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Tre Domande a: The Doormen

Come e quando è nato questo progetto?

Il nome The Doormen è stato rubato da una canzone degli Stereophonics una delle band preferite del nostro primo batterista e correva l’anno 2011 se non sbaglio. La formazione è la classica composta da quattro elementi (voce, chitarra, basso e batteria) anche se attualmente il nuovo disco è stato composto e suonato in due. Ci siamo incontrati nei posti dove si poteva fruire della musica, ai concerti, nei club e nelle sale prove. Abbiamo più o meno tutti lo stesso stile e background musicale che nel corso degli anni si è plasmato ed evoluto durante i quali le esperienze e le vicissitudini sono state numerose, sia dal punto di vista umano che artistico. Lo stare insieme e condividere ad esempio lo stesso furgone per andare in tour, suonare le nostre canzoni in giro sia in Italia che all’estero (Francia, UK) ha fatto sì che potessimo fruire di tutto ciò che ci circondava e trasformarlo in esperienza con il vantaggio di godere allo stesso sia della velocità di quando succedevano le cose e allo stesso tempo rimanere fermi per assaporare e godersi l’intero processo. Ascoltando le nostre prime produzioni possiamo dire che il nostro stile riconduce senz’altro al post-punk degli anni ’80 per poi passare al brit pop degli anni ’90 con qualche sfumatura shoegaze in certe canzoni.

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Senza ombra di dubbio sceglieremmo Glass Factory il primo singolo estratto dal nuovo disco The Truth in a Dark Age uscito lo scorso 5 Maggio su tutte le piattaforme digitali.
Il brano è nato in piena pandemia da un riff di chitarra suonato con il chorus. Il primo approccio è stato quello di creare quel suono sfasato e liquido per poi adattarlo alla traccia di batteria e basso che avevamo in mente. Una progressione di accordi veloce ma allo stesso tempo lenta come se il tempo si fermasse d’improvviso per poi ripartire.
Glass Factory non è altro che una metafora sul rapporto di coppia dove una delle parti ad un certo punto è costretto a prendere una decisione se andare avanti oppure no e per farlo è costretto a trasformarsi in un topo per riuscire ad adattarsi e a districarsi in quel labirinto che è la vita di coppia oppure rimanere un elefante che con le sue movenze e incurante di quello che trova sul suo percorso rischia di distruggere tutto.

 

C’è un evento, un festival – italiano o internazionale -–in particolare a cui vi piacerebbe partecipare?

Uno dei nostri sogni sarebbe suonare al Glastonbury Festival in UK, sono anni che ci proviamo facendo application ma la direzione artistica del festival sceglie solamente band UK. Speriamo che in futuro si presentino altre strade per poterci arrivare ma una cosa è certa, mai mollare.

Tre Domande a: CATE

Cosa vorresti far arrivare a chi vi ascolta?

Emozioni, sia “belle” che “brutte”, se così sono definibili. Vorrei riuscire a far star malissimo chi ascolta brani come Stracci e La mia generazione, ma, soprattutto nel secondo caso, anche far riflettere chi non ha mai vissuto certe cose e accendere una lucina in fondo al tunnel a chi invece le sta vivendo. Far capire che non si è mai soli. Condividere il dolore. E condividere la gioia, l’amore. SMN ha la capacità di far rivivere a me in primis l’emozione fortissima che provavo prima di vedere la persona che amavo (nel mio caso in stazione) e spero che chi l’ascolta riesca a percepire almeno in parte quell’adrenalina e quella voglia di vivere che solo l’amore, secondo me, riesce a far provare. 

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Tra quelle uscite finora, sicuramente Manchi Tu, perché è la prima che ho scritto, e nonostante sia passato tanto tempo, quattro anni, è quella da cui è nato tutto. Anche per la scelta di pubblicarla piano e voce, che poi è come scrivo la maggiorparte delle volte. Mi ci sento più vera, più nuda, più io, nonostante la mia scrittura sia abbastanza diversa adesso. È la base, le fondamenta della persona e dell’artista che sono oggi. 

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro?

La mia musica in realtà è nata sui social. Quando a 14 anni ho scritto la mia prima canzone, Manchi Tu, avevo una fanpage su Ultimo su instagram con un discreto seguito, su cui facevo spesso delle live in cui cantavo e suonavo le sue canzoni. Poi una volta provai a fare, appunto, Manchi Tu, e piacque molto. Da allora fino a quando non ho abbandonato quella pagina, ho sempre cantato e suonato i miei pezzi in live, è stato il mio primo pubblico. Tuttavia, non sono molto social. TikTok non lo so usare, sto iniziando adesso a fare qualcosina ma mi sento molto stupida. Instagram lo uso più per raccontare e condividere che per farmi conoscere. Per quello, parlo con la gente per strada e canto in giro. Letteralmente, fermo i passanti. Se fatto con un minimo di cervello e gentilezza, lo trovo molto carino, mi ha permesso di conoscere un sacco di persone interessanti e di ricevere dei feedback molto diversi. Non capisco quando e perché le persone abbiano smesso di parlarsi (ma questo è un altro discorso). Comunque, per quanto secondo me i social siano il mezzo più potente che abbiamo iniziato questo periodo storico, continuo a preferire la strada.

Tre Domande a: Orlvndo

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Con Ad Maiora, il mio primo disco e il secondo capitolo del trittico Ad Hoc, Ad Maiora, Ad Astra, ho raccontato una parte della mia vita con tutta la verità possibile. Il disco è come un romanzo che racconta il cambiamento dalla fanciullezza all’età adulta, un percorso, per me, decisamente complicato. Ho avuto paura. Nelle canzoni c’era troppa vita senza filtri, e un po’ bisogna proteggersi.
Perché l’ho fatto?
La verità è l’unica entità che avvicina tutte le persone, siamo tutti concentrati a nasconderla, ma le nostre vite sono molto più simili di quanto si pensi. Il dolore è uguale per tutti, la felicità pure. Il messaggio che voglio mandare con questo disco è molto chiaro: siate irresponsabilmente voi. Questo per me significa andare verso cose più grandi.

 

Progetti futuri? 

Dopo Ad Maiora, ci sarà Ad Astra. Non riesco a spiegarvi bene come sarà il progetto e cosa arriverà, devo viverlo prima.
Ci rivedremo al prossimo capitolo.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

La cosa che amo fare di più della musica è la dimensione che si crea durante i concerti. Capisco che la strada è quella giusta. Ai concerti cantiamo le canzoni guardandoci dritti negli occhi, sento come se appartenessi a loro. Voglio bene ad ogni persona che mi ascolta come se fossimo fratelli. Il 26 aprile al Mosso a Milano faremo il primo concerto full band. Sarà una grande festa.

Tre Domande a: I Boschi Bruciano

Come e quando è nato questo progetto?

Spiegare come e quando nascono I Boschi Bruciano è una domanda più difficile di quel che può sembrare. Sostanzialmente questa band è nata tre volte ed è morta due. Noi fratelli Brero abbiamo sempre voluto suonare in un gruppo rock e cantare in italiano. Da ragazzini affascinati dai Ministri e i Fask, dai loro live all Hiroshima di Torino e dal pogo selvaggio decidiamo di provarci. Nel 2016 conosciamo Giulio Morra che diventerà la nostra chitarra solista. Facciamo la prima prova la vigilia di Natale dello stesso anno. Nel 2017 incontriamo Luca Mauro e fondiamo la band ma allora decidiamo di chiamarci Qwercia. Dopo un annetto di concerti nel Nord Italia Luca abbandona il progetto e al suo posto al basso e le tastiere subentra Maurizio Audisio ed è con lui che nel 2018 cambiamo il nome in I Boschi Bruciano. Con questa formazione incidiamo il nostro primo disco Ci Pesava che esce nell’autunno 2019 ma a causa dell’emergenza pandemica del 2020 la maggior parte del nostro tour viene annullato. Scoraggiati dalla situazione Maurizio e Giulio lasciano la band per dedicarsi ai loro studi e nell’estate 2020 decidiamo di continuare da soli in formazione power duo.

 

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il vostro modo di fare musica o a cui vi ispirate?

Ce ne sono tanti, tutti ci hanno ispirato in un modo o nell’altro nella creazione del nostro nuovo album Riserve, ascoltiamo una media di quattro ore di musica al giorno! Ma i nostri maestri negli ultimi tempi sono stati: Nothing But Thieves, Cleopatrick, Death From Above 1979, Japandroids, Two Feet, Reignwolf, Royal Blood e Grandson.

 

Qual è la cosa che amate di più del fare musica?

Forse la cosa che amiamo di più del far musica è il far musica! È un’esperienza completa fatta di tanti aspetti, di gioie e soprattutto di sfide collegate tra loro.
È uno stile di vita, una filosofia, una costante lotta tra te, la tua mente e il mondo.
È incredibile come riesca ad unire la passione per il “nerdismo”, l’isolamento ed il lavoro di introspezione tipico dei momenti in cui si scrivono e registrano canzoni alla condivisione del live e all’avventura di un tour. Suonare ti fa conoscere un numero spropositato di persone, ti fa provare tutta una serie di emozioni di cui nella vita di tutti i giorni difficilmente potresti fare esperienza, ti mette nelle situazioni più assurde, ti fa sorridere, piangere, ti stanca da morire e ti da un motivo per alzarti al mattino.

Tre Domande a: Laurino

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto è nato quando ero più ragazzo, mi piaceva tanto scrivere canzoni e cercare di creare dei piccoli mondicini con la musica. Produrmi è partito da un’esigenza di creare qualcosa da zero che mi piacesse ed è partito anche dal fatto che non avessi mezzo euro per permettermi di continuare a scrivere e produrre musica in studi di registrazione di altri. Ed è stata una fortuna perché mi ha permesso ancora di più, successivamente, di mettere a fuoco le persone con cui collaborare e con cui condividere la piacevolezza e il viaggio di fare musica.
Non sarei nulla e non riuscirei a fare nulla senza le altre persone con cui collaboro, e lo dico con gioia!

 

Progetti futuri? 

Vorrei già mettermi a fare un altro disco ma voglio andare anche un po’ con calma, permettermi il lusso di poter scrivere nuova musica con un po’ di disinteresse anche perché è solo così che mi diverto e scrivo qualcosa che non fa troppo schifo.
Ho un’idea ma voglio anche lasciarmi trasportare dal flusso delle cose, non voglio controllo, voglio sentire qualcosa e basta.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

L’incontro con le altre persone, la partecipazione e allo stesso tempo l’isolamento che solo la musica può dare. Quel momento di meditazione quasi che ti esterna da tutto il resto e tutte le cazzate. Come dicevo prima amo fare musica con disinteresse, preferisco più farmi usare che usare la musica stessa.

Tre Domande a: clavco

Come e quando è nato questo progetto?

Il mio progetto clavco nasce con il mio primo singolo SOFT PORN ATMOSFERA grazie a Rebecca (rebtheprod) di talentoliquido, che mi ha messo in contatto con Mark Meccoli, produttore del pezzo. A Mark è piaciuta subito l’idea di calcare una sonorità lo-fi, con qualche aggiunta particolare fatta in corso d’opera. Diciamo che il brano subisce una vera e propria evoluzione dall’inizio alla fine. Niente di tutto ciò era stato programmato, come la scelta di coinvolgere Mercvrio per il ritornello: il suo timbro si sposava perfettamente con il mood del pezzo. A questo punto il gioco era fatto, tra un piano lo-fi, un 808 distorto e una cassa dritta, dove il caldo incontra la pelle e il vento scalfisce le labbra, prende vita SOFT PORN ATMOSFERA.

 

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il tuo modo di fare musica o a cui ti ispiri?

A livello musicale ammiro i lavori di Lausse the Cat, artista inglese non molto ascoltato in Italia, penso sia estremamente innovativo nonostante la semplicità dei suoni. Tra gli artisti italiani, Franco 126 e Mattak (è svizzero ma scrive in italiano) sono sicuramente dei punti di riferimento importanti: il primo per come descrive gli scenari nei suoi brani e per l’estetica delle parole che usa, il secondo per gli argomenti che tratta e per la cura della metrica nei suoi testi. A quest’ultimo sono particolarmente affezionato per il suo modo di fare musica, ed è probabilmente quello che in primis mi ha fatto avvicinare alla scrittura. 

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

A chi mi ascolta vorrei far arrivare pezzi di me, anche se in maniera un po’ celata. Nei miei testi racconto quello che mi succede, ma anche situazioni che vivo dall’esterno. Nella maggior parte dei casi, prendo un’emozione o una sensazione che provo in un determinato momento e la esaspero al massimo. È una cosa che faccio in automatico, penso sia terapeutico. Spero che chi ascolta la mia musica possa in qualche modo immedesimarsi in quello che dico. 

Tre Domande a: Black and Blue Radio

Come e quando è nato questo progetto?

Questo progetto è nato nel 2017. Avevo realizzato delle demo in precedenza, senza mai però andare fino in fondo. Nell’estate del 2017 in preda a una sorta di crisi personale, sono partito andando un mese da solo a New York. Era la mia prima volta in America e tutto quel tempo in solitaria mi ha permesso di conoscere tanta gente, raccogliere storie e fare un punto personale della situazione. Avevo in mente la realizzazione di un EP ma non pensavo potesse interessare a nessuno. Alla fine interessava a me. E quello bastava. Tornato da New York sono entrato in sala a registrare. Non avevo aspettative, solo voglia di suonare, scrivere, fare. Realizzai Out Of Time, un EP che portava per la prima volta il nome di Black And Blue Radio. Questo EP fu realizzato a Torino e ci divertimmo tantissimo, sia a registrarlo che a suonarlo dal vivo. Nel video di Untitled Black And Blues si trova lo spirito di questo lavoro. Mentre il primo singolo Monsters fu preso in anteprima dal sito della rivista Rollingstone. Per me una sorta di medaglia al valore. Lo so, è esagerato, ma fu davvero un bel riconoscimento. Fu tutto molto difficile, non arrivarono risultati concreti ma per fortuna non mi tirai indietro e arrivai fino in fondo. E da lì, Black And Blue Radio è rimasta l’armatura con la quale ho deciso di andare in giro.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

In questo nuovo album, This Order, c’è una canzone che potrebbe essere una sorta di mia personalissima carta d’identità. Il brano in questione è Mirror e questa cosa l’ho pensata nel momento in cui alcuni tra amici e conoscenti, scelti random per un ascolto in anteprima, hanno reagito tutti allo stesso modo. Senza parlarsi tra loro, hanno tutti immaginato che questa fosse la canzone portante del disco non tanto per la qualità finale del brano ma per il modo in cui questo arrivava e per il modo di raccontare. Il disco è stato scritto, registrato e masterizzato in tempi diversi, con musicisti diversi. E in città diverse. Da qui il titolo This Order che si rifà a una sorta di caos artistico e umano che hanno caratterizzato la realizzazione di quest’album.
Mirror è una canzone che ho scritto parecchi anni fa e, inizialmente, non doveva far rientrare nell’album in quanto troppo vecchia per farne parte. Risuonandola in un paio di occasioni, invece, ho pensato che, data la modalità di lavorazione del disco e del viaggio che volevo raccontare, poteva essere un buon pezzo di storia da raccontare. Nella fase torinese del disco Mirror fu scartata, considerata poco valida e già sentita.
Successivamente, nelle sessions romane, è stata completamente rivalutata. E per quanto forse possa suonare come un qualcosa di già sentito, rappresenta al meglio l’idea che ho di musica e di come una storia così personale vada raccontata.
Sonorità semplici, un folk tradizionale con un testo diretto e raccontato in prima persona. E quale parola meglio di Mirror poteva rappresentare una canzone così diretta?

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?

Non penso a un evento in particolare. Ma mi piacerebbe partecipare a quei festival folk/blues che si svolgono a Nashville, in modo da poter vedere in azione chi con quella roba ci è cresciuto a contatto diretto. Magari anche qualche vecchio guitar hero del posto, sarebbe fantastico. Alla fine il blues viene da lì e per imparare al meglio una materia bisogna studiarla nel posto dov’è la storia è cominciata.
So che è molto settoriale come scelta, ma credo sia fondamentale imparare e conoscere quelle che ritengo essere le mie radici. Ovviamente sarei un pesce fuor d’acqua lì in mezzo, ma vuoi mettere quanto possa essere incredibilmente formativa come esperienza?
Per rimanere più con i piedi per terra e nelle vicinanze, mi piacerebbe partecipare a qualche festival italiano per portare un sound più classico che difficilmente si sente, soprattutto in questi ultimi anni. Mi è capitato spesso di partecipare a eventi indie dove con il gruppo eravamo lasciati in coda perché non in target. E puntualmente la gente si fermava ad ascoltarci anche se eravamo gli ultimi ad esibirci. Vorrei potesse succedere lo stesso con numeri possibilmente più grandi. 

Ron Gallo “Foreground Music” (Kill Rock Stars, 2023)

“This is foreground music you don’t need a background”

Canta così Ron Gallo nel secondo brano del suo ultimo disco, Foreground Music. Un album eclettico, sfaccettato, ma soprattutto difficile da tenere in sottofondo, perché altrimenti si rischia di perdersi delle chiavi di lettura (e forse anche perché appunto, come ci dice lui stesso, un sottofondo non ci serve).

Diverse le associazioni che si possono fare ascoltandolo: ci sono vibes (passatemi l’anglicismo) che ricordano gli ultimi lavori de The 1975 per un’associazione tra testi crudi e musiche a tratti allegre; altri pezzi invece – musicalmente parlando – ricordano vagamente gli Oasis (seppur in versione 2023), in particolare Vanity March e Yucca Valley Marshalls. Ma sarebbe riduttivo limitarsi alle associazioni con altri artisti, dato che l’album spazia dai chitarroni distorti a pezzi più dance passando per sentieri più malinconici.

Dunque malinconia, ma anche tanta ironia, quando non sfocia in vero e proprio cinismo. Questo fa sì che Foreground Music si ritagli il suo spazio in quel filone di prodotti artistici tipicamente millennial di cui la serie tv Fleabag è il massimo esempio internazionale: il racconto di una vita non esaltante e un po’ miserabile che si pone l’obiettivo di distrarre ma anche di far riflettere. Emblematica in questo senso è At Least I’m Dancing, dove appunto emerge un mondo che cade a pezzi, ma almeno si può ancora ballare.

Nessun accenno di poesia, anzi, tutto il contrario: da autore indie che si rispetti, Ron Gallo propone immagini estremamente prosaiche e quotidiane, come le tasse sempre in At Least I’m Dancing o i grandi magazzini in mezzo al deserto di Yucca Valley Marshalls. Tuttavia, sono proprio queste immagini quasi mediocri a raccontare sensazioni profonde e sentimenti  potenti: rabbia, solitudine, critica alla società della performance o all’idea che agli uomini sia tutto dovuto.

Insomma, i temi sociali non si sprecano e spesso quello che racconta è in netto contrasto con le sonorità adottate, molto più allegre e ballabili. D’altronde lo stesso artista ha definito l’album “what an existential crisis would sound like if it could also be fun”.

E probabilmente ha ragione: un’ipotetica, divertente crisi esistenziale suonerebbe proprio così.

 

Ron Gallo
Foreground Music
Kill Rock Stars

 

Francesca Di Salvatore

Tre Domande a: Romeo & Drill

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto nasce nel 2019 dall’incontro tra Drill e Mr.Brux, il nostro produttore, inizialmente in occasioni remote ma creando poi con tutti e due una grande sintonia sia musicale che umana. Noi ci conosciamo da anni, viviamo nello stesso quartiere, prima di iniziare a collaborare abbiamo alle spalle entrambi una carriera da solisti ma Romeo, oltre ad essere autore, è anche musicista.
Il primo brano a cui abbiamo lavorato insieme, nell’autunno del 2019, è stato Chissenefrega e da quel momento in poi è stato un crescendo graduale fino ad oggi!

 

Se doveste riassumere la vostra musica con tre parole, quali scegliereste e perché?

La nostra musica la potremmo riassumere in queste tre parole: autentica, intima e motivante.
Usiamo questi tre aggettivi perché l’autenticità nasce dal momento in cui cerchiamo costantemente e continuamente di creare qualcosa di originale, che riconosca unicamente noi stessi; la dichiariamo intima perché cerchiamo di trasmettere intimità sia tra noi ed il brano sia nell’anima e nelle corde emotive di chi l’ascolta facendo in modo che chiunque possa sentirla propria; infine motivante per una questione passionale nei confronti della musica: vogliamo far capire a chiunque che una passione, qualunque essa sia, deve essere motivante a prescindere da come vanno le cose. 

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

A questa domanda non è facile rispondere, non abbiamo una canzone in particolare per far sì che ci conoscano meglio. Diciamo che ogni canzone è importante per conoscerci, ognuno sente emozioni e sensazioni diverse con canzoni diverse. Un brano può influenzare una persona come un altro brano può influenzarne un’altra in maniera diversa. Bisogna ascoltare ogni canzone per conoscerci bene e far in modo che ogni persona scelga il brano che reputa giusto per conoscerci. La soggettività è la parte più importante di ogni ascoltatore, troviamo chi si rispecchia di più in una canzone piuttosto che in un’altra e così via…
La bellezza di far musica è questa, farsi conoscere per ciò che le persone vogliono sentirsi dire.

Tre Domande a: Mash

Se dovessi riassumere la tua musica con tre parole, quali sceglieresti e perché?

Energica, malinconica, viola. Il primo aggettivo perché nei brani mi piace urlare le mie insicurezze e lo faccio con il supporto di una strumentale che soprattutto nei ritornelli si fa aggressivo e potente. Malinconica perché per me la malinconia è una “tristezza sfocata” e lo trovo un sentimento molto affascinante: difficile da definire, lo vedo come un senso di vaghezza, un equilibrio instabile che permea le mie canzoni. Infine, beh… la mia musica è viola: un pigmento dalla storia unica, un colore che nel tempo è stato associato alle cose più distanti tra di loro, dagli imperatori al soffitto del bordello cantato da Gino Paoli ne Il cielo in una stanza. Tra vizi e virtù, ha un alone di mistero e di sensualità che abbraccio completamente.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Voglio aiutare le persone simili a me a realizzare che il dolore è un punto di partenza, l’alba di un nuovo inizio, e che coi cattivi pensieri bisogna farci l’amore. Da adolescente mi sono trovato più volte a cercare nella musica una speranza, e fortunatamente l’ho trovata tra le note dei miei artisti preferiti. Oggi vorrei restituire ad altri cuori fragili come me ciò che la musica mi ha donato e mi regala giorno dopo giorno: ognuno di noi ha un fuoco dentro che non dobbiamo lasciar spegnere per nessuna ragione al mondo.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro? Ce n’è uno che usi più di altri?

I social sono parte essenziale del mio progetto artistico, in quanto mi permettono di raggiungere tante persone che altrimenti difficilmente verrebbero a contatto con la mia musica. Inoltre mi consentono di comunicare chi sono in modo creativo, realizzando contenuti che intrattengono e consolidano il legame con chi mi sostiene. Instagram è la piattaforma che apprezzo maggiormente perché mi dà l’opportunità di interagire a un livello più intimo e personale con chi mi segue rispetto ad altri social, e di scoprire le storie delle persone.

Tre Domande a: Nostromo

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Probabilmente sceglierei Cassetti. È un pezzo che mi rende orgoglioso, la dice lunga sul mio conto e descrive alla perfezione ciò che musicalmente mi fa stare bene. È stata scritta in un raro momento di estrema lucidità e segna una fase della mia crescita, che coincide con la volontà di fare musica più per me che per gli altri. Purtroppo oggi, per forza di cose che non sto qui ad elencare, siamo tutti un po’ vittime del giudizio altrui e questo inevitabilmente condiziona ogni scelta. Ecco, Cassetti è importante perché da lì ho iniziato a vestirmi come meglio mi stava, a scrivere come più mi piaceva e ad arrangiare come meglio mi faceva stare.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

E questa domanda ci stava a pennello. Alla fine le mie canzoni parlano di cose normali, di dubbi personali, di forti emozioni, di consapevolezze che mi fanno cambiare un po’ ogni giorno e che spesso si rivelano essere solo delle piccole delusioni. Io osservo, leggo, ascolto e come una spugna assorbo. Ogni cosa che mi circonda è tanto magica da regalarmi un nuovo punto di vista. Ciò che spero arrivi a chi mi ascolta, attraverso la semplicità delle mie parole, è che alla fine sono uno come tanti, che cerca di dare un volto a ciò che sente.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Fare musica è qualcosa di speciale: siamo giovani in cerca di identità, oggi più di ieri, perché ci insegnano che possiamo essere ciò che vogliamo ma non ci danno i mezzi per scoprirci, per conoscerci abbastanza. Fare musica per me è esserci, esistere, fissare un puntino in questa breve parentesi. Essere musicista mi ha dato uno scopo e penso basti questo per continuare a respirare.