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Tag: BMG

Pixies “Doggerel” (BMG, 2022)

Il gioco perverso della storia propone e ripropone duelli infiniti.
Nella Provenza del XII secolo infuriava il derby tra i rappresentanti del trobar clus, forma allegorica, chiusa, fottutamente indie, e i piacioni del trobar ric, una sorta di brit pop ma coi testi di Biagio Antonacci, che in Italia (derivativi già allora) sfociò nel movimento degli stilnovisti.
I bei tenebrosi vs. i cantori d’amore. Testi iniziatici, metafore appena accennate vs. spiegoni sulla beltà. 

Il dualismo sopracitato ha percorso secoli di letteratura e arti varie e sembra continuare a vivere felice nella meccanica dei Pixies, in cui i testi vengono serviti con abbondanti asterischi e le linee melodiche partono dal punk e terminano in territori ibridi, in questo disco particolarmente antitetici, tra Morricone e gli Who, tra un Neil Young e Beatles.

I Pixies sono inaccessibili, sfocati, un gomitolo di generi e attitudini eppure un loro disco ha una filigrana perfettamente riconoscibile. Sarà per il basso e la voce di Paz Lenchantin, che da anni ha sostituito Kim Deal, o per le ritmiche di David Lovering, sarà per il graffio alla chitarra di Joey Santiago o per la perversa, geniale voce (e penna) di Black Francis.
Quest’ultimo ha presentato ai colleghi qualcosa come quaranta pezzi pronti e impacchettati, che sono stati rivisti e scremati negli studi in Massachusetts, con il produttore Tom Dalgety in cabina di regia.

Dal giorno della loro reunion questo è il disco migliore. Partiamo da questo punto.

Il precedente Beneath The Eyrie aveva trovato un nuovo territorio in cui far sfogare i quattro folletti: un rock “creepy”, gotico e fantasmatico, popolato di strane creature e che portava atmosfere da film horror di serie B, condito con surfisti morti e strani pesci gatto. Sembrava un disco “di maniera”, invece era evidentemente un passaggio, una visione laterale che non viene scartata dai Pixies: la prima parte del loro nuovo album riprende temi e stilemi del precedente lavoro. Siamo in zona conosciuta, siamo nella terza parte del vecchio disco. O forse no, perché strani echi iniziano a vagare per il disco, piccoli fantasmi di note che si aggiungono a quelli evocati nei testi: Dregs of the Wine evoca gli Who con una certa precisione, emerge qualcosa dei Beatles in Pagan Man, sfiorano il folk rock quando la chitarra acustica diventa protagonista, arrivano a ricordare i Weezer in Get Simulated, testo geniale in cui una intelligenza artificiale esalta la propria immortalità lamentando mancanza di contatto fisico. Sono proprio i testi a far la differenza, a segnare una tacca verso l’alto nella scala di valutazione dell’album: è un disco di anime perse, di metafore nascoste, di fantasmi, di vinti, come il protagonista di Vault of Heaven, perso in una canzone mariachi e in un 7Eleven che è un portale verso il nulla. È un disco che piacerebbe a Tim Burton e a tutti i suoi personaggi. Canta di loro, passando dal folk-pop al noir-indie. C’è surf music, alt-pop, qualcosa di grunge old-school e poi ho finito le etichette, perché alla fine è semplicemente un disco dei Pixies, che i generi li attraversano con una discreta semplicità. 

La title-track che – colpo di scena – chiude il disco è l’apice del nuovo lavoro: il testo sembra scritto da un Ungaretti con fini iniziatici mentre la parte musicale scivola su un tappeto sonoro elegante e quasi edibile. 

Riassunto: prima parte vicino all’ultimo lavoro, seconda parte del disco esplora nuovi ambienti, coi piedi ben saldi nella follia dei folletti. E alla fine ci si accorge di aver ascoltato un bel disco, nonostante lo stupido assioma che prevede la noia crescere parallelamente al numero di album pubblicati. 

E invece, ottavo disco dei Pixies, promosso.

 

Pixies
Doggerel
BMG

 

Andrea Riscossa

Suede “Autofiction” (BMG, 2022)

Il fascino dell’elegante rumore degli Suede

La loro storia inizia con la formazione del gruppo nel 1989 e con un progetto che recuperava le fascinazioni glam-rock della scena britannica in un periodo in cui il grunge americano lo aveva reso praticamente fuorilegge, contribuendo alla maturazione del rock contemporaneo. Riescono a raggiungere i vertici delle classifiche anglosassoni solo nel 1993 con il progetto omonimo, forse non innovativo musicalmente, ma sicuramente pionieristico nella sfida agli standard di genere con la copertina che ritraeva un bacio tra due donne. Sono gli Suede, band made in UK nata, cresciuta in un’aurea di compiaciuto maledettismo, scioltasi per poi riunirsi quando i membri hanno capito che la loro musica aveva ancora molto da dire. Il nuovo album si chiama Autofiction, il nono della storia del gruppo, che lo stesso Brett Anderson definisce come “Il nostro disco punk”.

I brani che compongono Autofiction sono ben undici pezzi di un mosaico di rumore elegante così come lo confermano i primi due brani She Still Leads Me On e Personality Disorder, entrambi caratterizzati da riff ben strutturati di Richard Oakes, ma mentre il primo si muove con delicata disinvoltura tra le note narrative del rapporto emotivo di Anderson con la defunta madre, il secondo è arrabbiato e arruffato, con una chitarra elettrica aggressiva che non trova pace, così come la complessità delle percezioni umane. C’è voglia di fare rumore, di farsi sentire, ma anche di attirare l’ascoltatore in una tela sonora pronta per lui, e scuoterlo per fargli perdere ogni riferimento e fargliene trovare di nuovi.

That Boy On The Stage propone ancora riff possenti al limite dell’hard, mentre la voce quasi demoniaca disegna un personaggio al limite del borderline, dove essere cantante è quasi una forza oscura incontrollabile. E tu ascolti, e rimani avviluppato da quel buio che alla fine affascina sempre tutti. Simon Gilbert è invece l’indiscusso protagonista di Black Ice, dove picchia con forza a convinzione, quasi a simulare un martello che scalfisce ciò che si trova attorno a lui, certezze comprese. Drive Myself Home è un brano struggente e talmente intriso di emozione che la tecnica passa veramente in secondo piano. Trasmette tutta la fragilità dell’essere umano, la voglia di tornare a casa, vista nell’insieme delle sicurezze e degli affetti, la voce non è più solo l’interpretazione di un cantante, bensì l’espressione dei tuoi pensieri e della voglia di concedere alla vita la possibilità di essere nuovamente dolce con te.

Nel disco, Anderson non canta più la rivalità con il rock d’oltremanica tenendo stretti l’accento e lo stile britannico ispirati a Bowie; il frontman della band ora è un artista maturo, che si affida al rock per guardare dentro l’anima e farne uscire incertezze e dubbi esistenziali come in Turn Off Your Brain And Yell che chiude l’album e, attraverso un tripudio di suoni esplosivi, incita a lasciarsi andare al liberatorio urlo primordiale che soffochiamo dentro di noi con la logica del quotidiano. 

Autofiction è un album ben studiato e strutturato che però contiene tutta la forza di un flusso di emozioni sempre più potente, come fosse un album d’esordio, caratteristica, questa, di chi è stato protagonista della storia della musica, ma non ripiega comodamente su sé stesso, anzi va avanti con estrema decisione senza la necessità di accontentare le mode. Ci sono slanci musicali audaci, visioni dell’animo umano che sono in bilico tra la paura e la seduzione, ma proprio per questo comprensibili e vicini all’ascoltatore. In alcuni momenti credi pure che ti capiscano, poi sorge il dubbio che non sia così, ma in fondo non importa, se quello che senti in qualche modo parla di te con te. Oppure è possibile anche che dica niente, o almeno così sembri, e va bene così. In fin dei conti è questa la bellezza della musica, come sa parlare o tacere in modo diverso a ognuno di noi. 

 

Suede
Autofiction
BMG

 

Alma Marlia

The Afghan Whigs “How Do You Burn?” (Royal Cream/BMG, 2022)

Se hai il fuoco dentro, brucia con The Afghan Whigs

Sono passati cinque anni dal loro ultimo lavoro In Spades ma hanno ancora voglia di catturare il pubblico con la loro grinta attraverso la propria musica. Loro sono The Afghan Whigs ed escono ora con How Do You Burn?, che conferma l’appartenenza della band di Cincinnati al rock alternativo con il loro sound ossessionante e straziante. Un disco con una genesi non semplice, perché registrato con ogni componente della band a distanza durante il periodo pandemico. Un disco che è voglia di guardare al futuro, ma anche ricordo e omaggio a Mark Lanegan che ne aveva scelto il titolo.

L’attacco di chitarra elettrica di I’ll Make You See God è subito sferzante e si trasforma in un riff potente che si ripete come in una specie di allucinazione, mentre la voce di Dulli raggiunge timbri al limite dello sguaiato, ma che creano un sottile perfetto equilibrio con la complessità strumentale del brano.  Il disco si sviluppa poi in tracce dove il rock lascia spazio a atmosfere rarefatte di suggestione distopica tra cui domina proprio la chiusura In Flames. Lo spiccato uso del synth e la voce distorta si muovono come fiamme, in modo accattivante e seducente, con quel pizzico di sensazione di pericolo quel tanto che basta a catturarti fino all’ultimo, come se non volesse lasciare andare via l’ascoltatore, trattenerlo e avvolgerlo per “bruciare” con lui fino alla fine. Ed è questa la sensazione che ti accompagna durante l’ascolto, la voglia di rimanere che combatte con quella di andarsene perché in qualche modo il progetto entra dentro alle emozioni e te le fa mettere in gioco, ma non tutti siamo pronti per farlo. Concealer è una canzone dolce che parte in acustico per poi trasformarsi in un rock delicato quasi un abbraccio consolatorio, che ti cattura e ti culla fino a che non chiudi gli occhi. Altrettanto emozioante è The Gateway, che parte con un’atmosfera musicale sospesa per poi svilupparsi in sonorità psichedeliche e un testo non complesso, ma con parole forti che formano un dialogo immaginario tra un io e un tu o voi dove la voce di Dulli si leva in uno spietato “Waiting for the night as I destroy the day”. Attesa, volontà e fatalità riunite in una sola frase che ti prende e non ti lascia più.

Come ogni recensione, anche questa ha una fine, e forse dovrei terminare con i consigli per gli acquisti o qualcosa di simile che la logica di mercato impone. Ma ammetto che la logica non è mai stata il mio forte, perciò vi dico solo di ascoltare How Do You Burn? lasciando aperti quei canali emotivi che permettono alla musica di rovistarci dentro e farne uscire nuove sensazioni o vecchi ricordi, oppure un bel mash up di entrambi. Sì, avete ragione, il rischio è che si può passare dal Nirvana al dolore nascosto in qualcuna delle nostre profondità, ma non è anche questo vivere, o meglio bruciare di vita? Come bruciate? Di fuoco nascosto sotto la cenere della quotidianità in attesa di spegnervi del tutto, oppure come fiamme che sono pronte a vivere in pieno le proprie emozioni? A voi la scelta di premere quel tasto che aiuti la musica a liberare ciò che avete dentro.

 

The Afghan Whigs

How Do You Burn?

Royal Cream/BMG

 

Alma Marlia

Band of Horses “Things Are Great” (BMG, 2022)

I Band of Horses tornano dopo quasi sei anni con un album in studio, il sesto, dal titolo puntuale e adeso alla meravigliosa realtà in cui siamo immersi: Things Are Great. A difesa della combriccola capitanata da Ben Bridwell bisogna sottolineare il fatto che l’album fosse in realtà pronto prima della pandemia. Ha, durante la sua lunghissima genesi, portato a cambiamenti importanti all’interno del gruppo, con addii illustri e innesti (o promozioni) di due nuovi membri nella line-up.
I nostri hanno anche cambiato sede, muovendosi da Seattle alla Carolina del Sud, ed etichetta, passando a BMG.
La versione primigenia dell’album era, a detta del frontman, troppo distante dalla sua personale idea di cosa debbano essere i Band of Horses, e qui sta la causa della partenza di Tyler Ramsey e Bill Reynolds. Il nuovo lavoro ha dunque virato verso lidi più noti, verso un ritorno alle origini, meno “truccato” a livello di produzione e più semplice nell’approccio, sia musicale sia nel messaggio che porta.

Apriamo una breve parentesi, direi necessaria. Non deve essere semplice essere Ben Bridwell. Al primo singolo del primo EP ti capita una The Funeral e la tua vita cambia per sempre. La tua canzone viene inserita in mille serie tv, da How I Met Your Mother fino alla recentissima Strappare Lungo i Bordi. Pazienza che ai primi tre accordi sai che sta per andarsene qualcuno di fondamentale e che stai per piangere, il fatto è che ti è proprio venuta la classica ciambella col buco, ciliegina e bacio accademico. Da quel momento inizia una lunga serie di variazioni sul tema, di declinazioni a volte pendenti più verso il folk, a volte più pop. Basta che sia riverberato. L’equazione finale risulterebbe, secondo studi recenti, come un neo-folk pop-post-shoegaze.

Parentesi a parte, il modesto pensiero è il seguente: ci sono band capaci di creare un’atmosfera, altre che di un’atmosfera hanno bisogno, altrimenti risultano fuori tempo, cacofoniche con il contesto. I Band of Horses con questo disco tornano a fuoco, nella dimensione a loro più consona, capaci di offrire una perfetta colonna sonora a quei momenti in cui ci starebbe proprio bene una canzone dei Band of Horses.
Spero di aver reso l’idea. 

E Things Are Great suona bene, pulito e snello, nella sua alternanza di brani più pop/soft-rock ad altri più intimi e intimisti. Si spingono fino a tematiche politiche e sociali, come nel pezzo che apre il disco, Warning Signs.
Si omaggiano i The Cure in Crutch, forse il pezzo migliore dell’album, dove la descrizione di una relazione tossica si gioca sull’ambiguo ritornello “I’ve got a crutch on you”. Sullo stesso tema scivola lento e sornione il blues di Hard Times, mentre si cambia registro nei pezzi successivi: in Aftermath si parla di sindrome post-traumatica e la struttura stessa della canzone ricalca l’inquietudine del testo, mentre in Lights, un rock leggero e degno di un’American Pie qualunque, è la cornice di un racconto fatto di adolescenti e forze dell’ordine.
Il finale torna più sentimentale e leggero con You Are Nice to Me e Coalinga, quasi elegiaco, un po’ Mumford un po’ Lumineers. 

Things Are Great è un buon album, che fa tornare i Band of Horses indietro di una decina di anni, cosa ottima e auspicabile, dato il livello del penultimo lavoro, Why Are You OK. Ritroverete tutti gli ingredienti di una ricetta nota e che funziona, dalle chitarre con super-riverbero ai crescendo a volontà, dalla voce iconica di Bridwell a quell’eco di fondo che ogni tanto riemerge, come un tema, come un déjà-vu, come una filigrana che certifica quello che sta uscendo dalle casse.

 

Band of Horses

Things Are Great

BMG

 

Andrea Riscossa

Rufus Wainwright “Unfollow the Rules” (BMG, 2020)

La regola di Rufus

 

Nella mia famiglia non ci sono laureati. Mio fratello ed io ci abbiamo provato (o ci stiamo ancora provando) a concludere, mentre i miei genitori per origine, possibilità o sorte si sono fermati molto prima. Eppure tra le mura domestiche, da che ne ho memoria, si è sempre respirata un’aria non direi intellettuale, alta, ma si percepiva in maniera tangibile come l’ignoranza fosse un nemico da debellare, al pari della maleducazione. Un abbonamento ultradecennale al Club degli Editori aveva portato in dote una libreria di assoluto rispetto e un’enciclopedia di svariati volumi. Se dovessi associare il mio papà ad un’immagine sarebbe senza dubbio La Settimana Enigmistica appoggiata sopra alla Garzantina sul comodino accanto al letto. Mia mamma invece è una radio accesa in ogni stanza, simultaneamente, con un repertorio che propone con la stessa facilità la Callas impegnata nella Casta Diva e L’immensità di Don Backy. Giusto per contestualizzare.

Accade che qualche settimana fa stavo disquisendo di nulla in particolare con la mia genitrice e all’interno di una frase, mezza in dialetto mezza in italiano, la sento usare il termine affettato; sul momento non ci faccio troppo caso ma poi torno subitamente indietro e quasi arrogante chiedo lumi. L’arroganza iniziale si è fatta presto resa incondizionata, ma giuro, davvero non avevo mai sentito o visto utilizzare quella parola. Non nell’accezione dell’insaccato s’intende, sia chiaro. 

E perché tutto sto discorso? Perché non nego che in qualche passaggio, in (più di) qualche frangente nella carriera di Rufus Wainwright, io abbia trovato la sua musica artificiosa, sempre di qualità elevata, ma meno spontanea e sincera di quanto non lo fosse ad esempio ai tempi di Poses, per dirne uno.

Ed invece, a questo (nono) giro è davvero necessario riporre l’affettato in frigo (scusate l’eccezionale gioco di parole, non ho potuto resistere) perché Unfollow The Rules è un gran buon disco (chamber?) pop. 

Prendete l’apertura, affidata a Trouble In Paradise, o la successiva Damsel In Distress, per avvertire in maniera nitida la freschezza e la brillantezza di scrittura del nostro, che a dispetto del brio delle parti strumentali, tra i versi sottende una sincera analisi riguardo alle maschere che indossiamo, ai sorrisi coi quali celiamo dei dissidi, all’orgoglio stolto che ci allontana dal nostro vero io.

Il piano e voce che introducono il brano che dà il titolo al disco riportano l’ascolto nelle zone che più mi hanno fatto innamorare dell’artista di Rhinebeck, quei momenti di lirismo assoluto, da quel “tomorrow I will just feel the pain” a precedere un cambio tempo di una bellezza sfacciata, tale da costringermi a “riavvolgere il nastro” più volte; pochi accordi di piano, diluiti, quasi languidi, che trovano un’improbabile quadra con la chitarra e la batteria, che quando ritorna la voce con un significativo “don’t give me what I want, just give me what I’m needing” non sembra nemmeno più di essere all’interno della stessa canzone. 

Eppure funziona così, quando si ascoltano quelli bravi davvero.

Il clima torna a farsi quasi giocoso, con You Ain’t Big, o si sconfina in lidi quasi (quasi) folk con Peaceful Afternoon per poi tornare a volare altissimi con Only The People That Love, una stesura magnifica, curata, immediata, “Only the people that love / May dream / May Cry / May fly”. La successiva This One’s For The Ladies (THAT LUNGE!) strizza l’occhio all’ultimo John Grant (ammesso che non sia più probabile il contrario), ipnotica e sospesa, clima proseguito da una enigmatica My Little You.

I toni si fanno più notturni e compassati in Early Morning Madness, sebbene la coda in crescendo mi perplima non poco; ad ogni modo un piano quasi da cabaret introduce Devils And Angels (Hatred), che si sviluppa poi secondo canoni più classicheggianti di quanto l’inizio facesse intendere (o sperare).

La chiusa di Alone Time è il colpo di coda del campione, la zampata di pura classe, un piano appena accennato, un controcanto ispiratissimo a tinte quasi gospel, un testo di struggente, candida bellezza, che quasi ti muove alle lacrime (“But don’t worry, I will be back, baby / To get you on the wings of a perfect song”).

È il disco che personalmente mi riappacifica, mi ricongiunge con Rufus Wainwright, che una volta affrancato, dimesse le vesti patinate che spesso lo hanno nascosto, torna a mostrare la sua più profonda (e nuda) natura. 

 

Rufus Wainwright

Unfollow the Rules

BMG

 

Alberto Adustini

Pixies “Beneath the Eyrie” (BMG/Infectious Music, 2019)

Il nano sulle spalle di un Gigantic (no, dai, si può?)

 

Immaginate di partecipare a un’entusiasmante raduno del liceo. Trent’anni di distanza dalla maturità, da quelle pance piatte, da quegli sguardi disincantati sulla realtà, sul futuro. Dopo aver rapidamente constatato che le carriere dei vostri ex compagni sono decollate, esattamente come i loro capelli, vi rendete conto che siete detentori di una merce rara, preziosa, roba che non si compra perché viene da lontano e deve maturare, per valere. Portate con orgoglio coerenza e uno sguardo sul mondo rimasto intatto, un vocabolario aggiornato ma fedele a un’idea, un messaggio che ha attraversato anni, mode, stili e correnti e che adesso, più che mai, vanta una matura e dignitosissima indipendenza. Poco importa se avete appena parcheggiato un maggiolone semidiroccato, rigando il Mercedes del vostro ex compagno di banco, e se avete – inavvertitamente – agganciato col vostro orologio le extensions dell’ex miss liceo. Dio, siete i Pixies, cosa diavolo vi può scalfire?
L’integrità, però, costa. E i Pixies il conto lo hanno pagato molto presto, forse perché hanno preso un’onda prima di tanti altri gruppi, che hanno poi seguito la scia. Kurt Cobain rivelò di essere un fan e di ispirarsi a loro, Eddie Vedder li ha sempre indicati come esempio di libertà di espressione e, recentemente ha inserito Surfer Rosa nell’elenco dei dischi preferiti.
Per scrivere del nuovo disco dei Pixies ho fatto un festoso bagno in quel brodo primordiale che fu la scena indipendente americana di fine anni ottanta. Band seminali che meriterebbero un capitolo nella storia della musica: dai Dinosaur Jr. ai Fugazi fino ai Sonic Youth. Perché Beneath the Eyrie è un ritorno al passato, anzi, è un disco che riporta a un ambiente familiare. E’ come rientrare nella stanza della propria adolescenza, ma con qualche anno sulle spalle.
E allora largo a un backbeat fatto come si deve, largo alla libertà e alla fantasia, largo al gotico, come immaginario e al barocco, come stile. Registrato al Dreamland Studio, una ex chiesa, è stato definito dallo stesso Franck Black come il loro Blair Witch, un disco infestato di streghe, mostri, morte. Ma i temi stridono con le melodie, che ciondolano tra punkabillie, surf rock e proto-grunge. E’ come ritrovarsi a tagliare il prato di casa una domenica mattina di giugno. Ma in un film di Tim Burton. Come se a ballare con John Travolta in Pulp Fiction ci fosse la sposa cadavere. Ok, siamo a fuoco.
Del resto è dalla frizione che nasce parte della grandezza dei Pixies, da quel cantato a volte isterico che tira per i capelli le chitarre, da quei bassi subacquei che introducono chi ascolta in mondi inquietanti e pericolosi. Sono ritornelli e cori grandiosi, ma che raccontano weird things. Capita così che il primo singolo estratto, Graveyard Hill, attraverso streghe, morte e maledizioni ci riporti a casa Pixies, interno 22, soprattutto se la consideriamo un elemento di una combo, un dinamico duo, con la successiva Catfish Kate, un delirante racconto di una lotta mortale tra una tal Kate e un pescegatto, accompagnato da riff golosi, un basso narrante e rime baciate.
Il disco si dipana così tra storie cupi, gotiche, costruite su testi a volte ermetici, a volte surreali. Citazione per merito alla bassista Lenchantin, autrice della doppietta Long Rider e Los Surfer Muertos, pezzi dedicati a un’amica surfista morta in mare a Dana Point. Il surf e le sue chitarre sono prepotenti in questo lavoro, e se non sono protagoniste sono eco, come nella splendida St. Nazaire.
Impossibile sostenere che siano tornati i vecchi Pixies, sicuramente però Beneath the Eyrie è un ottimo album, che riporta indietro l’orologio a quel glorioso periodo che dal college rock ci portò all’esplosione del grunge. Non è Surfer Rosa e non è Doolittle, ma è una scusa perfetta per riappropriarsi di una fetta di storia della musica (e personale) lasciata in naftalina senza ragione. 

Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane”, scriveva Giovanni di Salisbury.
Leggasi: la grandezza del passato ci sorregge e ci fa vedere più lontano, oltre ad elevarci. Questo disco poggia sulla storia dei Pixies per porsi (forse), più in alto di quanto potrebbe, ma sta lassù perché è coerente col passato, perché è un’ottima promessa per il futuro, perché è dannatamente ben suonato.

 

Pixies

Beneath the Eyrie

BMG/Infectious Music, 2019

 

Andrea Riscossa