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Tag: bruce springsteen

VEZ 2020: riflessioni di fine anno

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Il 2020 è stato un anno difficile per l’industria musicale: il Covid-19 ha condizionato la nostra vita da qualsiasi punto di vista.

Questo si prospettava un anno dalle grandi emozioni: doveva essere l’anno dei Pearl Jam a Imola, quello del gran ritorno dei Deftones a Bologna, sicuramente quello del ritorno del Boss Bruce Springsteen in Italia, i soliti grandi festival nazionali ed internazionali con nomi da leccarsi i baffi, invece è saltato tutto. Annullato e Riprogrammato sono state le due parole affiancate a quelli degli eventi. Sopravvivere e Reinventarsi invece sono state quelle cucite addosso agli addetti ai lavori, band e anche ai magazine di musica.

VEZ Magazine è nato principalmente come magazine fotografico ed è sempre contata tantissimo la qualità delle nostre immagini: negli anni passati quindi si è data sempre più importanza ai fotografi di live e ai loro contenuti, anche perché quasi ogni giorno c’erano concerti, eventi e materiale per galleries fotografiche.
A Marzo, quando abbiamo capito come si sarebbero messe le cose, non ci siamo dati per vinti e, sostenuti dai nostri giornalisti che si sono rimboccati le maniche, abbiamo spostato l’attenzione sui contenuti scritti per cercare di mantenere comunque vivo il magazine e continuare ad offrire la qualità a cui i nostri lettori sono stati abituati.
Alberto Adustini, Andrea Riscossa, Francesca Di Salvatore, Marta Annesi – il nostro quartetto delle meraviglie – insieme agli altri giornalisti, sono diventati i punti fermi di VEZ: grazie ai loro articoli, alle loro recensioni ed interviste, infatti, abbiamo comunque potuto apprezzare il meglio che questo 2020 poteva offrirci musicalmente parlando, in attesa di poter tornare sotto al palco ad imprimere in parole ed immagini le emozioni dei live.

Con l’avvicinarsi della fine di questo 2020 bisesto e decisamente funesto, abbiamo guardato indietro e per cercare di ricordarci com’era la musica prima della pandemia abbiamo fatto una selezione delle migliori immagini dei nostri fotografi, che fino a quando hanno potuto, si sono lanciati sotto palco ad immortalare i vostri cantanti preferiti.

Luca Ortolani

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Dall’alto, da sinistra a destra, foto di:

Editors – Elisa Hassert
Pubblico – Simone Asciutti
Max Gazzè – Siddharta Mancini
Melanie Martinez – Maria Laura Arturi
Soviet Soviet – Siddharta Mancini
Gazebo Penguins – Simone Asciutti
Big Thief – Francesca Garattoni
Zebrahead e pubblico – Luca Ortolani
Niccolò Fabi – Simone Margiotta
The Comet Is Coming – Siddharta Mancini
Kaiser Chiefs – Elisa Hassert
Gio Evan – Luca Ortolani
The Maine – Luca Ortolani
Milky Chance – Annalisa Fasano
Francesca Michielin – Luca Ortolani
Mecna – Alessandra Cavicchi
Calibro 35 – Isabella Monti[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

VEZ5_2020: Andrea Riscossa

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Pearl Jam “Gigaton”

Non il loro miglior album, sia chiaro. Ma mentre il mondo si chiudeva su se stesso, implodendo in dati giornalieri, zone rosse, lockdown e autocertificazioni, il 27 marzo, in giorni sempre più difficili, trovavo un appiglio solido e familiare nell’ultimo lavoro dei Pearl Jam.
È la mia wild card per quest’anno. Li salverò, sempre. Quantomeno per restituire il favore.

Traccia da non perdere: Dance of the Clairvoyants

 

Fiona Apple “Fetch the Bolt Cutters”

Si rivede la luce a metà aprile, a maggio riavremo parte delle nostre libertà. Il 17 esce un album sorprendente, mio personal rimpianto per non averlo recensito. Però l’ho divorato. Entrare in casa Apple, con un folletto che canta dello spirito del tempo usando pianoforte, tavoli e isterie. E poi la voce di Fiona è strumento, è espressione, è emozione. Che album.

Traccia da non perdere: I Want You to Love Me

 

Fontaines D.C. “A Hero’s Death”

Il primo ascolto l’ho ritardato. Lo volevo solitario, in un luogo solitario, su un isola solitaria. E il 6 agosto ce l’ho fatta. E nonostante l’estate, nonostante il luogo magico, il disco dei ragazzi di Dublino va preso a stomaco vuoto, e con la giusta dose di tempo per digerirlo. E’ un viaggio oscuro, con lucine sparse verso la fine, ma rispecchia perfettamente la sinusoide dell’umore del 2020.

Traccia da non perdere: A Hero’s Death

 

Idles “Ultra Mono”

25 settembre. Il mondo forse ce la fa, io forse pure, e mi esce un disco che è uno scanzonato vaffanculo al mondo, cantato lanciando peli e amore sulla folla sottostante.
La faccio breve e mi cito: gli Idles sono “post” tutto. Post punk, post rock, post dress code, post etiquette, post igiene intima, post melodici. Eppure.
43 minuti ben spesi 

Traccia da non perdere: MR. MOTIVATOR

 

Bruce Springsteen “Letter to You”

È stato come prendere un’ultima boccata di aria, poco prima di una seconda apnea. Il 23 ottobre arriva la lettera di zio Bruce, che è un messaggio di salvezza ma soprattutto di speranza. E, a sentirlo bene, un signor disco con la E Street Band. È un racconto di tempi andati, di persone che non ci sono più, di momenti che sono diventati ricordi e poi, per nostra fortuna, musica. Ma potevo chiedere di meglio?

Traccia da non perdere: Janey Needs a Shooter

 

Honorable mentions 

Bob Dylan “Rough and Rowdy Ways”. Devo veramente spiegare perchè?

Phoebe Bridgers  “Punisher”. Delicatamente a fuoco.

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow”. Un disco che fa sembrare il 2020 gaio. E quindi vince lui.

Chris Cornell “No One Sings Like You Anymore”. Ok, seconda wild card.

Viadellironia “Le Radici sul Soffitto”. Quota italiana. Sono giovani, sono intelligenti, prodotte dalla casa madre di Elio.

Stone Temple Pilots “Perdida” Acustico struggente.

 

Andrea Riscossa

Bruce Springsteen “Letter to You” (Columbia Records, 2020)

Il ventesimo disco in studio di Bruce Springsteen è un lavoro di rara bellezza. Non ci sono molti giri di parole da poter utilizzare.
Anzi, a essere onesti lascia spiazzati un disco come questo, per onestà, per intento e perché arriva dopo una lunga parentesi intimista.
Bisogna però che io compia un paio di passi all’indietro, per giustificare sentenza e conclusione, e perché questo disco ha un peso specifico notevole.

Come nasce un disco come Letter to You? Dato per ovvio e assodato che sia utile essere Bruce Springsteen, credo che servano almeno tre elementi: avere una band da una cinquantina d’anni, una capacità di autoanalisi fuori scala e un immaginario che diventa un mondo, ormai autonomo, da raccontare. Aggiungete un paio di storie divertenti, una misteriosa chitarra italiana e tre pezzi rimasti senza una casa e forse, dico forse, abbiamo la ricetta.

Bruce è reduce da quel capolavoro di Western Stars, dopo un paio di anni di lavoro solista a Broadway. Si è rivelato ai fan nella sua versione più umana, raccontando una storia di successo e depressione, di musica e dolore, un lessico famigliare finito in musica, in una catena di album che hanno sempre lasciato trasparire il gesto genuino della mano che li ha creati: Springsteen non si è mai tirato indietro, ha narrato una vita usando il rock and roll, usando tutti i colori possibili, dai più cupi ai più chiari.
In Western Stars qualcuno ha visto il lascito amaro di un cantante ormai anziano. Ma non era altro che l’ennesima tappa di una carriera: c’è chi prende i settant’anni come un punto di arrivo e c’è chi, come lui, ne soffia settantuno e decide che non si tratta di vecchiaia, ma di responsabilità. Perché arrivare a questa tappa del cammino non dà diritto al ritiro, ma esattamente a qualcosa di opposto.

Diceva il saggio: da grandi dischi derivano grandi responsabilità.

E così imbraccia una chitarra regalatagli da un fan italiano fuori dal teatro dove andava in scena Springsteen on Broadway, lasciata in salotto per qualche mese, quasi dimenticata. La magia a volte esiste: in pochi giorni compone gran parte dei pezzi del disco, raduna la band e in cinque giorni di sala incide il disco.

Io riesco perfettamente a immaginarli: lui e la E Street Band funzionano un po’ come il primo giorno di vacanza, quando torni al mare e rivedi gli amici dopo un anno di lontananza. C’è un po’ di imbarazzo, un po’ di ruggine, ma dura poco. Del resto, cosa può andar male? Siamo nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia globale, al potere sono saliti i nazisti dell’Illinois, il loro capo è un suprematista bianco negazionista, torneremo in tour nel duemilamai, e quindi and one two three four…

Vorrei sapere se fuori degli studi di casa Springsteen, dove è nato questo disco, è incisa a fuoco la frase di Pete Townshend “il rock non eliminerà i tuoi problemi, ma ti permetterà di ballarci sopra”. Il mood è quello. 

In una recente intervista Springsteen ha dichiarato che il disco fondamentalmente racconta ciò che ha imparato tra i diciassette e i settant’anni. Alla faccia del dono della sintesi.
E Letter To You in effetti è denso e maturo. Quasi saggio, mi si passi.
È una mappa che Springsteen ci lascia, disseminata di indizi e topoi della sua storia. Il vocabolario è un faro, con parole che sono orme della sua carriera: ci sono treni, sangue, cicatrici, prigioni, chitarre, eroi e antieroi. Veniamo riportati ai confini della città, dove scorre un fiume. È un gioco di citazioni continue, è un immaginario che viene rievocato in una lunga lettera scritta da un uomo a milioni di fans. 

Ma è anche una lunga riflessione sul passato e su ciò che abbiamo lasciato per strada, soprattutto sulle persone che non ci sono più, a partire da George Theiss, fondatore dei The Castiles, qui evocato più volte e vero ispiratore del pezzo Ghosts, dove la parola “alive” diventa la chiave per chiudere un cerchio: in Radio Nowhere si chiedeva se ci fosse qualcuno di vivo là fuori (“Is there anybody alive out there?”), in We Are Alive, pezzo di Wrecking Ball, si ballava solo per il fatto di essere vivi e lo si faceva tra spiriti e lapidi, tra fantasmi e desiderio di rinascere. Qui l’essere vivi è testimonianza, è la felicità di poter fare musica insieme, è la sola possibilità di dimenticarsi i problemi e di andare laddove la musica non finisce mai, come recita House Of A Thousand Guitars, canzone-manifesto del disco.

Come dicevo, è questione di responsabilità. Gli è rimasto in mano il testimone, è l’ultimo dei sopravvissuti del suo primo gruppo, sente il bisogno di portare avanti il sacro messaggio del rock and roll. In fondo, ci ricorda, è The Last Man Standing.

Il ricordo diventa citazione per Clarence Clemons nella prima traccia, One Minute You’re Here, dove si evoca il bridge di Tenth Avenue Freeze Out. E poi Dylan, tanto Bob Dylan, che come un’ombra aleggia in tutto il disco: in If I Was The Priest, canzone che convinse un certo John Hammond a scritturare Springsteen, dopo aver lanciato Dylan. E il menestrello di Duluth è sempre stato il suo doppio e la sua croce, fin dagli esordi, in cui Springsteen dovette liberarsi della sua ombra e dimostrare di non essere il nuovo Dylan. Qui però lo si stuzzica, ad esempio in Janey Needs A Shooter, dove l’intro di organo ricorda Like A Rolling Stones o nella traccia che chiude il disco, I’ll See You In My Dreams, dove si cita testualmente Dylan nel ritornello: “Death is not the end”. 

Letter To You è un album sincero. Registrato al ritmo di tre canzoni al giorno, praticamente live in sala di incisione, senza demo, con pochissime sovraincisioni. È la E Street Band al cubo, sempre più perfetta nei suoi meccanismi e nelle sue dinamiche. 

Insomma, lettera recapitata, Bruce.
Per ora possiamo solo rileggerla e impararla a memoria. Possiamo solo vederci nei sogni, così come da chiusa del disco, in attesa di poter cantare tutto questo, cantare DI tutto questo, spalla a spalla, ancora una volta. 

Stay hard, stay hungry, stay alive. 

 

Bruce Springsteen

Letter to You

Columbia Records

 

Andrea Riscossa

Bruce Springsteen on Broadway: lo spettacolo del Rock ‘n’ Roll che scuote le anime

Fuori lo sfavillio di Broadway, il traffico di New York, la frenesia dell’America di oggi. Dentro l’eleganza di un teatro, 975 poltroncine, un palco, una chitarra e un pianoforte. E un uomo, vestito di nero. Un grande uomo, un artista inarrivabile.

Bruce Springsteen.

Non va in scena uno spettacolo, non ci sono maschere, né scenografie, né metafore, né giochi di luce. La luce è soltanto una, a tratti soffusa, a tratti decisa ad illuminare l’unico protagonista.

Commedia e tragedia umana che si mescolano, il magic trick del cinismo e dell’illusione, svelato nelle battute finali, per giungere ad una visione di speranza, di presa di coscienza, di responsabilità.

Egli racconta, si racconta e scava così tanto a fondo da toccare le tre molecole fondamentali del suo DNA. La famiglia.

La madre Adele, instancabile lavoratrice, la Legge della casa, lo sguardo della benedizione divina, la donna con la grande passione del ballo, perché quando la vita si fa difficile “troveremo un piccolo rock ‘n’roll bar e ci metteremo a ballare”.

Il padre Douglas, il lavoratore dalla tuta verde, l’uomo che abitava la doppia dimensione, quella della casa e quella del bar… e, quando sedeva al bancone, non voleva essere disturbato. Lui che aveva ribattezzato la chitarra “the fucking guitar”, mai d’accordo sul percorso intrapreso dal figlio.

Il meccanismo inconscio dell’emulazione: << Emuliamo coloro il cui amore desideriamo ma non otteniamo. Scelsi la voce di mio padre perché alle mie orecchie aveva qualcosa di sacro. Mio padre, il mio eroe e il mio peggior nemico. “Vedi quell’uomo sul palco, papà? Sei tu, quello è come ti vedo io” >>.

Il fantasma che per anni ha continuato ad aleggiare sull’esistenza di Bruce uomo e musicista e che si è trasformato in antenato nel momento in cui, alla vigilia della nascita del suo primo nipote, ha confessato le proprie colpe, liberando un futuro padre dalle catene, permettendogli di intraprendere l’avventura di genitore lontano da demoni e rimorsi, suggellando il momento più bello nell’album dei loro ricordi.

Famiglia che sale fisicamente sul palco nella figura di Patti Scialfa, moglie del cantante. La rossa delle cui gambe e della cui voce Springsteen si innamorò quando la vide esibirsi sulle note di Tell Him degli Exciters allo Stone Pony, nel 1984.

Lei ispirazione costante, compagna di vita e di musica. Lei sigillo della fiducia, l’unico valore che conta nella fragilità dell’essere umano e delle relazioni. La resistenza di un legame costruito solidamente, con il tempo e nel tempo.

E poi c’è il Rock ‘n’ Roll che ha scosso l’anima di un bambino di Freehold, nel New Jersey, durante una tranquilla domenica estiva del 1956. La routine di casa-compiti-chiesa… e fagiolini, fagiolini e i cazzo di fagiolini… è stata spezzata dalle movenze di un Adone che si agitava in TV, abbracciando una chitarra. Un nuovo genere di uomo che spaccò il mondo in due, “quello sotto la tua cintura e quello sopra il tuo cuore”.

La magia di Elvis Presley, colui che permise di ricavare dal buco nero di Freehold una pagina bianca con un futuro da scrivere. Un destino, quello di chi rischia e mostra il vero se stesso. Da lì, un lavoro continuo: la prima chitarra in affitto, lo show d’esordio a sette anni di fronte ai bambini del quartiere che ridevano di lui perché in realtà faceva tutto tranne che suonare.

Non aveva imparato nulla in due settimane di noiose lezioni. Tuttavia agitava in aria la chitarra, si metteva in posa: << È stata la prima volta in cui sentii l’odore del sangue>>. Da lì, una corsa continua.

Fino al 1971, anno in cui aveva esaurito le esperienze possibili per un musicista nel New Jersey. Aveva suonato a matrimoni, funerali, battesimi, nei bar, nei licei, nelle prigioni, all’ospedale psichiatrico.

No, non poteva fermarsi. Lui era la next big thing. Il tipo che passava la radio non era più bravo di lui, lo sapeva.

E allora imboccò la strada che lo portò lontano da Freehold, la Thunder Road, per seguire, per realizzare il sogno americano. Ma non si fa Rock ‘n’ Roll senza una band. Senza la sua E Street Band, dietro cui è celato un segreto.

Lo confessa, Bruce, in questa occasione privilegiata: << Nel rock esiste un’equazione per cui, quando tutto va bene, 1+1=3. La grandezza del rock dipende dalla grandezza dalla band, è una comunione di anime, è una fratellanza. Non deve essere composta dai migliori musicisti ma dai musicisti giusti. 1+1=2 è l’ordinario, 1+1=3 è quando la tua vita cambia, quando sei folgorato da una visione e ti senti benedetto >>.

La frazione di un istante di silenzio e vola sul palco un altro fantasma, quello del sassofonista Clarence Clemons, scomparso nel 2011. Il Big Man a cui l’artista è stato legato da un’indissolubile amicizia, l’uomo dalla grande risata, dalle grandi mani, dal grande suono che proveniva dal suo strumento.

Una perdita incolmabile. << Perdere lui è stato come perdere la pioggia >> – e aggiunge – << Se credessi nel misticismo, direi che Clarence e io siamo stati compagni di viaggio in vite precedenti. Ci vediamo nella prossima vita, Big Man! >>.

E poi c’è l’America, oggi minacciata da uno spettro pericoloso, dalle tenebre della divisione, dell’odio, della censura della libera stampa.

<< Una situazione che credevo morta e sepolta e pensavo di non rivivere mai più durante la mia esistenza. Troppe vite, troppi uomini giusti si sono sacrificati in nome della democrazia americana >>.

Se per il tema politico vengono intonate The Ghost of Tom Joad e una delle versioni più intense mai eseguite di The Rising come inno alla rinascita, ogni canzone in scaletta è la perfetta colonna sonora degli aneddoti, dei racconti e delle parole pronunciati da quella voce così solenne, così profonda, così spezzata, in alcuni istanti, dall’emozione.

I brani sono quasi “parlati” sulla scia dei monologhi che li introducono. La musica, riarrangiata in chiave acustica, è essenziale, nuda, spogliata di qualsiasi artificio e accompagna le singole tappe del viaggio esistenziale di Bruce Springsteen.

Un viaggio di andate e di ritorni.

Sì, perché oggi la sua casa di trova a dieci minuti da Freehold, nel New Jersey. Una notte è tornato a passeggiare proprio lungo la strada natia. Il grande albero sotto il quale, da piccolo, egli trascorreva l’estate non c’è più. Ricorda che, all’epoca, era stato l’unico fra i suoi coetanei ad arrampicarsi fino alla cima, scorgendo per la prima volta il mondo oltre la città.

Di quell’albero restano le radici ben piantate a terra. Terra fatta scorrere tra le dita mentre, quella notte, si fermò ad ascoltare i suoni, i rumori, ad odorare gli stessi profumi di sempre. Ci sono cose che rimangono intatte. Ci sono anime che vivono in eterno.

C’è Douglas Springsteen a cui il figlio fa visita ogni sera.

C’è la sua mancanza e il desiderio che fosse seduto in quel teatro e vedere tutto ciò.

C’è l’amore per il ballo di Adele, più forte della sua perdita di memoria.

C’è il valore del Rock ‘n’ Roll che è quello di scuotere le anime nello scambio vitale tra l’artista e il pubblico.

Infine, c’è una preghiera che gli torna in mente, quella noiosa che era costretto a recitare più volte al giorno da bambino e che oggi acquista un nuovo significato.

Bruce Springsteen on Broadway si chiude con il Padre Nostro. Una benedizione.

Il recupero di una dimensione quasi ultraterrena, di totale trasporto emotivo in cui è impossibile non immedesimarsi, rintracciando alcuni frammenti della propria storia, sentendosi chiamati in causa, per intraprendere lo stesso viaggio, a ritroso, di recupero dell’Io più autentico.

E non averne paura. Redimere il passato per costruire il futuro, prendendo sul serio il presente.

Su quel palco, in oltre 230 shows dallo scorso 12 ottobre 2017, Bruce Springsteen l’ha fatto, per tutti noi.

(Springsteen on Broadway disponibile ora su Netflix ndr).

 

Testo di Laura Faccenda

Fotografia di copertina di Henry Ruggeri

 

Show Setlist

Growin’ Up
My Hometown
My Father’s House
The Wish
Thunder Road
The Promised Land
Born in the U.S.A.
Tenth Avenue Freeze-Out
Tougher Than the Rest
Brilliant Disguise
The Ghost of Tom Joad
The Rising
Dancing in the Dark
Land of Hope and Dreams
Born to Run