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Tag: andrea riscossa

Roger Waters @ Mediolanum Forum

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• Roger Waters •

 

Mediolanum Forum (Milano) // 01 Aprile 2023

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Lost Pigs


È la prima volta che a fine concerto non trovo un giudizio. Non lo sento, non arriva, sono intorpidito. Comfortably Numb, o, semplicemente, ho accusato il colpo.
C’è una lotta interna tra quello che ho visto e quello che ho ascoltato. C’è uno scontro tra la musica dei Pink Floyd, consumata in decenni di vita, e l’uso fatto dal suo padre e padrone, Roger Waters. E l’effetto ha il gusto dell’assurdo, perché tutto mi aspettavo, tranne il non aver assistito a un concerto di musica eccezionale. No, quello visto questa sera non è solo un concerto. Lungi da me usare qualcosa che suoni come experience-qualcosa, però, insomma, avete capito. C’è musica e ci sono immagini, messaggi, proclami, sentenze. È simile a una bevuta con un vecchio amico, il tutto intervallato da momenti di monumentale esplosioni d’ego. Come se i ricordi evocati, le idee proposte, le storie raccontate venissero plasticamente rappresentate sopra la testa di Mr. Waters. Ed è esattamente quello che ho visto, quello che tutti i presenti hanno avuto. Come un ciclopico fumetto a forma di croce, come un ipercubo che viaggia tra canzoni, nello spazio, attraverso il tempo.
Waters avvisa i presenti: se siete venuti solo ad ascoltare canzoni dei Pink Floyd e non condividete la visione del mondo che viene proposta, potete, letteralmente, andare a fare in culo.
Ascolto, sorrido, mi sovviene un noto paradosso che prevede l’uso dell’intolleranza per placare gli animi intolleranti, ma siamo già oltre. Forse andava scritto prima, sul biglietto. Disclaimer: Waters è una retta, non si piega, non curva, non si spezza, non ha dubbi né vacilla, grazie ai mancorrenti presenti sul palco ma soprattutto a una sua innata incapacità a mediare. L’anziano signore che senza grande sforzo tiene il palco per due ore ha più spigoli del suo maxischermo, ma è cosa arcinota, non vale storcere il naso dopo aver varcato l’ingresso del Forum.
Lo show si apre con immagini di una città semidistrutta. Tutto è nero e blu, come un film di Nolan, le note di Comfortably Numb accompagnano l’ingresso di Waters, le immagini però slegano il pezzo da The Wall, lo rendono universale, lo trasformano in un dialogo tra chi canta e la gente venuta lì per lui. O tra ognuno di noi e il suo vicino. Pink siamo noi, ora e adesso, il che è suggestivo ed evocativo ma porta in nuce una visione pessimistica che sarà il vero filo conduttore della serata. Non c’è un chiaroscuro, tutto è perso. I maiali volano alti nel cielo, sopra le rovine, mentre gli assoli di Gilmour sono spariti, sostituiti da un coro da pelle d’oca.
Segue The Happiest Day of Our Lives, seguita a sua volta dalla suite di Another Brick in the Wall.
Benvenuti nel mondo di Waters, quasi ottantenne. Se cercavate salvezza avete sbagliato luogo, se pensavate che grazie alla veneranda età si fosse giunti a una qualche verità, beh, non è andata proprio così. I maiali hanno vinto, fatevene una ragione. 

 

Welcome to the Bar

Le prime parole arrivano per presentare un brano inedito, che chiuderà poi il concerto, come fosse una chiave di lettura, o un punto di vista. Il Bar pensato da Waters è un luogo di confronto e di scambio, ma puzza di stoico ritiro dal mondo, di un otium dove rifugiarsi, perché là fuori i maiali volano alti, dal ’77, per giunta. Tutto lo show è animato dal maxischermo, vero protagonista del concerto, che racconta di politici, di storie, di ricordi, di violenza, di sfruttamento, di futuri distopici e di presenti impresentabili. C’è una damnatio memoriae tutta dedicata a Gilmour, che sparisce dalle fotografie e dagli assoli, mentre l’amico Syd Barrett viene evocato in momenti diversi. Moltissimi i brani da The Wall, molto presenti anche le canzoni di The Dark Side of the Moon, ma il filo conduttore della serata è politico e sociologico, e sembra quasi una lezione su come la musica dei Pink Floyd e i messaggi che portava fossero moniti che non sono stati ascoltati.
È una pantagruelica festa di un fallimento. Tra pecore volanti, maiali guidati da droni, laser e un maxischermo che sembra un’astronave, viene comunque enunciato il paradigma di un epocale e sordo tonfo.
È uno spettacolo senza catarsi. Un pugno nello stomaco, suonato divinamente, un invito alla riflessione, ma senza istruzioni e senza fine, come un libro bellissimo, cui hanno però strappato le ultime venti pagine.
Benvenuti allora anche nel Bar di Waters, avrete una vista privilegiata sulla fine del mondo, mentre l’orologio del Doomsday viaggia verso la mezzanotte, al suono delle più belle canzoni dei Pink Floyd.

 

Il Medium è il messaggio

Waters è un signore ormai anziano. Le sue lunghe braccia perdono gli anni solo imbracciando uno strumento. Beve mezcal, sbuffa e arranca. Non fa nulla per mascherare gli anni e tutto quello da cui è stato attraversato.
Waters è il medium, Waters è il messaggio, perché quello che ha raccontato, cantando, negli ultimi decenni, ha un suono diverso, ora che la sua voce è diversa. Il messaggio cambia, le prospettive anche, il tempo che rimane si esaurisce. Waters è una visione del mondo, è un’intolleranza a volte ingenua a volte genuina. Figlio senza padre per colpa dello sbarco ad Anzio degli alleati, ha speso una vita a indicare i maiali avidi di potere. Possiamo accogliere il monito, magari mediarlo, il problema è che tutta la meravigliosa musica dei Pink Floyd stride con quello che il pubblico vede sul maxischermo e con quello che Waters ha deciso di mostrare.
Ho avuto la sensazione che il ‘900 fosse salito, lunedì, un’ultima volta sul palco. Per un commiato epocale, per lasciarci nel mondo del post-qualcosa, senza bussola né mappa. Ecco, mi sento un po’ perso a fine show. Mi sento un po’ solo, Roger. Facciamoci ancora un bicchiere nel tuo Bar, perché stare fuori dalla storia, a questo punto, è un grande privilegio e ne ho molto, molto bisogno. 

 

Andrea Riscossa

Foto di Oriano Previato
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Dry Cleaning “Swampy EP” (4AD, 2023)

– Chi era?
– Nulla, erano i Dry Cleaning, hanno lasciato una musicassetta, sul tavolo, vicino alla frutta.
– Roba importante? Urgente?
– Pare di no. Solo una canzone rimasta orfana dopo l’uscita di Stumpwork, un intervallo musicale per chitarra e deserto, due remix di pezzi già noti e una demo.
– Ah.
– Già.
– L’hai già ascoltata?
Swampy l’ho messa in loop per venti minuti. È un sunto dell’estetica della band. Ciondolante, sudato, afoso, fumo blu su silhouette in controluce. Ma anche desertico, desolato e poco londinese.
– Domani li chiami?
– Esce il 1° marzo, direi che è urgente.

A Swampy segue in ordine Sombre Two, pezzo solo strumentale di circa due minuti, una clamorosa Gary Ashby remixata da Nourished By Time, e Hot Penny Day, smontata e rimontata da Charlotte Adigéry & Bolis Pupul.
Chiude il tutto un oscuro demo chiamato Peanuts.
Tra vent’anni, davanti alla tracklist del best of dei Dry Cleaning, potrete sfoggiare uno slancio di cultura ricordando a tutti che quel bel pezzo polveroso e misterioso non ha mai abitato nessun album, Swampy era un EP.
Un EP che dura un quarto d’ora. Esce a quattro mesi di distanza dall’ultimo album. È come ricevere a Natale una foto dell’amore estivo.
Non lo avrei mai detto, sei bella anche non abbronzata.
Ci vediamo dal vivo, sicuro. 

 

Dry Cleaning
Swampy EP
4AD

 

Andrea Riscossa

Pearl Jam “Yield” 25 anni dopo

“How cool to have a yield sign where there’s nothing to yield to”
Jeff Ament

È il tre di febbraio del 1998.
Un martedì.
È appena uscito il quinto album dei Pearl Jam, ma l’ho lasciato sul tavolo, incartato, intonso.
No Code mi aveva annoiato, i Soundgarden si erano sciolti, il Seattle Sound si era perso, pochi mesi prima era uscito un certo OK Computer.
Un aereo militare statunitense ha appena tranciato i cavi della funivia del Cermis. 

Era la fine del Secolo. Il Novecento, non un secolo qualunque.
La musica che amavo stava morendo (male), dopo un decennio di gloria e sovrabbondanza, di esplosione globale di fenomeni, correnti, movimenti. MTV era lo specchio deformante in cui la mia generazione trovava conforto, e io ero attaccato ai miei Pearl Jam come naufraghi sulla zattera della Medusa.
Vedder, l’uomo che ha cantato il proprio giovane Werther interno in almeno tre dischi stupendi, decide di fare otto passi indietro (Gossard ne fece solo due), e propose una terza via, in zona cesarini, per dare a me, a noi, a tutti i giovanicariniedissocupati del pianeta, una proposta diversa da quella di autocommiserarci e autoflagellarci tra millenium bug e mille non più mille parte II.
I Pearl Jam misero in musica la suddetta proposta, lasciando come unico segnale preventivo un cartello di precedenza, laddove, di cartelli, ma soprattutto di precedenze, non ve n’era bisogno. Ament sogghignava, sottolineando la meraviglia del paradosso in diverse interviste. Vedder la prendeva (ovviamente) più alta, ma lo vedremo più avanti.
Quello che sembra perfettamente centrato, quello che allora ha riallacciato il mio cordone ombelicale con loro, furono le domande e le risposte che questo disco portava con sé. È un inno alla fine del mondo, che contiene le istruzioni per sopravvivere, nonostante tutto, nonostante noi. 
Già.
A fine febbraio 1998 inizierà la guerra in Kosovo. A metà mese diverse nazioni si esprimeranno contro la clonazione umana. In marzo Pakistan e India giocano con le atomiche. E Titanic vince undici statuette, un costosissimo e edonistico naufragio, a simboleggiare il genius saeculi.

Il Maestro e Margherita di Bulgakov forse è l’ultima nota che ci si aspetterebbe di trovare a piè di pagina in un disco dei Pearl Jam. Eppure.
Colpa fu di Jeff Ament, bassista del gruppo, che rimase folgorato dai capitoli del romanzo dedicati a Ponzio Pilato.
Nota: la storia raccontata nel romanzo non è esattamente fedele a quella dei Vangeli, e il Pilato rappresentato nella canzone è quello della parte finale del libro: stanco, solo e dimenticato dalla Storia, vive in una montagna con il suo cane, triste per le occasioni perdute e per la solitudine di cui è prigioniero. In Pilate Ament tratta di tutto quello che abbiamo lasciato in sospeso, di come quel gomitolo di non-fatto possa trasformarsi in rimorso e follia.
I Pearl Jam – tutti i membri della band –  hanno raccontato in diverse interviste precedenti all’uscita del disco di quanto il gruppo fosse sfilacciato, esausto, disunito. I tour, la querelle con Ticketmaster, le frizioni interne, la precarietà esistenziale del ruolo del batterista della band, la difficoltà nel relazionarsi con un Vedder sempre più chiuso, tutti questi fattori avevano minato la stabilità della band.
C’è un cartello di precedenza, nella storia dei bivi che i Pearl Jam hanno preso. E sta lì per ricordare a tutti che esistono molte vie per ritrovare la strada e se stessi.
Una di queste è una sana chiacchierata con un gorilla senziente e di sconfinata cultura.
È ciò che Daniel Quinn racconta in Ishmael, un libro dei primi anni novanta, che si basa sulla relazione tra un gorilla e un uomo. Il primo, attraverso un dialogo filosofico, presenta al secondo una rilettura della storia dell’umanità, in particolare della civiltà del progresso e del suo destino, pare ineluttabile, fatto di autodistruzione. Il libro propone vie alternative, ma la parte più nera e critica del testo convoglia in quel capolavoro che sarà Do The Evolution, cui spetterà l’onore di diventare un video musicale di rara bellezza e forza comunicativa.
Ma l’Ishmael che rilegge la storia dell’uomo, la Bibbia e che illumina i finali possibili della Storia, è solo una parte dei molti riferimenti usati per tracciare la mappa disegnata dalla band.
Yield è un manuale con diversi capitoli, un po’ figlio di quel Vitalogy-pensiero di qualche anno prima, che ha l’enorme pregio di non prendersi troppo sul serio. Sarà la maturità, saranno le botte prese, quello che traspare è uno sguardo più lucido e sereno. E così la traccia iniziale Brain of J. ci pone subito nel mezzo della querelle tra noi e il mondo, mentre è la seconda canzone, Faithfull, a introdurre un elemento fondante del disco: un nuovo umanesimo, una nuova via ripulita da ciò che ha macchiato i secoli precedenti. E i nostri iniziano dalla religione, spazzata via in poco più di quattro minuti, liquidata come inutile illusione. L’unica entità cui dovremmo essere fedeli è seduta a fianco a noi, (ri)partiamo da qui.
Sfruttando questo primo assioma, Gossard riesce a far cantare a Vedder: 

‘Cause I’ll stop trying to make a difference
I’m not trying to make a difference
I’ll stop trying to make a difference
No way

No Way, terza traccia, è sintomatica del nuovo modo di lavorare della band: Yield è un disco corale, in cui tutti hanno portato un contributo, in cui tutti hanno il nome tra gli autori. L’io di Vedder diventa un noi, e l’amico Stone decide di farglielo giurare al microfono, ponendo le basi per la seconda legge di Yield: ammettere di aver bisogno dell’altro. Più umanità che umanesimo, ma siamo ancora alla casella di partenza.
Con un gioco di montaggio alla Tarantino, Given to Fly ci racconta qualcosa che potrebbe stare alla fine della nostra storia, non a metà album. La canzone ha dato vita a fiumi di interpretazioni, nonostante Vedder abbia dichiarato si tratti solo di una fiaba. Ma l’uomo che dall’onda spicca il volo e li libra in cielo è un’iconografia che potrebbe riempire libri di citazioni. Personalmente? Icaro, Prometeo q.b., ma soprattutto, a pelle, una “normale assurdità”, alla Mr.Vertigo, Paul Auster, 1994.
Sempre il duo McCready-Vedder firma la seguente Wishlist, la lettera d’amore scritta come avessimo ancora un Babbo Natale come musa, ma anche la lettera d’amore che vorremo ricevere domani stesso. Del resto, nel nuovo millennio, vorremo portarcelo, il nobile sentimento?
Di Pilate e del suo messaggio abbiamo già affrontato temi e radici, nonché di Do The Evolution, anche se meriterebbe menzione il riff di chitarra più goloso del disco.
MFC è la chiave dell’album. È la X sulla mappa. E di nuovo, per un gioco di montaggio, abbiamo la soluzione prima del dramma. Perché le canzoni seguenti, Low Light, In Hiding, Push Me/Pull Me, sono criptiche, sono oscure, parlano di cambiamento, di trasformazione, ma anche di chiusura al mondo ed eremitismo (pare suggerito da Sean Penn su pratiche apprese da Bukowski, ma è altra storia).
Saltelliamo su temi escatologici in Push Me/Pull Me fino al gran finale di Gossard, che nel nuovo millennio pare volesse portare soprattutto l’ironia e la sottile metafora. La ninnananna finale di All Those Yesterdays non serve a mettere a dormire i propri figli, come accadeva con il pargolo di Irons in No Code. Qui a nanna ci vanno i Pearl Jam, almeno nella loro versione adolescenziale, rabbiosa. Gossard stacca dal traliccio il Vedder-bambino, lo cala in un gruppo aperto al dialogo e mostra a tutti la strada, puntellandola qua e là, senza troppo senso, con segnali per rallentare la corsa.
Parere di pancia: Yield sfiora il concept album.
Anzi, compio un atto di coraggio e ammetto che più sprofondo nei testi, più mi perdo nei contenuti e più mi ritrovo tra le canzoni di The Wall, Pink Floyd, 1979. Lungi dal paragonare i due album, lungi ancor di più accostarli per peso specifico e importanza storica. Ma il lavoro di Waters è un viaggio (circolare) che inizia a esistere nel momento in cui il suo autore decide che il suo rapporto con il mondo, con il pubblico, con lo showbiz, deve cambiare. Il muro è isolamento, il muro è l’incertezza, è la paura. Il viaggio che Waters ci regala, fuori e dentro il suo muro, serve a mostrare a sé stesso e a noi che siamo liberi di isolarci, di perderci in atti creativi autoriferiti, liberi di goderci la nostra solitudine. Ma è soltanto uscendo dai nostri confini che otteniamo la completezza. Siamo umani solo attraverso una continua e consapevole condivisione.
Yield è un disco con una missione, almeno con un messaggio.
In MFC Vedder ci regala la classica metafora del viaggio in automobile. Ma tra le righe ci insegna a rimappare quello che ci sta intorno, a lavorare su come e cosa osserviamo. È un inside job, è un modo per ridistribuire le proprie risorse interne. Se in Rearviewmirror il futuro era nello specchietto retrovisore, nel lasciare il passato scappando, qui è il presente che viene modificato, con un atto creativo.
Libero arbitrio in libero incrocio.

Yield è un disco sulla fine del mondo.
E degli anni novanta.
E di un’umanità che deve cambiare.
Loro non potevano saperlo, ma da lì a un anno sarebbe arrivata la tragedia di Roskilde. Un anno dopo sarebbe cambiato per sempre il mondo, dopo gli attentati dell’11 settembre. E io ringrazio di aver ricevuto la mappa che Yield contiene prima che i Pearl Jam, come tutti noi, dovessero fronteggiare le difficoltà dei primi anni del nuovo secolo.
È stato un disco importante, perché ha un peso specifico enorme, ed è stato un regalo averlo nel 1998.
Il mondo andava a rotoli, come adesso.
Ma ero innamorato. Avevo amici, avevo ventuno anni.
E uno Yield in più a proteggermi.  

…All that’s sacred comes from youth…

 

Andrea Riscossa

All I Want for Christmas Is (a Book)

Sudorazione, crampi addominali, secchezza delle fauci e narcolessia.
Questi i sintomi provocati dall’ansia da regalo, effetti indesiderati dovuti a sessioni di shopping degne di un triatleta in attività.
Abbiamo una soluzione a mariti collezionisti di vinili rari, a fidanzate dedite al post-goth lappone, ad amici/e/u che millantano di conoscere la setlist dei Bee Hive a Trezzano, 1982.
Un libro. Date loro un libro e otterrete gioia, quiete e una manciata di consecutio apprese per osmosi.

Siamo stati al Salone Internazionale del Libro di Torino e, con un ritardo imbarazzante, abbiamo qualche consiglio su titoli o case editrici per chi, in questo duro momento, è uscito sconfitto da un negozio di dischi.

Partiamo dalla casa editrice Odoya, quella più presente sugli scaffali di chi scrive, più che altro per l’affinità di generi musicali esplorati.
Quattro i titoli su tutti:

Greil Marcus, Bob Dylan, Scritti 1968 – 2010
Un rapporto, anzi, un amore letterario che attraversa un’era musicale, una fotografia di una parabola lunga come una carriera. 40 anni raccontati da una penna di indiscusso valore mondiale. 

Greg Prato, Grunge is Dead.
Tecnicamente una bibbia. 130 interviste, una storia corale, una storia orale. Si parte dalle radici, si analizzano band più o meno note, si mette a fuoco quello che fu, dopo la Londra punk, l’ultimo movimento musicale geograficamente così circoscritto e allo stesso tempo così importante a livello globale. 

Valeria Sgarella, Seattle, la città, la musica, le storie.
Del sopracitato movimento grunge esiste una geografia ben descritta in questo volume. Seattle è stata una città di sale prova, di spazi per concerti, di luoghi intrisi di storie e musica. Poi giganti come Starbucks, Microsoft e Amazon hanno iniziato a cambiarne l’aspetto (e l’anima?). 

Stefano Solventi, The Gloaming, i Radiohead e il crepuscolo del Rock.
Questa è una storia di evoluzione, un’analisi del rapporto tra una band (i Radiohead) e i cambiamenti a livello globale. Una sorta di documentario sul processo evolutivo, sui meccanismi di cambiamento e sulle modalità di interazione per modulare al meglio la propria arte. A volte l’oggetto del racconto cambia il linguaggio del racconto stesso. 

Sempre della stessa casa editrice segnaliamo testi su Tom Waits, Black Flag, Nick Cave, Zappa, Ian Curtis e molti, molti altri.

 

Altro catalogo che ci ha colpito è quello della Tsunami Edizioni. Qui l’ambiente è un po’ più caldo, con monografie lato metal/rock/punk/hardcore, anche di autori italiani. Citiamo un geniale Come sopravvivere a Wacken, di Davide Savaris, oltre a testi molto interessanti su Nine Inch Nails, Joy Division, Mötley Crüe, Screaming Trees.

 

Sezione a parte la merita Maurizio Blatto. Unire causticità sabauda ed amore per la musica è un’arte e un privilegio. Tre titoli dell’autore meritano di essere letti, perché portano a una sana e consapevole autoindulgenza nei confronti delle proprie intolleranze musicali e della autoproclamata superiorità in fatto di gusti e manie.
Citiamo:

Sto ascoltando dei dischi, ADD Editore, 2020
Mytunes. Come salvare il mondo, una canzone alla volta, Baldini + Castoldi, 2014
L’ultimo disco dei Mohicani, Ultra, 2017

Segnaliamo che è uscito un nuovo libro da pochissimo, titolo: Canzoni di Natale, ADD Editore. 

 

Ricordiamo storiche collane ancora attive e presenti in catalogo, come Arcana, LIT e Ultra. Testi al limite del saggio filosofico, come Snaidero per Mimesis, La filosofia dei Led Zeppelin. Edonismo vitalista e volontà di potenza, ovvero Page-Plant-Jones-Bonham secondo Nietzsche.

E ancora, di Rossano Lo Mele, Scrivere di Musica, Minimum Fax. Dalla penna del batterista dei Perturbazione e direttore editoriale di Rumore, un saggio su come e cosa e quando e perché della musica.

Di Vincenzo Costantino, aka Cinaski, I miei Poeti Rock, Hoepli. Qui si tratta di musica e condivisione, di scoperta e di racconto, di musica e poesia.

Chiudo con Nicholas Ciuferri, Maledetti Cantautori, Beccogiallo. Fu una piacevole scoperta, a teatro. Perché il libro, in questo caso, è uscito dalle pagine ed è diventato uno spettacolo fatto di parole e canzoni, in cui la musica spiega il racconto e il racconto diventa la musica.

 

Ovviamente di titoli validi e di autori capaci le librerie son piene. Speriamo di aver dato però uno spunto o anche solo un barlume di speranza a chi, quest’anno, ha bisogno di un aiuto nell’assecondare una sana mania, una beata ossessione.
Che, poi, “scrivere di musica è come ballare di architettura”.
Speravo di non citarla, ma non ho resistito.
Chiedo scusa e buone feste.

 

Andrea Riscossa

 

Postilla: caldamente raccomandata la serie di libri 33 1/3 edita da Bloomsbury Publishing, piccole monografie su specifici album scritte da autori vari e con vari stili, dal tradizionale saggio a versioni più romanzate della genesi del disco in questione. Ad oggi si contano circa 170 titoli, disponibili solo in inglese.

Francesca Garattoni

VEZ5_2022: Andrea Riscossa

A dicembre scorso, mentre pubblicavamo per il secondo anno di fila le personali top 5 della redazione e degli amici di VEZ, ci eravamo augurati come buon proposito per l’anno nuovo di tornare il prima possibile e in modo più normale possibile ad ascoltare la musica nel suo habitat naturale: sotto palco.
Nel 2022 tutto sommato possiamo dire di esserci riusciti, tra palazzetti di nuovo pieni e festival estivi senza né sedie né distanziamenti. Però ormai ci siamo affezionati a questo format-resoconto per tirare le somme, quindi ecco anche quest’anno le VEZ5 per i dischi del 2022.

 

Fontaines D.C. Skinty Fia

Il disco esce ad aprile, nel 2022 sono sotto il loro palco per tre volte. Ho ufficialmente una relazione amorosa con la band di Dublino, quindi sarò partigiano.
Miglior opening track degli ultimi anni, a mani basse. Semplicemente una canzone che al minuto 2:20 diventa una promessa che viene mantenuta fino all’ultima canzone del disco.
Fatico a trovarci difetti, ed è un luogo in cui torno spesso, che, poi, è quello che cerco in un album.
I Fontaines in esilio londinese cantano la loro saudade ungulata, e suona benissimo

Traccia da non perdere: In ár gCroíthe go deo

 

Black Country New Road Ants From Up There

È un disco di una bellezza accecante, commovente e allo stesso tempo viscerale e cerebrale.
Mi auto copio-incollo: è un dialogo senza regole tra strumenti, che diventano attori di un racconto e che entrano in scena con urgenza, per mostrare un punto di vista, a costo di farlo fuori tempo.
Un Satie con la sindrome di Tourette.
Perché loro sono minimali e orchestrali. Sono emozioni a dimensione variabile. Sanno essere oscuri ed entusiasti, attraverso flussi disordinati esplodono in ubriacature di suoni, sanno essere solitari e sanno suonare “in grande”.

Traccia da non perdere: Concorde

 

Wet Leg Wet Leg

Se la vostra band nasce su una ruota panoramica durante un festival e sul palco in quel preciso istante ci sono gli IDLES, il vostro destino è segnato, almeno per le stelle. Le Wet Leg hanno macinato più concerti che ore in sala di registrazione, hanno singoli da milioni di stream e dal vivo sono proprio un bel giocattolino. Il disco è cafone, sboccato, sfrontato ed è proprio divertente.
È un disco che contiene sentenze. Sentenze sui denti. Ciò non impedisce di sorridere coi buchi.

Traccia da non perdere: Wet Dream

 

Dry Cleaning Stumpwork

Mani avanti: è sicuramente un disco inferiore al suo predecessore, ma l’asticella rimane alta, altissima. Siamo nuovamente di fronte a un flusso di coscienza musicato, in un lockdown mentale e forse ancora un po’ materiale, forse autoindotto, forse di comodo. Il tutto condito da riff mai troppo puliti, slow-core, lo-fi.
Per la recensione mi sono costati un viaggio verso le montagne di casa, perché è macinando chilometri in loro compagnia che sono arrivato alla messa a fuoco di questo lavoro. 

Traccia da non perdere: Gary Ashby

 

Porridge Radio Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky

Mea culpa, il disco che avrei voluto recensire e che mi sono perso. Almeno all’inizio. Perché le Porridge Radio sono entrate di prepotenza negli ascolti seriali estivi. E poi mi sono perso nella voce di Dana Margolin che enuncia tremando, ti sbatte in faccia piccole verità senza guardarti negli occhi. Una tazza di tè tra un attacco di panico e una sbronza. Trema tutto, è tutto instabile, ma è pieno di colori.
Sottotitolo: tastiere per chitarre, forse non un piccolo capolavoro come l’album precedente, ma sicuramente sono le mie guilty pleasure del 2022.

Traccia da non perdere: Back to the Radio

 

Honorable mentions 

Kae Tempest The Line Is a Curve  – Lei è un gradino sopra tutti. Ma anche di lato, quindi categoria a parte, meritevole di podi che al posto dei numeri abbiano spiegazioni un po’ più articolate. 

Yard Act The Overload  – Fuori top 5 perché mi risultano sempre troppo paraculi. Sarà questione di pelle, sarà un tasso di innovazione non comparabile con i soci di oltremanica già citati, o sarà perché sono troppo bravi anche loro. Però ricordiamoli, che valgono.

DEHD Blue Skies – Visti su un live di KEXP (cheiddioliabbiaingloria), è stato amore alla prima nota. Nulla di che, gli voglio bene. Canzone (Bad Love) sempre in playlist, da luglio in avanti. 

 

Andrea Riscossa

Dry Cleaning “Stumpwork” (4AD, 2022)

Ho ascoltato questo disco una ventina di volte.
In cuffia, come da prassi, con aria da consumato sommelier, a cercar profumi e angoli nascosti.
Mentre lavoro, per stupirmi di quante volte il sopracciglio destro si potesse alzare, in totale distrazione.
Sdraiato in un prato, in solitudine, da pastorello dell’Arcadia.
Poi mi sono illuminato. Avevo un piano. E una sera libera. 

Stumpwork, questo il titolo del secondo album dei Dry Cleaning, merita una serata tutta sua, un viaggio vero veramente, lui, io e una strada. Una statale verso le montagne, dove posso fermarmi e scrivere, dove ci sia buio e ci siano chilometri facili, dove posso guidare in automatico e intanto perdermi nelle note e nelle parole di Florence Shaw, perché, sono sicuro, proprio nei testi sta la chiave di lettura di questo album.
Perché è un disco fatto di solitudini, di spazi chiusi, di viaggi distratti, di pensieri nati seguendo goccioline di pioggia che scappano su finestrini. È un monumentale flusso di coscienza, sembrano mille pensieri scritti velocemente su post-it e poi lanciati in aria. Non c’è un ordine, non c’è un metodo, c’è solo una forma, uno stile, un messaggio di fondo.
Si parta, dunque. Scriverò come fossi intrappolato nei titoli di testa Lost Highway di Lynch.

L’album inizia freddo, gelido, ritmo che sa di macchina industriale. Anna Calls From the Arctic sembra il risveglio da un letargo mentale (o reale), è costruito su un crescendo, su cui si affollano pensieri rapidi, banali, a volte singole parole. È un gioco a evocare, ed è una pena godere dell’arrivo di una scarpiera, unico sollievo della giornata. Tutti i brani avranno questo disegno di fondo: nel disastro post-pandemico e post-industriale, il sollievo è effimero e materiale. Anche i pensieri che portano serenità, nati in ascensore mentre si esce di casa, sono di una superficialità imbarazzante. Piccole gioie, mentre l’ascensore precipita, a nostra insaputa.
Salva chi canta e salva chi ascolta una sana dose di cinismo, di intelligente distacco e di caustica visione. I Dry Cleaning nel pezzo che apre il disco sembrano più morbidi ed eleganti. Così sarà lungo tutto l’album.
Gary Ashby, terzo pezzo in tracklist, era la tartaruga di famiglia. Scappata durante il lockdown, dove, non si sa, come, non è dato saperlo. Ma perdere un animale come Gary non è da tutti, considerando che si era tutti a casa. Brani come l’orecchiabile Kwenchy Kups, al limite della schizofrenia, sembrano una degustazione di parole e ricordi, così come la seguente Driver’s Story.
La chitarra di Tom Dowse si lancia nel funky in Hot Penny Day, mentre viene affrontato il tema amoroso per la prima volta. La perfida metafora qui sta nell’accostare i rapporti umani al penny day, tradizione antichissima del South Devon, dove le famiglie ricche si divertivano a lanciare dalle finestre monete arroventate. Lo spasso nell’osservare i poveracci che si ammassavano ustionandosi le mani pare fosse ineguagliabile. Così sarà l’amore? Chi può dirlo. Intento si tratta si spazi vuoti e di conti correnti a rischio. E galleggiamo ancora sui temi della superficialità e della solitudine.
Stumpwork, title track da metà tracklist, entra sottopelle con un ritmo lento e cadenzato, un elegante dialogo tra sezione ritmiche e chitarre, una Shaw che quasi canta e una serie di immagini evocate senza filo logico, sembrano incipit di dialogo, approcci da aperitivo, fotogrammi di un cortometraggio in bianco e nero, pezzi di sogno che riemergono tornando a letto. 

E mentre guido sento musica e parole sempre più intrecciate alla notte, ai chilometri. Anche se non riescono a descrivere qualcosa mettendolo a fuoco, in bocca si sente un gusto preciso, nelle orecchie ho la batteria di Nick Buxton, nel diaframma il basso di Lewis Maynard, mentre le parole delle canzoni, come piccole magie, evocano ricordi, scene, fantasmagorie. 

No Decent Shoes for Rain è un picco altissimo. Forse la parte in cui i Dry Cleaning trovano davvero l’insieme perfetto e pretendono tutta l’attenzione dell’ascoltatore. L’amore ai tempi dello shopping compulsivo, delle relazioni via webcam in cui è più facile vedere il culo di qualcuno prima della bocca. Lockdown senza tempo, di nuovo, autoindotti, permanenti, elevati da riff sporchi, lo-fi, slow-core.
E di nuovo la superficialità in Don’t Press Me, in cui un mouse da gioco è questione di litigio. Il tutto rinchiuso in 1’50’’ in cui sembrano scendere in campo i Sonic Youth al completo. 

Io guido, ma inizio ad avere un sorriso di traverso dipinto in faccia.

Micotico. Sporco. Etereo. Un basso con note lunghe e presenti in Conservative Hell, il cui titolo è programmatico. Liberty Log è un altro piccolo capolavoro. Siamo di nuovo in una stanza, siamo di nuovo alla solitudine. Qui però parole e musica si rincorrono, prima in linea retta, poi in circolo che diventa presto una trappola, un loop, di immagini e di note. È una meta-canzone che canta con un trucco da poco del registro delle libertà, che non esiste, che non c’è, che non vogliamo, che non meritiamo. Il tutto strizzando l’occhiolino ai Radiohead.
E tutto termina con un colpo di scena: Icebergs chiude l’album, che a sua volta ci lascia un messaggio (quasi) di speranza: 

“For a happy and exciting life
Locally, nationwide or worldwide
Stay interested in the world around you
Keep the curiosity of a child if you can
Resuscitator”

“Mo’ me lo segno”, aspetta che accosto.
Finiti i lockdown rischiamo comunque di “vedere prima il culo di una bocca” e di ritrovarci chiusi in casa e/o in noi stessi. Collezioniamo viaggi senza passione, abbiamo reso lo shopping una terapia. L’immagine che abbiamo di noi, una volta usciti dalle nostre caverne, è distorta. Così questo è un disco di disequilibri, storto e sghembo, con una dialettica interna tra tappeto sonoro e il recitato. È una lunga poesia musicata, uno sprechgesang e un responso di sibilla, impresso su instax mischiate a caso. 

Sono innamorato di Florence Shaw, delle sue fricative e dentali, al limite dell’ASMR. Mi ha fulminato con parole legate in analogie. I Dry Cleaning mi hanno trascinato nella buca del Bianconiglio, galleria laterale, dove un’Alice è chiusa in una stanza davanti a una webcam e il cappellaio compra online bustine di tè. 

Un album da ascoltare sempre. Che poi è il valore vero di un album che merita: il ritornarci, o il volerci ritornare. Come un buon libro, come un posto che ci stimola.
Ecco. Forse è lo stimolo il valore aggiunto in questo lavoro. Davvero eccezionale.

Il mio premio è un cielo stellato come quelli da lockdown.
Fa fresco.
Perché ho smesso di fumare?
Torno, vediamo se verso casa questo album cambia senso anche lui.

 

Dry Cleaning
Stumpwork
4AD

 

Andrea Riscossa

Pixies “Doggerel” (BMG, 2022)

Il gioco perverso della storia propone e ripropone duelli infiniti.
Nella Provenza del XII secolo infuriava il derby tra i rappresentanti del trobar clus, forma allegorica, chiusa, fottutamente indie, e i piacioni del trobar ric, una sorta di brit pop ma coi testi di Biagio Antonacci, che in Italia (derivativi già allora) sfociò nel movimento degli stilnovisti.
I bei tenebrosi vs. i cantori d’amore. Testi iniziatici, metafore appena accennate vs. spiegoni sulla beltà. 

Il dualismo sopracitato ha percorso secoli di letteratura e arti varie e sembra continuare a vivere felice nella meccanica dei Pixies, in cui i testi vengono serviti con abbondanti asterischi e le linee melodiche partono dal punk e terminano in territori ibridi, in questo disco particolarmente antitetici, tra Morricone e gli Who, tra un Neil Young e Beatles.

I Pixies sono inaccessibili, sfocati, un gomitolo di generi e attitudini eppure un loro disco ha una filigrana perfettamente riconoscibile. Sarà per il basso e la voce di Paz Lenchantin, che da anni ha sostituito Kim Deal, o per le ritmiche di David Lovering, sarà per il graffio alla chitarra di Joey Santiago o per la perversa, geniale voce (e penna) di Black Francis.
Quest’ultimo ha presentato ai colleghi qualcosa come quaranta pezzi pronti e impacchettati, che sono stati rivisti e scremati negli studi in Massachusetts, con il produttore Tom Dalgety in cabina di regia.

Dal giorno della loro reunion questo è il disco migliore. Partiamo da questo punto.

Il precedente Beneath The Eyrie aveva trovato un nuovo territorio in cui far sfogare i quattro folletti: un rock “creepy”, gotico e fantasmatico, popolato di strane creature e che portava atmosfere da film horror di serie B, condito con surfisti morti e strani pesci gatto. Sembrava un disco “di maniera”, invece era evidentemente un passaggio, una visione laterale che non viene scartata dai Pixies: la prima parte del loro nuovo album riprende temi e stilemi del precedente lavoro. Siamo in zona conosciuta, siamo nella terza parte del vecchio disco. O forse no, perché strani echi iniziano a vagare per il disco, piccoli fantasmi di note che si aggiungono a quelli evocati nei testi: Dregs of the Wine evoca gli Who con una certa precisione, emerge qualcosa dei Beatles in Pagan Man, sfiorano il folk rock quando la chitarra acustica diventa protagonista, arrivano a ricordare i Weezer in Get Simulated, testo geniale in cui una intelligenza artificiale esalta la propria immortalità lamentando mancanza di contatto fisico. Sono proprio i testi a far la differenza, a segnare una tacca verso l’alto nella scala di valutazione dell’album: è un disco di anime perse, di metafore nascoste, di fantasmi, di vinti, come il protagonista di Vault of Heaven, perso in una canzone mariachi e in un 7Eleven che è un portale verso il nulla. È un disco che piacerebbe a Tim Burton e a tutti i suoi personaggi. Canta di loro, passando dal folk-pop al noir-indie. C’è surf music, alt-pop, qualcosa di grunge old-school e poi ho finito le etichette, perché alla fine è semplicemente un disco dei Pixies, che i generi li attraversano con una discreta semplicità. 

La title-track che – colpo di scena – chiude il disco è l’apice del nuovo lavoro: il testo sembra scritto da un Ungaretti con fini iniziatici mentre la parte musicale scivola su un tappeto sonoro elegante e quasi edibile. 

Riassunto: prima parte vicino all’ultimo lavoro, seconda parte del disco esplora nuovi ambienti, coi piedi ben saldi nella follia dei folletti. E alla fine ci si accorge di aver ascoltato un bel disco, nonostante lo stupido assioma che prevede la noia crescere parallelamente al numero di album pubblicati. 

E invece, ottavo disco dei Pixies, promosso.

 

Pixies
Doggerel
BMG

 

Andrea Riscossa

Turin Brakes “Wide-Eyed Nowhere” (Cooking Vinyl, 2022)

Si intitola Wide-Eyed Nowhere il nono lavoro in studio dei Turin Brakes.
Scritto in epoca pre-pandemica, è stato registrato nello studio di casa di Olly Knights.
La band racconta di un disco nato di parto naturale, nel giardino dove la band si ritrova spesso per improvvisare. Bambini che scorrazzano, qualche accordo, il sole di Londra (?), in questa atmosfera rilassata i Turin Brakes hanno dilatato tempo e serenità, si sono abbandonati a una malinconia più dolce che amara e gli è scappato un disco. 

Disco che inizia con When You’re Around, una canzone fatta di atmosfere rarefatte, ma ritmate, sussurrate e dondolanti quasi R&B.
Up For Grabs segue questa linea. westcoastissima, al limite del patinato, tra cori-tormentone e un uso criminale di percussioni esotiche. Siamo lontani dagli ultimi lavori dei Turin Brakes, se sia cosa buona o no dipende dai gusti personali.
Si ritorna, invece, a casa con il terzo brano, World Like That, primo singolo del disco. Qui tornano arpeggi e una costruzione più tipiche dei nostri, anche se rimane un senso di fondo di artificiale, soprattutto nelle ritmiche, forse troppo lineari e ripetitive. Anzi, ridondanti.
Into The Sun esplora l’ennesima variatio sul tema del disco, aggiungendo un momento mistico, con voci raddoppiate, triplicate, viaggiando verso una lisergicità appena accennata, quasi un’eco. All’ingresso della batteria questa punta di novità si perde, rientrando in canoni più classici.
The Ride nulla aggiunge a quanto sentito, mentre Isolation sembra scuotere un po’ il ritmo del disco, aumentando i bpm, ma senza mai esagerare. Un pò b-side dei Kings Of Leon, il classico pezzo che farebbe inconsapevolmente battere la mano sul volante, in piena tangenziale, in coda, lunedì mattina. Uno sprazzo di Nevada nella nebbia.
This Love vanta l’unica cassa non-dritta dell’intero album, ma riesce anche nell’arduo compito di non avere un solo cambio di ritmo in quasi quattro minuti. Risultato finale: nessuno.
Rain And Hurricanes scivola via senza scossoni, Solid Ground promette di essere una ballad piacevole, ma non sale mai lo scalino e rimane piuttosto anonima.
Wide-Eyed Nowhere è forse il pezzo più interessante dell’album, un crescendo che si porta dentro tutte le sfumature della band. Un po’ un accento che cambia il senso al disco proprio sull’ultima sillaba. 
No Rainbow inizia con chitarra acustica ed effetti laser. Slide guitar ed ufo. Il pezzo che chiude l’album sembra un eastern egg della produzione, un esercizio di stile che chiude il disco senza particolari acuti. 

Wide-Eyed Nowhere è un disco che è un tappeto sonoro perfetto per una grigliata estiva, lieve brezza a centrocampo, amici e sole. Mancano le tavole da surf di Jack Johnson, manca qualcuno con un ukulele e uno sguardo da martire cristiano, ma il mood è quello lì. Serenità di sottofondo, magari un pelo ovattata, ogni tanto un picco di originalità, che però riporta al 2001, più che a un radioso e promettente futuro. 

È un disco che non verrà ricordato per aver spostato gli equilibri nella discografia del gruppo, né sembra aver l’intenzione di farlo. È un buon disco e i Turin Brakes sono un’ottima band, che offre una musica coerente. L’essere coerenti ventuno anni dopo il primo album però mette un po’ alla prova l’amore verso di loro. Diciamo che adesso è più affetto. 

 

Turin Brakes
Wide-Eyed Nowhere
Cooking Vinyl

 

Andrea Riscossa

TOdays Festival 2022 • Day 3

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sPAZIO211 (Torino) // 28 Agosto 2022

 

PRIMAL SCREAM

YARD ACT

DIIV

ARAB STRAP

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Il terzo giorno dei TOdays ha come protagonista la lineup. Un meraviglioso dessert, per completare l’indigestione, nomi da festival internazionale, nelle stesse sei ore.
Siamo infatti al primo sold-out dei tre giorni, ma era inevitabile.
Iniziano gli Arab Strap, ovvero l’unica coppia che si sia riunita in tempi di pandemia, per altro dopo quindici anni di separazione. Aidan Moffat e Malcolm Middleton sul palco sono un polo magnetico, creano musica, atmosfera, racconto, conto e caffè, grazie. La loro esibizione galleggia sull’elegante tappeto sonoro creato da Middleton sui cui Moffat recita e canta i suoi testi. Hanno iniziato nel 1995, e si vede. Soprattutto si sente. Monolitici. 

Il secondo, golosissimo, nome sul cartellone sono i DIIV, in tour per presentare l’ultimo lavoro, Deceiver, un disco che racconta la rinascita, o, forse, data la storia personale del cantante Zachary Cole Smith, siamo davanti a una resurrezione. L’album è stato registrato a Los Angeles e prodotto da Sonny Diperri (Nine Inch Nails, My Bloody Valentine).
Suonano ben tredici brani, trascinandoci tutti in un universo parallelo di dream pop e shoegaze, quasi patinato, a volte invece sporco e graffiato a ricordare certi momenti lirici di Corgan e soci.
Ciondolano i giovani.
Ciondolano i cinquantenni.
Ciondola il meteo (di nuovo).
E ciondola Torino da tre giorni.
È un set di altissimo livello, di maniera ma sorprendente, e alza tantissimo l’asticella della serata.

Asticella che faticano a superare gli Yard Act, terza band in lista. Erano attesi, attesissimi, e il loro live, al netto di tutto è stato buono. Dodici pezzi, dieci da The Overload, la super hit eponima che ha fatto ballare lo sPAZIO211 in toto, tutto ben eseguito anche se con qualche ma. Ho colto sfumature che nell’album non avevo colto e che hanno increspato il mio nasone. Era come se un rumore di fondo dei Franz Ferdinand si fosse incastrato nel mixer, cambiando d’accento l’intero album. Che rimane un disco di altissimo valore, sia chiaro.
“What an amazing lineup” chiosa il cantante James Smith, ricordandoci che la serata deve ancora vivere quello che tutti attendono come l’evento del TOdays 2022: i Primal Scream che ci ripropongono Screamdelica. 

Sul palco sale una leggenda vivente, Bobby Gillespie, fasciato in un sobrio completo che riprende la copertina di un’altra leggenda: l’album Screamadelica, uscito nel 1991 e di cui avremmo dovuto festeggiare il trentennale. L’odioso condizionale è lì a ricordarmi e a riportare alle cronache che la band inglese, del glorioso album, ha suonato due pezzi, il secondo dei quali nell’unico brano dell’encore. Niente full album. Hanno suonato un’ora, titoli di coda compresi, e ci hanno lasciato con il cuore infranto e senza limoncello.

Però.

Però alla fine ho sentito un set dei Primal Scream. Ho visto Gillespie. Movin’ on Up l’hanno suonata, torno a casa pure asciutto. Non sarà questo dispetto in zona cesarini a rovinare la tre giorni. La lineup della terza sera entra nella lista dei concerti torinesi da ricordare, vicino a quelli, pieni di mitologia, degli anni novanta. Perché Torino, in questo ultimo week end di agosto aveva un po’ quel sapore di una volta, di capitale inconsapevole di un movimento un po’ indie un po’ sabaudo, di piccolo centro magnetico per band che poi avrebbero segnato un’epoca. In fondo, al netto degli streaming, dei social, dei telefoni sempre più verticali, quello che conta è sempre e solo quello che accade sul palco e lì sopra la musica viene giudicata, goduta, ammirata, assaggiata. L’opera d’arte nell’epoca della sua instagrammabilità, ha valore quando vive nel momento del live. Segnare. 

Fine del festival, torno a casa e metto su Screamadelica.
In tasca quattro token.
Scarpe da lavare, polpacci di ghisa.
Ma ho ancora i bassi che saltellano sul diaframma.

 

Andrea Riscossa

foto di Ilenia Arangiaro

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TOdays Festival 2022

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 Torino // 26-28 Agosto 2022

 

[/vc_column_text][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Ci sono momenti in cui Torino sa essere un luogo affascinante e sembra essere qualcosa di diverso dallo stereotipo di città post-industriale, senza identità, perennemente a un bivio.
Ci sono momenti in cui sembra decisa, sicura e accogliente, come se da sempre sapesse mettere la musica al centro di un progetto e far sì che tutto il resto funzioni per osmosi. 
Il TOdays Festival è giunto alla settima edizione, e punta diritto verso una maturità anticipata ma meritatissima. Il progetto è organizzato dalla Città di Torino, ed è un punto fondamentale, perché slega l’organizzazione dalle dinamiche tipiche di un festival: grandi nomi, grande venue, massimizzare il profitto. Nel corso degli anni si è lavorato per creare un’immagine di qualità, più che di quantità, e, come accade nelle favole moderne, l’investimento viene ripagato. Le lineup dei tre giorni hanno attirato pubblico da tutta Italia e dall’estero, tanto che ho sentito francesi parlare napoletano (il contrario sarebbe stato banale, suvvia), e ho conosciuto chi da Londra è giunto in città inseguendo qualche amatissima band (e chi se non per i Black Country New Road?).

I TOdays non sono solo musica. Ci sono state una quarantina di attività in cartellone, oltre alla proposta serale di musica presso lo sPAZIO211, presso l’ex fabbrica INCET. Entrambi i luoghi si trovano nella periferia di Torino, segno dell’attenzione riposta nella scelta di dove collocare, fisicamente, un momento così importante di apertura al mondo.
E apertura, movimento, fluidità, sono state parole chiave della tre giorni.

Breve pagella non richiesta prima del racconto delle serate:
Voto dieci all’atmosfera: tutti rilassati e con voglia di divertirsi, l’ultima sera di concerti si è chiusa con i Primal Scream sul palco e gli Arab Strap tra il pubblico a bere birrette. Accadde a Torino.
Voto nove alle lineup. Sono state sicuramente un richiamo per molti, considerando le undici esclusive nazionali. Insomma, o ai TOdays o aereo.
Voto otto al meteo, che regala in tre giorni l’esperienza della stagione secca e dei monsoni, che produce coreografie gratuite ai Molchat Doma, e che fa ballare sotto la pioggia.
Voto sette per i suoni, i volumi, e insomma, si è sentito bene e tutto, anche l’ottavino.
Voto sei per il cibo. Ma era tutto così rilassato che anche i token non mi sono sembrati token. Almeno non fino a lunedì mattina, quando sono usciti dalle tasche, maledetti.
Voto cinque, ed unica insufficienza, per i Primal Scream, ma andiamo con ordine…

…continua a leggere aprendo le pagine delle singole giornate!

Andrea Riscossa

Foto di Roberto Mazza Antonov (day 1+2) e Ilenia Arangiaro (day 3)[/vc_column_text][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435921124{margin-top: 20px !important;margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

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• Day 1 •

26 Agosto 2022

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• Day 2 •

27 Agosto 2022

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• Day 3 •

28 Agosto 2022

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[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a TOdays Festival[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

TOdays Festival 2022 • Day 2

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sPAZIO211 (Torino) // 27 Agosto 2022

 

FKJ

MOLCHAT DOMA

LOS BITCHOS

SQUID

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]La seconda serata del TOdays inizia con una piacevole sorpresa. Gli Squid riescono in quindici minuti a richiamare il pubblico sotto il palco, a farlo ciondolare prima, saltellare poi e pogare infine. Fidatevi, dato l’alto numero di austeri sabaudi presenti, riuscire a sciogliere così le genti non è da tutti.
I cinque ragazzi di Brighton sono saliti sul mio personalissimo podio, senza scendere dalla prima posizione. Uno show senza momenti di calo, divertente, equilibrato tra il ben suonato e il buon delirio, con un cantante/batterista che sa essere piuma e sa essere fero, e del resto non è un caso se BBC Radio se li coccola, se KEXP li ha già invitati un anno fa e se la critica ha finito le metafore e le iperboli. Davvero eccellenti ed inaspettati.

Poi ci sono un’australiana, una uruguaiana, una svedese e un’inglese. Quella che potrebbe sembrare l’inizio di una (brutta) barzelletta è invece il quadro delle provenienze delle Los Bitchos, seconda band in cartello. Ancora più affascinante sarebbe elencare la lista delle influenze musicali o, ancora meglio, delle sfumature che si possono cogliere nel loro set. Come in una gara di degustazione di barolo ma coi frizzipazzi sotto la lingua, ho colto, nell’ordine: base di cumbia, anni settanta, condita con surf music, un pizzico di dream pop, a volte solo pop, una spolverata di punk, cadenze metal, follia e gioia Q.B..
Tutto questo, già al loro primo live di qualche anno fa, fece innamorare della loro musica un certo Alex Kapranos, noto ai più come leader dei Franz Ferdinand, che da quel giorno diventa il loro produttore.
Che dire di più. Divertenti, sicuramente originali, forse un po’ ripetitive, nonostante la mole di influenze citate.

Terzo gruppo in cartellone, i Molčat Doma, che giustificano la presenza di giovini vampiri new-goth a bersi una birra vicino a me.
Mentre si avvicina un temporale di biblica memoria, mi sovvengono i Subsonica, quando inneggiavano al Cielo su Torino. In questo caso è al fianco del gruppo bielorusso, creando un’atmosfera di gioioso Ragnarǫk, tra lampi e un sound che è un inno alla darkwave, alla coldwave, insomma quel piglio lì. I tre di Minsk devono la loro gloria ai social, in particolare a TikTok, che li ha portati dritti al successo negli USA. Il loro primo singolo, Sudno (Boris Rizhy), solo su Spotify conta qualcosa come 163 milioni di streaming.
Il loro live è coerente con immagine e cornice, non esce mai dai binari del genere sopracitato (tanto che omaggiano direttamente The Cure in una intro, citando A Forest) e svolge il suo compito, seppur in cirillico. 

A chiudere la serata ci pensa FKJ, acronimo French Kiwi Juice, e al secolo Vincent Fenton. 
Il palco viene trasformato in un salotto, con tanto di divano e luci soffuse. Pianoforte, batteria, chitarra, un sax e poco altro di analogico. Il polistrumentista francese ha un approccio simile a Tash Sultana, ma punta più sulla qualità e sul minimalismo, lo spettacolo è più intimista e meno di impatto. Ha raggiunto i due miliardi di streaming e ha collezionato un numero di live impressionante, compresi Coachella e Lollapalooza. Suona diversi generi, dalla french house al nu jazz, ma incasellare la sua musica in un solo genere o corrente è un esercizio vano.
Il suo live è stato funestato da una tempesta tropicale che ha lentamente spostato il pubblico verso zone riparate. Per i pochi eroici spettatori FKJ ha comunque portato a termine il suo show, dispiace non averlo applaudito fino all’ultima nota.

Fine della seconda serata, siamo zuppi ma salvi in auto.
In tasca due token.
Scarpe fradice e morale alto.
Molto, molto bene. 

 

Andrea Riscossa

foto di Roberto Mazza Antonov

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TOdays Festival 2022 • Day 1

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sPAZIO211 (Torino) // 26 Agosto 2022

 

TASH SULTANA

BLACK COUNTRY, NEW ROAD

HURRAY FOR THE RIFF RAFF

ELI SMART

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Il compito di rompere il ghiaccio e dare inizio alla festa spetta a Eli Smart, giovane cantautore di origine hawaiana, trapiantato in quel di Liverpool e seguito dalla stessa etichetta di Arlo Parks. Il mix piuttosto ardito produce quello che lo stesso artista definisce “Aloha Soul”.
Sul palco c’è una band di ragazzi capaci e che si divertono, con un sound sicuramente figlio di contaminazioni lontane, ma che alla fine, al netto di tutto, fa semplicemente ballare il pubblico sotto palco con una proposta fresca, di facile ascolto e piacevole. Insomma, uno spritz per iniziare va più che bene.
Da registrare il fatto che il bassista sembri il figlio segreto di Jack Black, cosa che, inevitabilmente, lo fa diventare subito un idolo assoluto.
Si metta agli atti anche il fatto che l’intera band, finito lo show, è scesa tra il pubblico e ha partecipato e ballato fino all’ultima canzone dell’ultimo gruppo. 

Con Hurray For the Riff Raff si cambia registro. La seconda band della prima serata alza l’asticella, ma era previsto. Alynda Segarra sembra una giovane Patti Smith, per presenza e padronanza dei testi. Le sue radici portoricane e newyorchesi si fondono in un mix che spazia dal folk al (quasi) raggaeton. Sugli scudi il bassista che suona con un dito il basso, con la mano destra le tastiere e si diletta nei cori, il tutto contemporaneamente. Sfatato pubblicamente il dramma del multitasking maschile.
Son stati una piacevole sorpresa, soprattutto dopo averli visti dal vivo. 

Ora, sappiate voi che leggete che il sottoscritto era sottopalco soprattutto per il terzo nome in cartellone, i Black Country, New Road, orfani di Isaac Wood.
La setlist del collettivo è composta da brani mai registrati e nulla, quindi, proviene dai due dischi precedenti, For the First Time e Ants From Up There.
I nostri però non deludono. In riga, spalmati sul palco come improbabili personaggi di una inquadratura di un film di Wes Anderson, danno vita a quanto di più vicino a un klezmer jazzato minimalista post-qualcosa. Per quanto questa definizione abbia senso. Si susseguono dialoghi senza regole tra strumenti, che diventano attori di un racconto e che entrano in scena con urgenza, per mostrare un punto di vista, a costo di farlo fuori tempo. Un Satie con la sindrome di Tourette.

A chiudere segue Tash Sultana, il live più atteso dal pubblico della serata, quello anagraficamente più giovane dell’intero festival. Del resto la giovane polistrumentista australiana ha una storia tutta social, talento e streaming a grandine. Nasce come artista di strada, nel 2016 pubblica su youtube il singolo Jungle. In cinque giorni arriva al milione di visualizzazioni (ora ne conta 149 milioni, è ancora online). Nel 2016 crea la sua etichetta indipendente Lonely Lands Records e pubblica il primo EP, Notion. Seguono tour, fama mondiale, due dischi.
Sul palco di Torino Tash suona tutto quello che le passa vicino. Dalla chitarra al flauto, dalle percussioni al sax. Si auto-campiona con la loop station, crea e costruisce il pezzo davanti al pubblico, poi improvvisa. La prima parte dello show è una dimostrazione muscolare di talento. Non c’è autotune, sono brandelli di bravura analogica che passano per la loop station e che riverberano e amplificano, diventano subacquei, perdendosi in lunghissimi assoli.
È padrona del palco, nonostante la giovane età e le dimensioni ridotte. Un piccolo punto di fuga lassù, sul palco, in perenne movimento e urgenza creativa.

Finita la prima serata, abbiamo orecchie sazie e gambe molli.
In tasca tre token.
Scarpe distrutte e polvere nei denti.
Benissimo.

 

Andrea Riscossa

foto di Roberto Mazza Antonov

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