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Tag: bobbie gillespie

Ti ricordi i RATM ad Imola nel 2000?

 

Venite piccoli e sedete qui attorno. Vi racconto una storia.

È accaduta in un tempo ormai remoto, per l’esattezza 7305 albe fa. O tramonti, a seconda. Se ci rifacciamo, come largamente accade in tutto il mondo, al calendario gregoriano, quel 7305 diventa magicamente una cifra tonda tonda, vale a dire 20 anni.

Vedete piccoli, nella mattinata di quel venerdì 16 giugno del 2000, il vostro papà saliva in auto, forse quella di Guido, forse no, perché i problemi di memoria iniziano da subito, in direzione Imola, “Autodromo Enzo e Dino Ferrari”, per l’Heineken Jammin’ Festival. Erano tempi strani, sapete? Migliori? Forse. C’è quel pezzone dei Gazebo Penguin, Senza di Te, che ad un certo punto fa “è tutto un ricordar le cose meglio di com’erano davvero di quando avevamo qualche anno di meno”. 

Ve lo ricordate? Ogni tanto vi mostro quel video favoloso, e voi dite sempre “chi sono quei pazzi!”. Beh vediamo di non iniziare subito a divagare, che la strada fino a notte è lunga e tortuosa.

Ad ogni modo a ripensarci, a cercare di tornare indietro con la mente a vent’anni fa, non so se la frase dei Gazebo sia vera o falsa. Probabilmente non è né l’una né l’altra, perché a dirla tutta, a 17 anni (eh già, non ero ancora maggiorenne, per poco, in quel giorno), sapete quanto vi frega che la scaletta di un gruppo sia bilanciata, che l’audio sia più o meno buono, che il pubblico sia partecipe o indisciplinato o altro? Zero. Zero assoluto.

Figli miei, quel giorno io ero salito in macchina di Guido (ammettiamo che fosse la sua d’ora in poi) con un intento così semplice che davvero pare appartenere ad un’epoca che non esiste più: divertirmi, il più possibile, ascoltando un concerto.

E non c’erano pare, polemiche, shitstorm sui social per le code, per i token, se un gruppo saltava, se il parcheggio era a 10 € (che poi mi sa che eravamo ancora in Lire), o meglio, così era per me e per l’accolita a cui mi accompagnavo quel giorno. Ed il fatto che non esistessero praticamente i social di certo giovava al clima generale.

Sta di fatto che soprassedendo ai vari transfer e spostamenti vari la timeline scivola fino al primo pomeriggio. Mi trovavo sulle collinette dell’autodromo, non proprio in prossimità del palco, perché dovete sapere figli miei, che nei festival il bello solitamente arriva alla fine, e le energie vanno dosate, specie nel mio caso, che avevo come unico obiettivo della vigilia di pogare e prendere n (con n che tende a + ∞) calci e pugni durante il live dei Rage Against The Machine. Cosa volete, sono un tipo semplice.

Ricordo che ci si dilettava con degli artifici dai quali dovrete SEMPRE stare alla larga, quando diventerete più grandi (mi raccomando eh!), quando in lontananza dal palco arrivano delle note che a più di qualcuno dei presenti fanno un attimo rizzare le antenne. “Apperò senti questi come suonano”. Interrompo (temporaneamente) l’attività alla quale stavo dedicando molta attenzione per dirigermi verso il main stage, ed ascoltare sto terzetto di giovanetti che suonavano da dio, veramente. Un live breve, come d’altronde capita ai gruppi minori del pomeriggio che si esibiscono con il sole a picco sulla testa e poche centinaia di persone davanti, ma magnifico. Ricordo bene che alla fine dell’esibizione il pubblico era diventato incredibilmente più numeroso. A notte inoltrata venni a sapere che il gruppo in questione, che a quanto pare era al primissimo concerto in suolo italico di sempre, risponde(va) al nome di Muse. E siamo al primo “io c’ero di giornata”.

Il menu prevedeva anche i Punkreas, saltati a piè pari (con tutto il bene che voglio a Cippa e compagni, ma a quei tempi li vedevo in media dieci volte all’anno), i germanici Guano Apes (e se ve lo chiedete la risposta è sì, suonano ancora) che non credo siano mai andati oltre ai successi di Open Your Eyes e a Big In Japan, ma che ricordo di aver visto da sotto il palco e che fecero un numero che per l’imberbe che ero allora fu difficilmente dimenticabile: nel bel mezzo di un brano, dal nulla, entrarono tutti in modalità freeze, cioè si congelarono, in una frazione di secondo. Delle statue per diversi lunghissimi secondi. Poi, attraverso un qualche segnale che ovviamente non colsi, ripresero a suonare dallo stesso punto in cui si erano fermati. E io a bocca spalancata. Primo live anche per loro in Italia. E secondo “io c’ero”.

Dopo dei Guano Apes nuovo momento topico della giornata. Tocca ai Primal Scream. Eh già, le line up una volta erano migliori, dai, ammettetelo. Sta di fatto che io, già in posizione d’attacco per essere pronto per Zac e soci, assieme a qualche altro migliaio di persone, noto che qualcosa non torna, perché il cambio palco è insolitamente lungo, sembra tutto a posto e invece ogni tot esce un qualche tecnico, colpetto sul microfono, verifica un filo, penso avranno accordato una chitarra quattro volte. E circola la voce che siano in ritardo perché Bobby Gillespie avesse perso l’aereo. Rumours al tempo delle voci di corridoio.

Sta di fatto che alla fine, con tipo un’ora di ritardo gli scozzesi escono ed iniziano l’esibizione. La risposta del pubblico non è proprio amichevole, diciamo così. Oltre ai fischi volano oggetti di vario tipo. Il signor Gillespie, che qualche situazione del genere la deve aver vissuta, riporta la calma sulla folla inferocita con un distensivo “Hello, fuck you for waiting”. L’ho amato. Anche perché poi ricordo una versione di Swastika Eyes allucinante. E allucinata.

In mezzo a queste esibizioni c’è un simpatico aneddoto. Simpatico fin là, per me. Ad ogni modo fino a qualche mese fa ho vissuto nell’incrollabile certezza che i The Tea Party, band canadese che amo molto, non avesse suonato. E fosse anzi stata sostituita proprio dai Punkreas. Fino a qualche mese fa dicevo perché ho scritto su Twitter al cantante e al bassista, ed entrambi mi hanno confermato che suonarono appena dopo sti famigerati Muse. Ora ok le attività ricreative, ok anche che nel 2000 i The Tea Party non erano ancora entrati a regime nei miei ascolti, ma cristodio! Che poi se il web non mente quella rimane l’ultima apparizione dei canadesi dalle nostre parti. E terzo “io (non) c’ero”.

Comunque arriviamo al dunque. Che poi si esaurisce in un attimo. Ricordo che la pressione era molta. Fisica intendo. Credo fossimo sull’ordine delle 45 persone per metro quadrato. A due metri dalle transenne. Il classico “This is Rage Against The Machine from Los Angeles, California” del riccioluto signor De La Rocha e poi boh, vai a sapere tu cosa è successo. Per i primi due o tre brani sono stato più a terra che in piedi, faticando ogni volta per rialzarmi, cantare un paio di versi, evitare quello più grosso, ma divertendomi come raramente mi era capitato. 

Fino a che non arriva il coglione di turno. Un ragazzo, età indefinita, perché ricordo che aveva un berretto di lana calato sul viso fino a sotto il naso ed in bocca quella che ad un occhio distratto sarebbe potuta sembrare una sigaretta, ma che nella realtà dei fatti non lo era (mi raccomando bimbi!), e che avanzava roteando le braccia all’impazzata e tirando pugni senza senso. E vabbè all’inizio lo tolleri, lo spingi un po’ in là, ma questo torna, sempre più fastidioso, a minare l’equilibrio che anche in situazioni di tale caos esiste, e quindi ci guardiamo in due, tre ragazzi, e senza nemmeno metterci d’accordo partiamo a tutta contro il malcapitato, lo carichiamo proprio, e questo non so come o dove sia finito, l’ho visto volare da un lato e venire inglobato dalla folla. Problem solved.

Che ve lo dico a fare poi figlioli che i quattro chiudono il concerto con Killing In The Name e si vola altissimi, meravigliosa giovinezza, e butto un’ultima occhiata al mega drappo dietro al palco con l’immagine di The Battle Of Los Angeles, e alla bandiera d’ordinanza sull’amplificatore di Tom Morello e ringrazio i miei genitori che mi avevano concesso questa occasione (che poi avanzavo i Silverchair dall’anno prima quindi conto pari). Lentamente, col fiatone, risalgo il prato, vedo solo facce sorridenti, tutti accomunati dalla stessa luce negli occhi, quella preziosa, che odora di meraviglia. Noto con un filo di orgoglio che ho un calzino rosso sangue ed un ginocchio con un taglio, la cui emorragia era stata provvidenzialmente fermata dalla polvere alzatasi sotto il palco. Anticorpi. 

Fa strano, ripensando a quel giorno proprio in questo periodo, a certi commenti che ho letto proprio verso Tom Morello, da sempre molto attivo in ambito diritti umani, non solo da quando spopola il #blacklivesmatter, o addirittura verso i R.A.T.M. (facile fare la band politica stando sotto contratto con una major), e davvero mi vien da pensare che ricordiamo le cose meglio di com’erano davvero perché, in effetti, lo erano.

E adesso andate a nanna. La prossima volta vi racconto dei Nine Inch Nails a Monza. Che son vent’anni anche per quello.

 

Alberto Adustini