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Diario di una Band – Capitolo Quattro

“Con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria

E a un Dio senza fiato non credere mai”

 

F.De Andrè

 

 

Contaminazioni. La vera storia, il vero percorso musicale di una persona nasce in tempi remoti, laddove la memoria del soggetto in questione probabilmente non riesce ad arrivare, se non scavando veramente a fondo, rosicchiando forse quei primi passi che i timpani assorbivano, zampettando dolcemente nella più totale e caotica beatitudine che un pargolo può avere.

Una spugna che assimila le influenze dai genitori, dai fratelli maggiori o dagli zii. Molte volte è un concorso di colpe che crea veri e propri “mostri” di personalità, a volte arroganti, a volte riflessivi, a volte melanconici, a volte trascinatori inesauribili o testardi senza freno inibitorio.

Quando l’ascolto e la passione per l’ascolto diventano uno stile di vita, quando si scalfisce in maniera preponderante il peso specifico caratteriale andando cosi a contemplare la potenza della magia del pentagramma.

La colonna sonora di una vita è costellata di periodi più o meno lunghi e più o meno stratificati, più o meno incisivi forse, ma ognuno lascia un segno, un particolare che rende unico e originale ogni persona che vede la musica come un’autostrada da percorrere giornalmente.

A volte su una fuoriserie sportiva, a volte andando al galoppo di un drago, a volte semplicemente passeggiando sotto la neve. La cosa bella è che ognuno ha la libertà di scegliere la strada musicale da percorrere e corredare a proprio piacimento i dettagli, decidere se sacrificarli, se farli esplodere, se crederci o meno, per l’appunto, ai dettagli, vero ago della bilancia in questione.

Tutto ovviamente in base alle esigenze mentali e fisiologiche del caso. Il contorno che avvolge le proprie intenzioni durante il viaggio è un gioco di specchi che riflette ogni sfaccettatura caratteriale di un individuo andando a consacrare cosi una statua granitica di melodie.

Mia madre mi dice sempre che sono un “giovane vecchio”, come biasimarla. Sono riuscito nell’intento, senza nemmeno volerlo, di imparare ad amare tante tipologie di musica, figlio della curiosità, ho solo una sola certezza in questa vita, ovvero i miei antagonisti acerrimi: la noia e la soffocante routine.

Ho fatto un gioco, un piccolo esperimento che al fine risulta anche simpatico. Ho provato a scavare nel baule del tempo i primi tre dischi che ho ascoltato all’esasperazione, scarnificato, spolpato. Dopo averli focalizzati, ho provato a capire se hanno inciso sui gusti, su l’attitudine, su la personalità, tratti identificativi che oggi compongono il MIO essere, musicale e non.

Col massimo stupore il rapporto si sostiene bene. Gioco che invito ogni lettore a provare, sicuro che il collage dei ricordi sarà più amplio del solito, sicuro del fatto che si apriranno automaticamente tante piccole finestre sul passato.

Ci rimasi di stucco quando, una volta composto questa particolare graduatoria ho realmente appioppato un peso equilibrato ai tre dischi in questione plasmati alla mia vita.

Dookie dei Green Day fu un regalo di mio fratello Mattia nel lontano luglio del 1995. Ho compiuto dieci anni e come prima cosa, arrivato in doppia cifra ho scoperto il punk rock.

Mi innamorai istantaneamente della disinvoltura come respiro primario, mi innamorai della chitarra distorta, folgorato da quell’ approccio sfrontato al quotidiano che rimbombava come uno “WOW” interminabile e di quella vena ribelle che ovviamente ai tempi non potevo conoscere e concepire, ma quel lenzuolo di stoffa ruvida me lo sentivo veramente comodo sulle mie piccole spalle.

Resta l’album che ha spalancato le porte della rozza vena che amo ancora mettere davanti a ogni mio proposito musicale. Un disco che scivola via dalla prima all’ultima canzone.

Oggi come ieri un rifugio di immagini e ricordi, di campeggi con le chitarre acustiche scordate e l’avvento dei primi sogni di gloria, quando per sfida o presunzione cercavo di assomigliare a Billy Joe, recependo gli input della sua immagine come una vera e propria figura mistica.

Credo di essere una persona del tutto propensa al divertimento, tentando di sorridere al massimo delle possibilità, cercando sempre di prendermi poco sul serio quando può giovare chi mi circonda e godendo in compagnia, facendo dell’auto ironia un’arma di condivisione di massa. Questa attitudine jokeristica la devo senza a dubbio all’album di Elio e le Storie TeseEat The Phykis 1996.

Togliendo il fatto che la suddetta band è una vera officina di tecnica e precisione, accademia pura per ogni tenace ascoltatore, volevo focalizzarmi su un’altra sfaccettatura. Ciò che prendo in esame e che ora posso vedere in maniera più cristallina è la delicata causa dell’ironia, della metafora e della denuncia mai diretta, ma velata e nascosta dietro all’aneddoto e alla similitudine.

“La terra dei cachi” nel suddetto anno fece la fortuna e scalfì la sfumatura un po’ eversiva del Festival di San Remo, fin li rimasta abbastanza sterile di personalità dai tempi di mostri sacri come Rino Gaetano e Luigi Tenco.

Lo dimostra il fatto che, nella finale, agli artisti veniva concesso un singolo minuto di tempo per poter convincere il pubblico a spingerli verso la vittoria. La logica e l’ordinario, il canonico e conseguenziale pensiero strategico metteva questo minuto a disposizione dello spezzone più incisivo del brano, in linea di massima il ritornello governava questi 60 secondi di “dentro o fuori”.

La follia o la prospettiva, non so come chiamarla, ma Elio e Co. presero la loro canzone, raddoppiarono la metrica, suonarono “la terra dei cachi” in maniera impeccabile e velocizzata, restarono dentro il minuto disponibile. Per me, undicenne fu epico. Sconvolto!!!

Un messaggio chiaro, affascinante, ero divertito, stregato. Mi feci comprare il cd dai miei vecchi che ai tempi ordinavano spesso dischi e quant’altro su di un catalogo musicale che si chiamava “OK MUSIC”. Volevo saperne di più, volevo capire cosa potesse esserci dietro a quegli “scappati di casa”.

Quello che venne in futuro in compagnia dei dischi di Elio e le Storie Tese è semplicemente storia.

La bellezza del rischio, di osare, di vedere un finale diverso e perché no, un finale ontologico, mantenendo il sorriso e il coraggio. Senza dubbio virtù trasmesse alla leggera dagli zii di Milano.

Ultimo ma non ultimo, sempre nello stesso periodo, forse l’anno dopo, scoprì la bellezza e l’ammirazione che provo con rinnovato affetto anch’oggi per la rima. Divenuta in seguito una compagna fedele, amica sempre pronta alla “battaglia” che pareggia ogni mio stato d’animo quando ne percepisce l’affanno.

Iniziai a scrivere molto presto, e ricordo che la prima canzone che buttai giù, per esigenza, rigorosamente in rima e senza sapere minimamente tenere in mano una chitarra fu un inno all’Uomo Ragno, potevo avere 9 anni, non di più. Mia nonna Clara e mio nonno Mario tenevano un’edicola a San Carlo, il mio paese di nascita.

Avevo a disposizione una vasta gamma di fumetti, ma Peter Parker aveva qualcosa che andava oltre gli altri paladini dell’universo Marvel. Il mio super eroe al fianco di Dario Hubner e Marco Van Basten. Quindi tra un fumetto e un giornaletto porno che di soqquatto finiva nel mio Seven assieme ai libri di scuola, (mossa faceva le gioie dei miei compagni di classe ovviamente), scoprì l’amore per la scrittura e di conseguenza per le donne.

In quel periodo storico esplose la melodrammatica guerra giovanile nella mia zona tra chi ascoltava il Rap e chi ascoltava il Punk California modalità skate. A me il rap ha sempre destabilizzato, se non qualche sberla del primo Neffa e dei Sangue Misto, o di precursori come I Cavalieri della notte, altri tempi.

Però esplodeva a livello commerciale e radiofonico in quel periodo il successo nazionale degli Articolo 31 e Così com’è mi ha insegnato quella linea di scrittura martellante, incalzante, accattivante, rigenerante.

Ai tempi non scriveva cazzate J AX e per un adolescente brani col ritornello che fa “Con le buone si ottiene tutto” era un monito chiaro. E’ ovvio che bisogna avere la scaltrezza e la fortuna di assorbire e apprendere certi segnali dall’universo, ma quella frase, di una canzone che poi è passata in tempo celere nel dimenticatoio, mi ha sempre battuto sulla spalla, come un soffio di educazione mai svanito.

Ho scritto una canzone rap nella mia vita e mi ha pure soddisfatto ma prendo da quei tempi passati la voglia e la necessità di non banalizzare una canzone con testi scontati, frivoli o poco significativi, per lo meno per me.

Cosi come un tatuaggio, una canzone credo vada fatta per necessità interiore, per un tangibile sostentamento emotivo. Scrivere per trasmettere credo debba valere come cicatrice che nel bene o nel male farà sempre parte di te, parlerà sempre di te.

Fatevi un giro nel passato, tirate fuori le vecchie foto dagli album di famiglia, mettetevi intorno a un tavolo con amici e parenti e aprite il baule magico del passato, della spensieratezza, del collaudo verso la vita.

Son sicuro scoprirete più sensazioni e propositi che sono stati sepolti per anni, e che nella frenesia di oggi porteranno una boccata d’aria senza dubbio rigenerante.

 

Vasco Bartowsky Abbondanza

BIRØ e la scrittura: un artista fuori dagli schemi

BIRØ è un cantautore classe 1990 originario di Varese.

Il suo “Capitolo 1: La Notte” (Vetrodischi) è un progetto che mira a coniugare testi propri della tradizione cantautorale italiana con la musica elettronica per raccontare storie attraverso musica e parole. I suoi brani raccontano eventi legati tra loro e come le pagine di un libro seguono uno sviluppo cronologico.

“Capitolo 1: La Notte” è la storia di un uomo che analizza le sue ossessioni, le sue paure e i suoi vizi, ma anche le proprie gioie e fortune, il tutto grazie ad uno stile narrativo personale. Tutti i brani sono ambientati in un’unica notte e questo spazio temporale diventa il filo conduttore tra una canzone e l’altra: i toni crepuscolari dei testi di BIRØ trovano nella commistione tra cantautorato ed elettronica un compagno perfetto per questo viaggio che dura fino all’alba.

Dopo la pubblicazione di “Incipit”, il suo primo EP ufficiale, BIRØ si è fatto conoscere al grande pubblico con un fortunato tour che ha avuto appuntamenti importanti come il Mi Ami 2017 e il Collisioni Festival riscuotendo ottimi feedback di pubblico e critica, candidandosi di diritto quale nome su cui puntare per il futuro.

Biro ci racconta, attraverso tre racconti brevi e inediti, il significato delle sue canzoni in maniera più ampia.

Il racconto è come un’espansione dell’universo narrativo del personaggio protagonista del disco. Mentre nel disco vengono presi in dettaglio certi punti e aspetti, nel racconto questi dettagli vengono messi sotto la lente d’ingrandimento.

La necessità era quella di raccontare il punto di vista del protagonista a partire soprattutto dalla sua solitudine e dalle sue dipendenze. Il disco sicuramente fa ben capire questi aspetti e penso riesca a riportarne una chiara immagine, mi sembrava che però ci fosse l’esigenza di spiegare anche il perché lui si sia ritrovato, le cause e le circostanze. E magari quali potrebbero essere le sue prospettive.

 

Oggi pubblicheremo appunto il primo di questi.

Buona lettura e correte ad ascoltare il suo album!

 

1 EPISODIO

 

Esco dal bar ciondolando. Appallottolo la schedina persa e cerco di fare canestro in un cestino vicino. Inutile dirlo, la pallina di carta cade molto prima del cestino.
Faccio fatica a stare dritto figuriamoci riuscire a fare canestro.
Accendo una sigaretta e mi incammino verso la macchina.
Milano di notte mi sta simpatica. E’ come se improvvisamente ci fosse un filtro che lascia emergere un’atmosfera più vibrante, tranquilla eppure sempre sull’attenti, come se potesse sempre succedere qualcosa anche dove il silenzio regna sovrano.

Le pozzanghere lungo la strada riflettono le insegne blu dei bar e le luci dei lampioni, sento qualcuno in sottofondo parlare della partita e all’improvviso penso che almeno su quello avrei potuto avere un po’ più di fortuna. Tre pali su quattro tiri. Un gol poteva scapparci, sbancavo un 200 euro che mi avrebbero fatto comodo

E in cosa li avresti spesi?

Magari avrei potuto organizzarle una cena.

Sii almeno onesto con te stesso.

Portarla fuori, non so cucinare.

Avresti comprato del vino.

Qualche bottiglia di vino per festeggiare.

Festeggiare cosa?

Ma festeggiare cosa? Cosa c’è da festeggiare? Anche riuscissi a parlarci sarebbe un gran successo e cosa farei per festeggiare?

Compreresti del vino.

Comprerei del vino. La causa di tutto.

Non ricordo quando ho cominciato a bere, non che esista veramente un punto preciso in cui si inizia, ma non riesco a ricostruire le circostanze per cui ho cominciato a bere così tanto. Non ci riesco, sono troppo ubriaco.

Metto le chiavi nella macchina e mi accorgo che l’ho lasciata aperta.
Sei veramente un coglione.

Un vero e proprio coglione. Ti accorgi anche tu che non è possibile? Si, per tante persone potrebbe essere una dimenticanza ma per te comincia a diventare un abitudine.

La moka.

L’altro giorno hai fuso una moka dimenticandoti il fornello accesso. Devi darti una regolata.
Ti serve una regolata.

La macchina è glaciale, dò un giro di chiave e dopo un lungo borbottio il motore parte.

Sei troppo ubriaco per guidare.

Devi stare calmo, tranquillo.

Prendi una cicca.

Cerco una cicca nel portaoggetti, c’è un pacchetto che sarà lì da chissà quanto ma lo prendo comunque. Sembra di masticare un sasso. Nel portaoggetti ci trovo anche un cd degli Smiths che non ricordavo assolutamente essere lì. E’ un “The Best Of”, quindi so esattamente a cosa vado incontro ma dò un’occhiata rapida alla tracklist.
Ti ricordi?

Era bello discuterne, a lei facevano schifo. Proprio schifo, non ne capivo la ragione ma lei diceva che la voce di Morrissey è una tortura. Schifo, usava proprio questa parola.

Apro la confezione e dentro trovo un piccolo biglietto che recita

Balli sopra un bacio tra le pieghe di un letto.

Che frase stupida, avrò avuto vent’anni quando l’ho scritta. Ecco, questa è una frase che fa schifo, ma allora ero tutto esaltato dallo scrivere e dallo studiare che mi sembrava una gran figata, mi sembrava di essere Morrissey.
Vuoi chiamarla.

Prendo il cellulare e scorro la rubrica.

Non farlo.

Squilla. Poi metto subito giù il telefono.

Non puoi averlo fatto veramente.

E invece si, cazzo, lancio il cellulare sul retro del sedile e tiro un pugno al volante della macchina. Mi sento un vero coglione. Lei magari adesso guarderà la chiamata e cosa penserà? Avrà paura?
Hai fatto una cazzata, fermati qui al semaforo, mastica la cicca e respira.

Si, mastica la cicca e respira.
Non ti manderà un’altra denuncia.

MASTICA LA CICCA E RESPIRA. Non c’è bisogno di agitarsi, adesso vai a casa e non succede nulla, bevi un goccio di birra, fumi una sigaretta e vai a letto e ti fai una bella dormita. Nulla di più semplice. Lei non ci farà caso, se ne starà col suo nuovo ragazzo e domani forse qualcosa cambierà.

Questa non è la strada giusta.

Forse, chissà. Le cose a volte non cambiano per niente, o se cambiano è in peggio.

Devi ritornare sulla circonvallazione per tornare a casa tua.

Ma io cosa ci posso fare? Mi sento in balia di tutto questo, degli eventi e di quello che lei ha scelto. Non capisco e non riesco ad uscire dalla convinzione che se valeva qualcosa allora valeva la pena anche lottare e non mi sembra giusto che mi sia rimasto così poco dopo tutto quello che ho dato.

Dai torna a casa, non ci pensare. Non fare cazzate, vuoi andare lì ubriaco come sei per fare cosa? Pensi che ti troverà cambiato?

Intanto parcheggio. Spengo il motore e all’improvviso è come se tutta la strada si fosse stata mutata. Il silenzio è ovunque. Riguardo l’ingresso di casa sua che per dieci anni è stata casa nostra. E’ una strana sensazione, vedere ciò che hai amato e che poi invece diviene qualcosa di estraneo. Inavvicinabile addirittura.
Sento dei passi, qualcuno sta chiacchierano. Una donna ride. I passi si fanno sempre più vicini, mi volto per guardarli.

E’ lei.

E’ lei.

Resta qui in macchina, aspetta che entrino e poi vattene. Nessuno ne se accorgerà.

Scendo dalla macchina, quando la portiera sbatte si voltano entrambi e se all’inizio sembrano non riconoscermi in breve capisco dalle loro espressioni che hanno capito benissimo chi sono.

Lei è spaventata, cerca le chiavi nella borsa compulsivamente, come se fosse la cosa più importante nel mondo e striscia contro il muro verso la porta.

Lui si avvicina a me con passo deciso. Cerco di spiegargli che va tutto bene, non voglio far niente, ma non appena alzo le mani in segno di resa le sue mi spingono forte sul petto buttandomi a terra. L’alcool amplifica la sensazione, mi gira la testa, se provo a rimettermi in piedi scivolo sul selciato.

Non faccio in tempo a rendermene conto che lui mi prende il bavero e mi assesta una centra sulla mandibola.

Ricasco a terra. Ci rimango. Fischia tutto.

Mentre resti steso per terra e un il sangue comincia ad invaderti la bocca senti voci in lontananza: “Sta bene?” “Starà bene!”. La porta sbatte, a poco a poco riesci a rimetterti in piedi con non poca fatica. Passi le dita sul colpo e constati che sta uscendo un po’ di sangue. Probabilmente domani si gonfierà e sarà un livido. Risali in macchina, giri la chiave e il motore torna a disturbare il silenzio della via. Torna a casa.