione che lo pervade. La band lo ha reso un percorso che riflette la propria identità musicale confermando la loro indole a non farsi chiudere in definizioni da mercato o in algoritmi sintetici, un modo per parlare di sé esorcizzando un panorama personale e artistico non sempre semplice. Viaggiare tra suoni e stimoli di vario genere, che si incontrano per unirsi e dividersi, un po’ come le persone che fanno parte della nostra quotidianità: melodie e dissonanze, semplicità e complessità, tutte insieme in un solo disco, così come nella vita. 

 

The Mars Volta
The Mars Volta
Clouds Hill

 

Alma Marlia