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Tag: caspar clausen

Efterklang @ Sexto ‘Nplugged

Un magnifico riverbero

Piazza Castello (Sesto al Reghena) // 9 Agosto 2020

 

Vengo regolarmente a Sesto al Reghena per il Sexto ‘Nplugged dal 2007, quando esordii in Piazza Castello di fronte a sua immensità Antony and the Johnsons. L’ultima mia volta a queste latitudini è una ferita ancora aperta, leggasi Sharon Van Etten, annullato per maltempo mentre parcheggiavo la macchina con il mio bel biglietto in mano. Il virus mi aveva precluso l’ennesima serata con il mio grande amore Chan, ma non può piovere per sempre, giusto? Ed ecco che i miracoli (perché di questo si tratta) a volte accadono e in piena emergenza pronte tre serate tre per palati fini, perché il pubblico di Sexto oramai ha aspettative che vanno dall’alto in su.

Stasera per me è una primizia, dopo un lungo inseguimento, perché finalmente vedrò il mio gruppo musicale danese preferito (e uno potrebbe dire “sai che concorrenza”, al che io risponderei “e gli Aqua dove li metti?”), ovvero gli Efterklang.

Premettiamo subito che parliamo di un concerto CLAMOROSO.

Cla – mo – ro – so, ve lo sillabo, qualora non fosse passato il messaggio.

In tutta sincerità confesso che mi aspettavo molto, per la caratura della band in primis, poi perché si presentava in formazione a sette, che ha sempre un suo fascino, e perché adoro la loro capacità di cambiarsi d’abito con una disinvoltura e naturalezza fuori dall’ordinario, propria delle grandi band.

Ecco, visto che si parla di abiti, vorrei mi fosse concessa una piccola digressione su Caspar Clausen, voce degli Efterklang e da stasera mio nuovo spirito guida. Si presenta sul palco con un calice di vino bianco, capelli biondi fuori taglio, come un frontman dei Bee Hive senza il doppio colore, una fronte enorme, un abbigliamento che meriterebbe un trattato a parte, total white, camicia abbondante nelle maniche, pantalone fuori moda alto in vita, sandalo forato di dubbissimo gusto (mise che sarebbe stata perfetta nelle commedie anni ’80, nelle scene all’interno delle discoteche, quando ci sono le comparse che ballano in maniera imbarazzante con le braccia lungo i fianchi, spero di aver reso l’idea). Semplicemente perfetto. Ciliegina sulla torta una sorta di bipolarità del nostro che sono riuscito a gestire solo dopo alcuni brani, in quanto mi soffermavo rapito a guardarlo passare in tempo zero dal trasporto del canto al fissare immobile persone a caso nelle prime file, e sorridere loro, con quell’espressione come dire, alla Mariano Giusti per capirsi, il personaggio lievemente eccentrico che Guzzanti interpretava in Boris. Se ce l’avete presente bene, altrimenti non è che posso fare tutto io.

Ad ogni modo un’ora e mezza circa farcita di bellezza, così tanta che si fatica a contenerla in un semplice live report, perché l’iniziale Monument, o Vi Er Uendelig (noi siamo eterni, come ci traduce Caspar), quasi una ninna nanna, piuttosto che The Colour Not Of Love erano state già capaci di irradiare e riempire di magia la piazza, tutta, compresi i vuoti dei distanziamenti, e abbracciare e abbracciarci, sotto la stessa luna, sotto lo stesso campanile che sovrasta il palco.

Una scaletta che attinge principalmente da Piramida e dall’ultimo Altid Sammen, che alterna brani in lingua inglese a brani in danese, e per quei strani, sovrannaturali, inspiegabili meccanismi che solo la musica dal vivo sa creare, sulle note Hold Mine Hænder, tutto il pubblico diventa d’incanto connazionale dei sette sul palco, e per alcuni dolci minuti un canone delicato e sognante tra palco e platea rende più di qualche occhio lucido (eccomi).

Sedna apre i numerosi encore, a cui fa seguito una Black Summer arricchita da una coda di sfacciata bellezza (Siv Øyunn Kjenstad, sappi che sei una meraviglia dietro a quella batteria, ed hai una voce celestiale, e meglio se mi fermo). A questo punto del concerto la famosa quarta parete è stata già abbattuta da tempo, sulle note di The Ghost, Caspar Clausen si siede a bordo palco, a due metri dalla platea, gli si affianca il basso (e il baffetto) di Rasmus Stolberg, il pubblico si alza in piedi e parte un convinto battimani a tempo, si avverte palpabile la sensazione che in condizioni “normali” tutto il pubblico sarebbe già da tempo sotto il palco, a ballare e a cantare, ma non si può, non ancora, per cui “se Maometto non va alla montagna…”, ecco che Alike mette i titoli di coda, con i sette che, uno strumento a testa (tra i quali i cucchiaini e una diamonica), totalmente in acustico, scendono dal palco, percorrono con molto rispetto il periplo di piazza Castello, e voglio pensare che non sia stato un caso che le ultime parole cantate in questa serata indimenticabile siano state queste:

The days are gone and the game was fun
The path was wrong, but it gave us hope
The more we found, the more we grew
Upon the truth, upon the truth
And it made us feel alike

 

Alberto Adustini