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Tag: bartowski

Diario di una Band – Capitolo Nove

“Stare lontano da lei non si vive, restare senza di lei mi uccide”

 

Lucio Dalla

 

 

Ti affezioni a certi oggetti, a certe semplici abitudini, a certi gesti. Ti affezioni nel prendere la via dell’ordinario senza snaturare, sgretolare e inaridire giornalmente lo stimolo di fare.

Suonare uno strumento non è del tutto un gesto meccanico, nemmeno sempre un rito sacro per carità. Suonare uno strumento è un collage di situazioni, condizioni e stati mentali, correlati indissolubilmente anche allo stato fisico. Lo paragono a volte al modo in cui scendevo in campo nel mio passato calcistico. Che sia stato allenamento o partita ufficiale, ogni primo passo e ogni prima palla toccata, ogni prima giocata, sanciva il tipo di relazione mentale che avrei avuto da li alla fine dei giochi.

Cosi succede per la prima pennata sulla chitarra. Lo senti il manico, se morbido o ostile, le senti le dita della mano che scandiscono il ritmo, se seguono la linearità del vento oppure no, lo senti il feeling con lo strumento, un po’ come appoggiare l’orecchio sul petto dell’amata e sentirne il pulsare del cuore, capendo che quel frangente di tempo è perfetto cosi e nessuno te lo potrà portare via.

E penso probabilmente in maniera folle o del tutto surreale che spesso sia proprio la tua “arma” spara note a dettarti i tempi, a darti e trasmetterti quel che ti manca in corpo in quel preciso momento, un po’ come ad accompagnare lentamente la palla in rete sulla linea di porta dopo un assist al bacio di un compagno di squadra (se vogliamo ritornare nella metafora calcistica).

Hai magari fatto una partita imbarazzante fino a quel momento ma l’aver insaccato quel pallone, palesemente per meriti che ti appartengono ben poco, fa decollare il match nel corpo e nell’anima, e da quel punto la musica cambia, la scossa è arrivata, si cambia registro, arriva qualcosa a compensare il vuoto di giornata.

Ed è cosi con lo strumento quindi, capisci che ti trasmette , che ti parla, probabilmente rendendoti indietro quello specchio di intensità e passione datole in precedenza.

Mi ha sempre affascinato e davvero mi ha illuminato di vita una leggenda giapponese che narra un concetto molto semplice ma che se preso sul serio rischia veramente di farti vedere il mondo con un’altra ottica. La storia vuole semplicemente dare un’anima alle cose, agli oggetti. Un’anima toccata dalle tante o poche persone che ne hanno fatto o ne fanno uso. Può sembrare pazzia, ma ripeto che lo è per chi si adegua a rispettare regole morali fondate sulla moderazione dell’anima.

Questa per me è divenuta una certezza abbastanza consolidata e a dir la verità è una convinzione che permette ai miei momenti di out cosmico di non sentirmi mai veramente solo. Mi incentiva all’applicazione pensare e credere che la mia chitarra preferita, storica (per giunta giapponese) ha la facoltà di sentirmi e consigliarmi, seguirmi ed aiutarmi, capirmi e perdonarmi.

Emma, questo è il suo nome.

Lei è una modestissima Takamine acustica, amplificata, mancina. Una chitarra semplicemente onesta, adatta perfettamente a me che sono un musicante che canta canzoni proprie in chiave punk folk, ma con la vena cantautorale stretta al nodo dell’orgoglio.

Chitarra che non si esalta in troppi virtuosismi, ma lo fa in linee guida che facciano da cuscino alle parole per renderle più morbide possibili. Legno chiaro, un’”ascia” normale che però nel corso di questi anni ha raggiunto una maturazione d’esperienza importante, trasformandola per me in un sacro e venerabile prolungamento del mio essere.

Ne ha viste più o meno di cotte e di crude in questo lasso di tempo e mi chiedo alle volte cosa racconterebbe se avesse la facoltà di parola per solo dieci minuti. E qui un classico legame “professionale” o di circostanza diviene un rapporto vero, legame profondo, una promessa reciproca che regala alla passione, al progetto, che poi è semplicemente la tua vita, una vena poetica e romantica.

Il tempo passato assieme, dai primi palchi blasonati, alle serate a chilometri infiniti da casa per esibirsi davanti a nessuno. Alle serate al fiume, alle giornate nel bosco, agli acustici col side project cantando i brani dei cantautori della mia vita. Alla “Pasquella”, vero e proprio rito sacro musicale Romagnolo nelle notti del 5 e 6 gennaio, ai campeggi estivi ed invernali, ai video clip girati in ogni condizione atmosferica, ai matrimoni degli amici, alle notti insonni a casa e a tutte le prove di questi anni.

Sommersa di risate, sommersa di lacrime, sommersa di gioie ma anche di tanto odio tramutato poi in ispirazione e necessità di emergere da ceneri un po’ troppo dense. Parte della famiglia insomma, parte di un modo di pensare e parte integrante di ogni ricordo che meriti di essere scalfito nel firmamento della memoria. Posso dire, appellandomi alla questione che ho esposto in precedenza che la mia chitarra mi conosce come un fratello o una sorella, nell’intimo, nella profondità del labirinto che traccia l’impellenza di fare musica.

Il principio di condivisione spinge ad affezionarsi e a legarsi per la vita a certe cose, per questo rimarrà sempre con me anche quando sarà ora di congedarla. Non puoi essere indifferente a questo se vivi coi nervi scoperti la musica come un’attitudine, come dovrebbe essere vissuta la politica per capirci bene, senza fini, se non quelli del benessere personale e comune.

Sarà difficile mandarti in pensione mia cara, ma l’usura e il tempo stanno parlando chiaro. Mi accorgo però del tuo sforzo, noto realmente che in certe situazioni chiedi una tregua, me lo fai capire e sento la stanchezza nel tuo corpo di legno che no sarà mai solo un involucro di suoni senza linfa.

Dopo mille revisioni, botte, sudate e sventagliate di sangue, cerchi la tua giusta cerimonia di chiusura, pronta per essere appesa al muro della stanza più importante di casa, in modo da essere sempre sotto la supervisione del mio sguardo, in modo che nei momenti di solitudine possa parlarti in maniera franca come fatto fino ad ora.

Può sembrare una cosa da matti parlarti, ma in fondo, chi sono realmente i normali?

Non di certo noi, e nemmeno vogliamo esserlo, per questo anche se le tue corde andranno a risuonare sempre meno e non sarai più cosparsa di birra e sudore, tu sarai sempre la mia fedele compagna di viaggio. Per sempre mia cara Emma, fedele ed intramontabile amica.

 

 

Diario di una Band – Capitolo Sette

 

“Non vivo la crisi di mezza età dove “dimezza” va tutto attaccato

Voglio essere superato, come una bianchina dalla super auto

Come la cantina dal tuo superattico

Come la mia rima quando fugge l’attimo

Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo

Superare il concetto stesso di superamento mi fa stare bene”

 

Caparezza

 

Che sia la forza di un concetto, la vita presa di petto, un desiderio, un sospetto

Che sia la forza di mille comete, continuare a bere di gusto dopo aver sedato la sete

Che sia toccare per davvero la luna, quando anche le stelle prima o poi ci porteranno fortuna

Che sia un fiume in piena alla luce dell’alba, in mezzo al casino gestire la calma, col peso di piuma

sfiorare la calca, combattere il male con un colpo d’anca

Che sia la birra gelata dopo il lavoro serrato, il dovere gestito con tocco fatato, un tocco di fino, un

gol su punizione, colpendo la porta e il tifoso nel cuore

Che sia prospettiva e rimprovero onesto, l’immensità sacra nella vittoria di un gesto

Che sia una montagna all’occhio profana, scalare la vita con rabbia puttana, una roccia che fa da

scalino alla notte, il whisky perfetto proteggendolo in botte

Che sia lo sviluppo di una pace maggiore, quando l’universo si presenta come il vero Signore

Che sia marmellata sbordante sul pane, il sospiro finale sul punto di atterrare

Che sia un ballo stupido ma pieno di vita, gli applausi che fanno bruciare le dita, come fiori di luce

sparati da un mitra, bello come Marco Pantani in salita

Che sia un viaggio lungo e non scarno di ostacoli, afferrare la curiosità con mille tentacoli,

custodire i segreti del vino e degli acini, il sacrificio perenne della schiena degli asini

Che sia un’esistenza colorata di rosso, del tramonto, del sangue, debellare il “non posso”

Che sia un passo veloce, spedito e raggiante, che sia comunicare con tutte le piante, una corsa

infinita sull’otto volante, una risata da lacrime dal frastuono incessante

Che sia non avere buttato via il tempo, l’aver costruito mantenendo il fermento, anche quando ero

spento, anche quando dalla finestra vedevo solo cemento, quando la paura superava l’intento,

quando ho scelto un animo attento, quando ho deciso di comandare il vento

Che sia frustrazione quando si fallisce il bersaglio, cadere e ogni volta e fomentare il bagaglio,

magari curare il dettaglio, credere a un abbaglio e godere dello sbaglio se placherà il travaglio

Che sia legittima intesa, che sia una guida tenace e distesa, lontano da offesa, offesa verso il

pensiero totale, lontano dallo sporco inconcepibile del mare

Che sia un’abbuffata di more nel bosco, una voce mai udita che però riconosco, un’ossessione erotica dal profilo un po’ losco

Che sia leggiadria della mano sul manico, di basso, di chitarra, soppiantare il rammarico, un cannone di musica perennemente carico, incrociare lo sguardo dopo l’attesa sul valico, che sia un onesto “ragazzi ora niente panico”

Che sia lo scorrere di mille immagini, di ponti, di corde, distruzione degli argini

Che sia il più schietto vagabondare, l’arte dell’ozio unita a quella di amare, un colpo di sole che fa tentennare, l’onda perfetta su cui ricominciare

Che sia un ritrovo, un patto, un incontro cercato, ritrovare la strada su cui si è camminato, ritrovare lo spirito di un nonno ormai andato, far brillare il suo sguardo ancor determinato

Che sia finire la storia di chi non c’è riuscito, stringer mano alla vita ed accettarne l’invito, il patrimonio invisibile di chi l’ha capito, la libertà reticente di chi non può aver finito

Che sia la nuvola che soddisfi ogni mia sete, che sia il fuoco che sorregga le scelte mie incomplete, che sia la spinta verso il vuoto, che l’acquario dove nuoto, non accontentarsi della sufficienza, che sia un matrimonio con la determinazione e con la pazienza.

 

 

La speranza, come un compartimento stagno deve essere sempre presente, come un nucleo operativo centralizzato che coordina le scelte artistiche e non. Fare i conti con i propositi ha velature abbastanza paradossali, il gratificante sentore iniziale, la chimica che interagisce sul corpo dando sventagliate di compiacimento e soddisfazione, per poi elaborare l’idea e pensare in mezzo secondo a come sviluppare il proposito all’atto pratico. Sicuramente scrivere canzoni può avere il rovescio buono della medaglia, non essendoci una legge scritta e immacolata su come comporre brani.

Si può mettere in mostra la propria vena anarchica, partendo dal testo, da un soggetto, da una storia, da un giro di chitarra, da un po’ quello che si vuole. E la noia resta davvero alla larga quando si cerca una corrente sempre nuova per fare musica, stimolante e utile anche al fine personale di crescita artistica e perché no umana. Reinventarsi nella forma e nel colore come dicevano i Litfiba, perché è questo fare musica, reinventarsi, stupire se stessi, impressionare se stessi è la chiave di lettura per catturare l’ascoltatore ed il lettore.

Insomma abbiamo passato la vita a credere che si potesse colorare solo dentro alle righe, non uscire dai margini e vedere le sbavature come una proiezione di errore imprescindibile. Non voglio lazzo e non voglio neanche confini, sia in termini artistici che in termini esistenziali. “Combattere” la vita con la curiosità e la necessità fottutamente accesa nello scoprire cosa c’è oltre la montagna è la presa di posizione più romantica e interessante che un singolo individuo può regalarsi.

Significa vivere, non accontentarsi, migliorare chi si ha vicino e migliorarsi.

 

Vasco Bartowski Abbondanza