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Tag: cecilia guerra

Le Endrigo e la genuinità del cambiamento

Avevamo fatto due chiacchiere con Le Endrigo nel 2019, poco prima dell’Indie Pride Festival.
Due anni dopo la band pubblica l’album Le Endrigo per Garrincha Dischi e ad oggi conta due nuovi singoli, l’ultimo, Uno, Due, è uscito il 1° luglio.

 

L’ultima volta che abbiamo parlato è stato nel 2019 poco prima dell’Indie Pride Festival. Sono passati quasi tre anni e sono successe un sacco di cose. Intanto, come state?

“Alti e bassi come prima, ma per fortuna siamo ancora qui a fare ciò che amiamo.”

 

Nell’occasione dell’Indie Pride Festival avevamo discusso di attivismo contro omotransfobia, bullismo e sessismo. Ci avevate risposto così: “[…] quando non ne parliamo con la musica, lo facciamo sul palco, dal palco, comunicando tra una canzone e l’altra in modo più schietto. Il palco è per noi un riflettore e un momento importante per veicolare questi messaggi.” E non solo dal palco! A marzo dello scorso anno annunciate pubblicamente “Oggi muoiono Gli Endrigo e nascono Le Endrigo”. Qual è stata la spinta verso questo cambiamento? Ci sono state reazioni che non vi sareste aspettati?

“La spinta è nata dopo aver scritto Cose più grandi di te. Finalmente eravamo riusciti a convogliare messaggi a cui tenevamo con una formula che ci piacesse e non ci sembrasse troppo retorica. Sull’onda di questo abbiamo voluto portare ancora più in profondità il concetto, cambiando direttamente il nome alla band. Siamo stati sempre molto convinti una volta deciso di farlo, io personalmente penso che oggi scriverei un manifesto molto diverso, formulato meglio, ma c’era molta genuinità e sincerità e questo ci porta comunque ad esserne fieri. Nessuna reazione imprevista, forse pensavamo sarebbe stato più criticato ma in realtà è stato un piccolo gesto apprezzato dalle persone che volevamo supportare.”

 

Parliamo delle novità di quest’anno! Dopo Un santo, un ricco, un fascio, è uscito il 1° luglio il vostro nuovo singolo Uno, Due, che catapulta l’ascoltatore in una dimensione molto “live” ed elettronica. State sperimentando nuove sonorità?

“In realtà a livello di scrittura stiamo mantenendo più o meno la stessa direzione dell’ultimo album, però in studio stiamo giocando un po’ di più in fase di produzione e quindi sono uscite fuori delle sfumature nuove, cosa che ci rende molto contenti. Sicuramente continueremo in questa direzione, mentre dal vivo per ora tendiamo a tornare all’arrangiamento originale, ma anche qui se in futuro avremo i mezzi saremo molto felici di esplorare con altri strumenti e perché no anche musicisti sul palco.”

 

Questa per voi non è la prima esperienza al Donkey Studio di Medicina (BO). Vi ricordate la prima volta che ci siete entrati? C’è un aneddoto particolare che vi va di raccontarci? 

“La prima volta saremo sicuramente entrati mentre qualcuno che conosciamo stava registrando, ma difficile ricordarsi. Invece ricordiamo bene la prima volta che ci siamo entrati per registrare, due settimane in cui avremo dormito mezz’ora a notte e preso infiniti kg. Una volta rientrati ci sono voluti giorni di sonno per recuperare, mentre i kg sono ancora lì.”

 

Dopo lo stop causato dalla pandemia e dopo la recente esperienza a X-Factor, il vostro approccio alla performance live è cambiato? 

“Abbiamo capito che dobbiamo riscaldare la voce perché siamo invecchiati, per il resto nessun cambiamento clamoroso ma nel nostro piccolo abbiamo provato a diventare più professionali dal punto di vista della preparazione del live. Poi spesso dopo la prima nota va tutto in malora e si torna alla vecchia scuola.”

 

Momento curiosità: come scegliete la scaletta per i concerti? La preparate insieme, di getto o è pensata attentamente?

“Di solito prepariamo una scaletta ipotetica per ogni tour, ad esempio una primaverile e una estiva, giusto per fare in modo che chi torna a vederci non senta gli stessi pezzi. Poi tendiamo a cambiare alcune cose in corsa a seconda della serata, ad esempio se c’è poca gente sotto palco facciamo un pezzo che ci aiuti a fare avvicinare, mentre se va tutto come deve andare ci piace seguire lo snodo che ci siamo prefissati, che appunto è pensato con un criterio di crescendo e calando per poi ricrescere. Questa estate stiamo aggiungendo una cover acustica spesso diversa e mezza improvvisata al momento in caso ci chiedano i bis, oppure se la serata è particolarmente bella finiamo il concerto in mezzo alla gente con la chitarra acustica senza microfoni. In più spesso chiamiamo amici e amiche musicist* delle varie città dove suoniamo per fare qualcosa assieme sul palco. Sono tutte piccole cose per mantenere innanzitutto noi sempre carichi, e in più regalare un po’ di varietà a chi si fa magari più date nello stesso tour, magari pure giorni consecutivi.”

 

Per chiudere, progetti futuri e prossimi live?

“Per i live trovate tutto sul nostro Instagram, per quanto riguarda il futuro abbiamo il solito punto di domanda gigante con una serie di possibili risposte che non vediamo l’ora di darci e darvi.”

 

Cecilia Guerra

Kokoroko @ Acieloaperto X

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• Kokoroko •

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A C I E L O A P E R T O  X

Rocca Malatestiana (Cesena) // 12 Luglio 2022

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_empty_space][vc_column_text]Ricordo la prima volta in cui ho ascoltato i Kokoroko: festa in casa, occasione non pervenuta. Classica serata tra amici: chiacchiere, cibo, alcol e musica di sottofondo.
Riccardo, un amico, mi dice “hai mai sentito loro? Sono una bomba”. Mi passa il telefono con Abusey Junction in riproduzione e impazziamo insieme.

Il giorno seguente, appena sveglia, li inserisco immediatamente nella mia playlist e da quel momento sono sempre stati una gran presa bene!

Collettivo Afrobeat di Londra fondato dalla trombettista Sheila Maurice-Grey, i Kokoroko sono Richie Seivwright (trombone e voci), Yohan Kebede (tastiere), Ayo Salawu (batteria), Tobi Adenaike (chitarra), Onome Edgeworth (percussioni) e Duane Atherley (basso). Dopo il grande successo del brano Abusey Junction e del loro omonimo EP del 2019, quest’anno i Kokoroko ci regalano i singoli Something’s Going On, We Give Thanks e Age of Ascent, lasciando tutti con il fiato sospeso in attesa del disco di esordio Could We Be More, in uscita il 5 agosto per Brownswood Recordings.

E oggi finalmente posso vederli dal vivo in questo magnifico posto che è la Rocca Malatestiana di Cesena nel contesto della rassegna acieloaperto.

Per arrivare alla location c’è un percorso in salita che mi fa rimpiangere di aver mangiato troppe pizzette all’aperitivo. La vista però vale assolutamente la pena. La Rocca è illuminata da grandi fari ed è molto suggestiva. Mi guardo intorno e già c’è musica live: Devon Miles Project e Savana Funk sullo stage B. Scaldano la serata e scaldano noi. C’è una bella situazione, familiare, amichevole e raccolta. 

Ore 21 circa la gente si avvicina al palco principale, qualcuno si siede a terra nell’attesa. 

Ed eccoli finalmente! I Kokoroko salgono sul palco. Li applaudiamo timidamente ma loro partono a bomba. Bando alle ciance, qui si fa musica. 

L’apertura è travolgente. La presenza di ognuno dei musicisti si fa sentire. Il sound è ipnotico e complesso, i fiati si intrecciano e poi lasciano spazio alle percussioni e al basso che tirano da morire. E le voci… strumenti anche loro. 

Già all’inizio ho l’impressione che la band non si fermi mai. Siamo talmente trascinati dai ritmi che ciondoliamo, ci culliamo sulle nostre gambe. È un’estasi continua.

Torniamo nel presente solo nell’attimo in cui Sheila annuncia Carry Me Home, un pezzo del 2019 con un incredibile solo di synth anni ’70.

Il bello dei Kokoroko è che sono un collettivo, un gruppo in qualsiasi senso delle parole. Manifestano una grande energia sul palco, trasmettono positive vibes e sono lì per comunicare con gli ascoltatori attraverso il mezzo più potente che possiedono: la musica. 

Così Yohan, che, come ci racconta Tobi, ha studiato per molti anni il piano, vorrebbe farci ascoltare qualcosa. A.O.A è una coccola: le percussioni delicatissime, la dinamica della batteria e la tromba, in un accompagnamento che si rivela romanticissimo sotto la luna piena. 

Il concerto prosegue e ci gasa sempre di più. Integrity e Caribou ci rendono liberi e balliamo a ritmo di samba jazz, battiamo le mani e i piedi. I Kokoroko si godono il palco e noi ci godiamo loro.

Finalmente Onome presenta il gruppo e annuncia Something’s Going On, un pezzo che in molti aspettavano. Il primo singolo pubblicato quest’anno dalla band che preannunciava già qualcosa di eccezionale. 

Siamo alla fine. I Kokoroko si inchinano, salutano e scendono dal palco. Il pubblico li applaude. 

Parte la musica di sottofondo, quella bastarda che ti fa capire che è quasi ora di tornare a casa. Richiamiamo la band sul palco ma siamo già rassegnati e aspettiamo l’accensione delle luci, altra spia malevola di fine concerto. 

E invece…

…Ayo sale sul palco, annuncia un’ultima canzone ma con una richiesta: dobbiamo scatenarci! E che ce lo dici a fare! 

Faremo come il jazz, andremo d’impulso!

 

Cecilia Guerra

Foto di Isabella Monti
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Fickle Friends “Are We Gonna Be Alright?” (Cooking Vinyl, 2022)

Basta una scintilla

A quattro anni dall’album di debutto You Are Someone Else – finito subito nella TOP 10 dell’Official Albums Chart – e a poco più di un anno dai due EP della serie Weird Years, i Fickle Friends tornano con il nuovo Are We Gonna Be Alright? per Cooking Vinyl. Natassja Shiner (voce e tastiere), Harry Herrington (basso e voce), Sam Morris (batteria) e Jack Wilson (tastiere) creano un album super pop che raccoglie dodici pezzi dal groove unico. 

Protagonisti i sintetizzatori, le chitarre frenetiche, incisive e i ritmi serrati. L’album trasmette tutte le sensazioni che abbiamo vissuto e sperimentato sulle montagne russe di questi due anni di pandemia: amore, tristezza, voglia di leggerezza, disperazione, desiderio di tornare a vivere nella nostra realtà. 

Are We Gonna Be Alright? è lo specchio e allo stesso tempo la reazione a tutto ciò. È quello che fa la musica: ci aiuta a capire, a vedere con occhi diversi, a processare.

Il primo brano è una dichiarazione d’amore: Love You To Death. Un pezzo che, grazie alla sua semplicità, permette alla chitarra e alle voci di giocare incessantemente, trasportandoci, rendendo impossibile il distacco del corpo. La stessa voglia di ballare che trasmette Alone, un tormentone! Una di quelle canzoni che ti vien voglia di sentire a ripetizione. “Everybody, everyone, ain’t nobody going home, ‘cause I don’t wanna be alone”! Spensieratezza e divertimento genuino. I Fickle Friends ci ricordano che basta davvero poco per stare bene, basta la socialità. E proprio Glow è un incoraggiamento a non dare per scontate quelle persone che ci fanno felici, che ci rammentano quanto possiamo essere raggianti, brillanti. Vanno celebrate, vissute, ringraziate: “You’re not a therapist but I don’t care you’re much better than that”.

In tutto il lavoro dei Fickle Friends si alternano vibrazioni positive e propositive a emozioni malinconiche, angosciate. Yeah Yeah Yeah è il brano musicalmente più pesante dell’album, è una bomba electro rock. Un pezzo che manifesta la disperazione e la pazzia da cui veniamo catturati nelle giornate che sembrano senza fine e senza scopo. Il tempo è già passato e “what have I done?”. Una sensazione comune racchiusa nell’incredibile Not Okay, un manifesto di questo periodo, un brano che ci colpisce, ci inquieta, poi ci abbraccia e rassicura.

Il disco si conclude con una tormentata Are We Gonna Be Alright? Il brano grida la paura che tutto ciò che stiamo vivendo sia impossibile da superare, che questa esperienza non ci riconduca a una vita sociale. Are We Gonna Be Alright? urla il terrore che la lontananza spenga il nostro fuoco.

Ed è vero, la pandemia ci ha soffocato, ci ha negato l’arte e la sua espressione dal vivo ma non ha estinto la fiamma degli artisti e di chi ama la musica. 

Quindi vale la pena ricordare un fondamento: basta una scintilla per farci ardere di nuovo!

 

Fickle Friends

Are We Gonna Be Alright?

Cooking Vinyl

 

Cecilia Guerra

Tim Hart: being happy with what you have

Leggi questo articolo in Italiano qui

With his new upcoming album Winning Hand (Nettwerk Records) about to be released, we took the chance to ask a few questions to Tim Hart on this intimate and contemplative work recorded with Simon Berkelman at the Golden Retriever Studios in Sydney.

 

How did Winning Hand come to life and what does the title stand for?

Winning Hand for me is the concept of being happy with what you have and not always looking enviously to all those around you. It for me is a very freeing concept.”

 

Is there a red thread through Winning Hand

“The album is almost a tour diary that I’ve written over a couple of years of touring. At times it’s about what’s going on in my mind and at times about what’s going on around me. There’s lots about love and family and loss. Ultimately Winning Hand is about discovering a sense of self.”

 

In your third single Steady as She Goes you talk about what home is to you. What is then “home” during these difficult times? Do you think that its meaning has changed?

“When I wrote this song I was writing less about a place and more about a feeling. A sense of belonging. I know that sounds strange because I mention Sydney. But it’s more how being around friends and family make me feel. And in that sense it hasn’t really changed. You can feel just as at home while going through the horrible times we currently are I think.”

 

This is the first time recording your album with a full band. Can you tell us something more about this decision? 

“Recording with the full band was a way of me letting go of control. Previous albums I have played the majority of instruments. This time I just wanted to focus on the songs and let other great players focus on their thing!”

 

How was born the collaboration with Bianca Braithwaite and her artwork?

“Bianca is such a talented artist in many mediums. I was really drawn to the honesty and detail of what she does. She was amazing at getting what was in my head into artwork. She is very very talented!”

 

You have created a mixtape on Spotify that you update every month. How do you select the songs you add?

“I love creating these playlist and the simple answer is that I love listening to lots of music. Last year when lockdown started I realised I’d been so immersed in the music world that I stopped loving the simple pleasure of listening to music. That’s why I make these playlists to share and discover new music with other people.”

 

Cecilia Guerra

Tim Hart: essere felici con quello che si ha

Read this article in English here

In occasione dell’imminente uscita del suo nuovo album Winning Hand (Nettwerk Records), abbiamo fatto due chiacchiere con Tim Hart riguardo a questo suo lavoro intimo e riflessivo registrato con Simon Berkelman nei Golden Retriever Studios a Sidney. 

 

Com’è nato Winning Hand e cosa significa questo titolo?

“Per me Winning hand rappresenta il concetto dell’essere felici con quello che si ha e non guardando sempre con invidia le persone attorno. Questo concetto per me è molto liberatorio.”

 

C’è un fil rouge in Winning Hand?

“L’album è quasi un diario che ho scritto durante un paio d’anni in giro in tournée. In certi passaggi parla di quello che mi passava per la testa e in altri momenti di quello che succedeva intorno a me. C’è un sacco d’amore e famiglia e perdita. Si può dire che Winning Hand racconta la scoperta di un senso di consapevolezza di sé.”

 

Nel tuo terzo singolo Steady as She Goes, parli di cos’è per te “casa”. Cosa vuol dire in questo periodo così difficile? Credi che il significato di “casa” sia cambiato?

“Quando ho scritto questa canzone non mi riferivo tanto a un posto quanto a un sentimento. Un senso di appartenenza. So che suona strano visto che cito Sydney ma si tratta più di come mi fa sentire lo stare insieme agli amici e alla famiglia. E in quel senso il significato (di casa, NdR) non è molto cambiato. Puoi sentirti a casa anche durante il periodo orribile che stiamo vivendo, credo.” 

 

Questa è la prima volta che registri un tuo album con una band. Puoi dirci qualcosa in più circa questa decisione?

“Registrare con una band al completo è stato un modo per me per mollare la presa. Negli album precedenti ho suonato la maggior parte degli strumenti. Questa volta volevo solamente concentrarmi sulle canzoni e lasciare altri grandi musicisti concentrarsi sulle loro cose!”

 

Com’è nata la collaborazione con Bianca Braithwaite e con i suoi lavori?

“Bianca è un’artista molto talentuosa su più fronti. Sono stato attratto dall’onestà e dai dettagli di ciò che fa. È stata fantastica nel trasformare in opere d’arte quello che era nella mia testa. È davvero molto talentuosa!”

 

Su Spotify hai creato un mixtape che aggiorni ogni mese. Come scegli le canzoni? 

“Amo creare queste playlist e la semplice risposta è che amo ascoltare molta musica. L’anno scorso, quando è iniziato il lockdown, mi sono reso conto di essere stato così immerso nel mondo della musica che avevo smesso di amare il semplice piacere di ascoltare musica. Ecco perché faccio queste playlist, per condividerle con altre persone e scoprire nuova musica.”

 

Cecilia Guerra

Moltheni “Senza Eredità” (La Tempesta Dischi, 2020)

Ne è passato di tempo, caro Moltheni. 

Dopo undici anni da Ingrediente novus, esce Senza Eredità per La Tempesta Dischi. 

Quest’album recupera, riadatta e completa quelle canzoni che non avevano trovato posto in nessun disco di Moltheni (Umberto Maria Giardini) dal 1998 e rappresenta la chiusura di un progetto senza eredi, senza eredità.

Non è stato affatto facile trovare le parole per descrivere questo ascolto. Lo ha detto Moltheni stesso in Spavaldo: “La mia identità puoi tradurla ma il vocabolario non ce l’hai”, ed è proprio vero.

Questo disco è un tuffo nell’indie-rock e negli anni Novanta ma non solo. Gli organi e il Rhodes piano mi riportano anche più indietro, ai tempi di Stevie Wonder. Così, l’outro funkeggiante di La mia libertà, pezzo in apertura dell’album, trasmette quella sensazione di leggerezza definendo la libertà come “Il dito medio temerario [che] attende tranquillo che arrivi il mio turno con te”.

La stessa leggerezza che ritrovo in Estate 1983. Il ritorno all’adolescenza è dolce come una carezza e fa riscoprire i sapori delle piccole cose. Gli arpeggi sono un treno ed ogni fermata è un ricordo lontano. La destinazione sembra essere la nostalgia, un sentimento che cresce sul finale del brano ma che Moltheni scaccia grazie al mantra: “ignorare il tempo”. 

A dispetto del titolo, Il quinto malumore ha lo sprint necessario per essere considerato il pezzo più rock di questo album. Le chitarre me lo confermano. 

Tutte quelle cose che non ho fatto in tempo a dirti è l’ascolto che chiude l’album. In questo periodo di difficile gestione psicologica, la ripetizione incessante della “follia che abitava abusiva in un appartamento della mente mia” mi abbraccia e si insinua nella mente, tanto da farmi sentire quel disagio.

Questo disco dalle mille sfaccettature affronta una grande varietà di temi: la libertà, l’amore, la verità, il dolore, temi costanti e senza tempo, temi che non si esauriscono. E forse, proprio per questo, non è del tutto vero che la chiusura di Moltheni sia “Senza Eredità”. 

 

Moltheni

Senza Eredità

La Tempesta Dischi

 

Cecilia Guerra

Lucio Leoni “Dove Sei Pt.2” (Blackcandy Produzioni, 2020)

Dove Sei è qui e adesso. 

Il 15 ottobre 2020 è uscito Dove Sei Pt.2 di Lucio Leoni per Lapidarie Incisioni e Blackcandy Produzioni. Con questo album l’artista romano conclude il suo terzo progetto discografico presentato in due parti, la prima uscita lo scorso maggio. Il lavoro abbraccia temi intimi ed emozioni globali e questa recensione si rifà alle immagini che appaiono nella mia mente durante l’ascolto. 

L’album si apre con L’archivio segreto di Galileo, un inno all’amore universale, quello del “non pensare troppo” ma ama e basta. “Facciamo un gioco e chi ride per primo ci giochiamo un bacio”, un bacio che prende la rincorsa spalancando il ritornello a una danza libera e scatenata. Il passaggio musicale dalla quiete ai ritmi ska è un’esplosione. I fiati finali sono inaspettati e ricordano qualcosa di magico, come quando sei a teatro in trepida attesa e gli strumentisti stanno accordando. 

Casa ti riporta alla realtà, è come uno schiaffo e ti avverte di quanto dimentichi in fretta l’energia dei sentimenti passati; di quanto, con il tempo, svanisca la profondità delle sensazioni. Casa è un posto in cui vuoi creare quelle emozioni, casa è dove vuoi. Ma “Dov’è dove vuoi? Dov’è casa?”. E se non riesci a rispondere, che sia a una persona o che sia al mare, tu dì solamente: “portami dove vuoi, portami a casa”.

A volte però a casa non ti senti sicuro, Francesca ce lo dimostra. Questo brano è una lettera di una moglie angosciata, spaventata: “Partiamo che ci sono gli avvoltoi e che qui c’è una congiura, partiamo che se non lo facciamo poi ci viene paura.” Nel pezzo, i fiati sembrano urla strazianti che ti squarciano l’anima e ti costringono a sentire.

Questa canzone è la lettera mai scritta da Francesca Morvillo al marito Giovanni Falcone.

Proprio delle partenze parla Autodifesa, quelle che ti fanno dire “basta, mollo tutto”. Ma quanto è vera questa affermazione? “Quanto cambia il contesto quando tu resti uguale”? Autodifesa ti induce a riflettere sulla necessità di provare qualcosa.

Questo viaggio nei sentimenti prosegue e Quasi Mi Spaventa l’intimità di questo brano che ti permette di concentrarti sul testo e sulle sensazioni trasmesse dal canto a volte sussurrato di Lucio Leoni. In risposta alla sua voce, si intervallano suoni che ricordano tuoni lontani e “se si apre il cielo ci viene voglia di ballare un tango”. Una canzone che parla dei rapporti con confidenza e per immagini.

La familiarità delle emozioni descritte dall’artista viene rafforzata in Per Sempre, una dedica al tempo, allo spazio e alle persone. Durante la pandemia, questa canzone sembra rappresentare un pensiero universale. La mancanza delle giornate passate con gli amici ci angoscia e ci addolora ma il ricordo di quei momenti felici sovrasta la tristezza, ci abbraccia e ci rassicura “come in macchina quando freno però ti metto un braccio davanti”.

E infine, un susseguirsi di immagini difficili da rincorrere. Nastro Magnetico in collaborazione con i Mokadelic è una sceneggiatura che Lucio Leoni racconta, recita. Ti spiega tutto ma non ti spiega niente. Ti ritrovi più confuso del momento in cui pensavi di non aver capito nulla. Il brano però ti ha ipnotizzano già dal principio, quando ti è sembrato di sentire il canto di una sirena. Ed è questa la forza del pezzo: ti incuriosisce e ti porta ad ascoltarlo più volte. 

In questo periodo storico complesso, Dove Sei è un progetto che ti fa riflettere. I suoni, le parole, le immagini e le doppie voci che ricorrono per tutto l’album, ti stringono e ti fanno capire che non sei solo, sei Dove Sei.

 

Lucio Leoni

Dove Sei Pt.2

Lapidarie Incisioni / Blackcandy Produzioni

 

Cecilia Guerra

Lenire i malumori con il nuovo Calendario di Erbe officinali

Erbe officinali sono Riccardo, Daniel, Tiziano, Alessandro ed Elia. Il loro progetto nasce e cresce a Terracina, nel Lazio. 

Nel 2017 vincono il contest musicale per artisti emergenti di Anxur Festival con il singolo Quello che c’è fuori. Nel 2018 esce il loro primo disco Sospesi. Da quell’anno ad oggi pubblicano Schiena, Isola, Un altro mondo e l’ultimo arrivato: Calendario. In attesa del nuovo album, abbiamo fatto due chiacchiere con Riccardo e Daniel. 

 

È uscito il 7 Aprile il vostro nuovo singolo Calendario. Cosa racconta?

Riccardo: “In poche parole Calendario racconta di una certa fase della vita nella quale ti ritrovi tra due generazioni: quella precedente, durante la quale vai ballare tutte le sere e quella successiva, in cui ci si è sistemati, si ha famiglia eccetera. C’è un punto, una sorta di limbo nell’intermezzo, dove ti ritrovi a non fare più certe cose, a stare a casa sul divano a guardare Netflix, a ordinare pizze d’asporto e a bere birra. La canzone non parla di questo in maniera negativa, infatti nel ritornello diciamo: “Sono tutte le cose che non mi va di fare più”. Questo rappresenta una sorta di autoconsapevolezza raggiunta, una presa di coscienza.” 

 

In una vostra recente intervista ho letto che entrambi avete in comune una tendenza all’ansia e all’ipocondria e che, per fronteggiare questi malumori, solitamente usate rimedi naturali a base di erbe officinali (da qui il nome della band). In questo periodo dove l’ansia fa da padrona, le uniche cosa che ci mantengono sereni sono la speranza e l’ottimismo. Come si trasforma l’ansia in ottimismo?

Daniel: “Con la follia” (ride)

Riccardo: “Sinceramente non lo so. Non ho una ricetta per questo. Si potrebbe provare a cambiare qualche abitudine e far uscire qualcosa di positivo da questa cosa che sta accadendo. Noi lo facciamo attraverso le canzoni. Io ad esempio sto scrivendo moltissimo in questo periodo ma lo faccio per puro esercizio terapeutico. Ognuno ha il proprio modo per esorcizzare l’ansia.
Il periodo in cui abbiamo deciso di mettere su questa band, era un periodo di smarrimento generale nelle nostre vite personali, vuoi per la fine di un amore, vuoi per qualcosa di apparentemente banale come il non sapere quale università scegliere. La musica e il progetto Erbe Officinali ci dà una mano, è una via di fuga da quello che accade intorno. Per quanto mi riguarda la musica è terapeutica ma ognuno può trovare il suo modo per esorcizzare qualcosa. Alla fine, l’ansia è una manifestazione di un sentimento sottostante, quindi alle volte basta cambiare qualcosa, un pensiero o magari basta soltanto prendersi più cura di sé stesso.” 

 

Solitamente come create un pezzo? E com’è comporre in questo periodo di isolamento e distanza?

Daniel: “In realtà per noi non cambia niente in questo periodo perché scriviamo sempre a distanza. Credo che la differenza la faccia l’ispirazione che per alcuni può essere amplificata ma al momento per me è un po’ diminuita perché ci sono pochi stimoli dall’esterno: esci poco, vivi poche situazioni, conosci poca gente nuova, non vedi le persone a cui vuoi bene che sono quelle che ti scaturiscono l’ispirazione. Il nostro processo creativo però non cambia perché la nostra è sempre una staffetta Whatsapp tra me e Riccardo. Ci mandiamo quello che scriviamo e aggiustiamo il tiro nota audio dopo nota audio.”

 

Rispetto al vostro primo album del 2018 Sospesi, il vostro sound è cambiato? Cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo album? 

Daniel: “Sicuramente rispetto al primo album è cambiato molto l’approccio alla musicalità che abbiamo e anche la produzione. Il primo disco infatti è stato più un esperimento perché è nato dal nostro incontro, un po’ per caso e non avevamo idee chiare. Ci siamo fatti trascinare dal flusso di emozioni del momento e abbiamo messo su il primo album. Dagli ultimi singoli abbiamo iniziato a studiare e a percorrere sonorità più moderne e molto più elettroniche e quindi dal prossimo album c’è da aspettarsi una cosa completamente diversa.”

Riccardo: “Essendo autodidatti non avevamo nessun tipo di bagaglio esperienziale, per questo il primo disco è stato totalmente genuino. C’è stato un lavoro dietro ma non abbiamo pensato di fare una ricerca dei suoni e infatti è un disco molto acustico e molto crudo anche dal punto di vista delle produzioni: chitarra acustica, batteria… molto classico se possiamo dirla così. Mentre, come ha detto Daniel, dai singoli successivi fino all’ultimo, in particolar modo negli ultimi due o tre abbiamo cominciato a sperimentare molto di più e abbiamo cercato un suono che fosse più riconoscibile possibile. Quindi il prossimo disco sarà totalmente diverso dal primo e sicuramente molto più fresco nelle sonorità.”

 

Potete però dirci come passa la quarantena un musicista?  

Daniel: “Per quanto mi riguarda, del lato del musicista resta la chitarra: ogni giorno mi passa tra le mani perché ce l’ho qua in faccia ed è impossibile evitarla. Personalmente però sono molto meno ispirato quindi suono pezzi che mi piacciono ma non riesco a creare cose nuove. Poi vabbè, Netflix, videogiochi nel mio caso (che sono un po’ nerd) e qualche lettura.”

Riccardo: “Io dal punto di vista artistico sto scrivendo tanto, però lo faccio perché è una cosa che mi piace fare quando non ho niente da fare. Ovviamente non è detto che quello che scrivo sia qualitativamente utilizzabile per un lavoro, perché ci si ritrova spesso a scrivere delle stesse cose poiché gli stimoli non sono tanti. Si prova ad andare un po’ più lontano con l’immaginazione ma stando dentro quattro mura non è molto facile. Comunque sto scrivendo e chissà che qualcosa non esca dal cilindro. Per il resto, durante la mia giornata faccio le stesse cose che ha detto Daniel tranne per i videogiochi (non ho la playstation), porto fuori il cane, vado a fare la spesa, vado in farmacia e cose di questo tipo.”

 

Cecilia Guerra

Lui si chiama Giovanni e il suo nome è un plurale

È uscito il 22 marzo scorso Poesia e Civiltà, il nuovo album di Giovanni Truppi per Virgin Records. Il cantautore, originario di Napoli ma romano di adozione, sta portando live il suo nuovo lavoro di undici pezzi per tutta l’Italia. Gli abbiamo fatto qualche domanda poco prima del suo concerto, il 6 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. 

 

Stasera suonerai qui all’Auditorium: com’è suonare in un posto del genere, con delle persone sedute? Come la vivi?

Con molta paura (sorride). Ovviamente è bellissimo. Non è che io faccia rock ma comunque mi ritrovo a suonare molto spesso in dei contesti che in qualche modo hanno delle caratteristiche quantomeno poco rumorose. Il silenzio è bellissimo perché ti permette di fare il tipo di performance che ti eri immaginato ma allo stesso tempo è una grande lente di ingrandimento su quello che fai e ti dà più responsabilità.”

 

Con Poesia e civiltà vi ritrovate in sei sul palco. Questo sicuramente permette di riprodurre l’album in modo quasi del tutto fedele (tranne che per gli archi). Suonare con una band così allargata è una cosa che avresti sempre voluto oppure è stata una necessità propria dell’album?

Durante la mia carriera ho fatto tutte le combinazioni: tanti live da solo, tanti in duo, tanti in trio e tanti in quartetto. Mi manca il quintetto. Comunque, era una necessità per questo disco ma in realtà adesso non mi immagino di suonare con meno persone perché mi trovo molto bene in questo complesso. Facendo il cantautore mi posso permettere di vestire le canzoni in tanti modi diversi e quindi è anche bello poter cambiare.”

 

Il 22 novembre è uscita Mia con Calcutta. Il brano anticipa un EP che uscirà a gennaio. Com’è nata la collaborazione con Calcutta e l’idea di un fumetto che accompagnasse la canzone?

Sia Edoardo (Calcutta) sia Antonio Pronostico sono persone con cui c’era già un rapporto di stima. Ci conosciamo da tanto tempo e quindi è stato tutto piuttosto naturale.”

 

Il nuovo EP si chiamerà 5 e al suo interno ci saranno alcune canzoni che già conosciamo e che hai rivisitato insieme ad altri artisti ed altre completamente nuove. Come mai hai deciso di reinterpretare le tue canzoni con altri musicisti?

Non saprei dirti… In realtà è nato tutto in maniera abbastanza spontanea. Io avevo questa idea e chiacchierando con la mia casa discografica abbiamo pensato di realizzarla prima dell’uscita di un album, di un nuovo vero album. Ci sono degli artisti con cui ero molto contento di poter fare delle cose e da qui è nato il tutto.”

 

Sai che Scomparire è stata cantata a X Factor da Eugenio, su proposta di Mara Maionchi. Come ti ha fatto sentire questa cosa? 

Mi ha fatto moltissimo piacere. Considerato l’ambito nel quale io mi muovo, che è molto lontano da X Factor, il fatto di poter interloquire con quella realtà mi ha fatto piacere. Quando ti rendi conto che riesci a parlare anche a persone che magari sulla carta sono diverse da te, credo che sia una cosa che dà soddisfazione.”

 

Credo di poter dire che ci sono artisti che danno più importanza al testo, altri alla musica e altri ancora che ricercano un equilibrio tra le due cose. Ti identifichi in una di queste categorie? Ci sono pezzi dove la musica per te ha più valore del testo, se così possiamo dire, o viceversa?

Mi rendo conto che spesso ascoltando le mie cose possa sembrare che io dia una rilevanza maggiore al testo. Però penso che per far venire fuori il testo in un certo modo, sia fondamentale una musica di un certo tipo. Quindi non riesco proprio a immaginarmi una bilancia dove c’è un elemento che pesa di più e credo che questa sia la magia delle canzoni.”

 

Truppi 2

 

Cecilia Guerra

Foto: Simone Asciutti

Giovanni Truppi @ Auditorium Parco della Musica

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• Giovanni Truppi •

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Auditorium Parco della Musica (Roma) // 06 Dicembre 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_empty_space][vc_column_text]Venerdì 6 Dicembre siamo stati a Roma al concerto di Giovanni Truppi. Poesia e civiltà è l’album di undici pezzi inediti che il cantautore napoletano sta portando in tour da Aprile di quest’anno. 

Entrando all’Auditorium Parco della Musica si percepisce un’atmosfera elegante, molto diversa da quella dei concerti a cui siamo abituati. La sala Sinopoli è ampia, accogliente e raffinata nella sua semplicità. 

Si abbassano le luci in sala e si accendono sul palco, illuminando ogni singolo strumento. Non c’è scenografia ma solamente uno sfondo nero come un abisso. La band entra in scena: Giovanni Truppi (chitarra, piano e voce), Paolo Mongardi (batteria), Giovanni Pallotti (basso), Daniele Fiaschi (chitarra), Duilio Galioto (tastiere) e Nicoletta Nardi (voce e tastiere) si posizionano. 

È L’Unica Oltre l’Amore, uno dei singoli, ad aprire il concerto. “Noi siamo, viviamo, ci percepiamo in questo spazio e in questo tempo” canta Truppi che si muove dalla chitarra al piano. Il pubblico è concentratissimo e viene avvolto dalla voce di Nicoletta Nardi che coccola e che trasporta in un altro universo, rendendo questo pezzo un perfetto primo impatto.  

Da qui la musica è incessante e le canzoni si susseguono una dietro l’altra, interrotte soltanto da qualche “grazie”. Conoscersi in una Situazione di Difficoltà, Adamo, Mia. Durante il concerto vengono proiettate delle luci sullo sfondo, semplicissime, perché non serve altro. L’attenzione della sala è tutta sulla band.

L’altro singolo, Borghesia, è un pezzo dalle dinamiche incredibili “per avere sempre un po’ di più, un pochino di più”. Scomparire rimarca le straordinarie capacità vocali ed emozionali del cantante che alla fine della canzone lascia il palco insieme al suo gruppo, accompagnato da forti applausi.

Applausi che non si arrestano se non al rientro di Truppi, solo: si siede al piano, una luce lo illumina. “Quando ridi mi fa pensare alle cascate di carta argentata che da bambino facevo per il presepe e quando sono insieme a te che c’è intimità è così calda e viscerale che qualche volta un po’ mi spaventa”. Quando Ridi ci abbraccia, ci fa sentire uniti, ci fa sentire soli, ci fa piangere. È il momento più intimo e privato del concerto e lo è per ognuno di noi. 

La band rientra e suona Pirata, Hai Messo Incinta una Scema, Ragazzi. 

Tutti si alzano: è standing ovation per Poesia e civiltà. [/vc_column_text][vc_column_text]

Testo: Cecilia Guerra

Foto: Simone Asciutti

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Grazie a: Ponderosa Music & Art | Parole e Dintorni

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Gerolamo Sacco ha fatto un viaggio in Mondi Nuovi

Gerolamo Sacco inizia la sua carriera come DJ a soli 19 anni. Dopo la laurea in Storia della Musica Moderna e Contemporanea fonda nel 2007 Miraloop, la prima casa discografica creata da musicisti. Mondi Nuovi è il suo secondo album da cantautore uscito quest’anno per Miraloop.

 

È uscito il tuo nuovo concept album Mondi Nuovi. Cosa racconta?

Mondi Nuovi è una storia, è un racconto che va dalla prima all’ultima traccia, per questo lo abbiamo definito un concept album. Sono 15 canzoni disposte non casualmente la cui narrazione ha diversi piani di lettura, cosa che tra l’altro si ritrova spesso nei racconti e nei film di fantascienza, e in effetti è la storia del viaggio spaziale di una persona (che chiameremo M). M si trova sulla Terra per le prime tre tracce, vive in una società che è quella che è e i suoi sogni sono molto difficili come anche il rapporto che ha con un’altra persona (che chiameremo N). Infatti, nella terza traccia Momo (Qui), i due si lasciano e M decide di partire con un’astronave e di fare un viaggio per cercare nuove energie nello spazio. Da lì in poi inizierà a scoprire delle cose di sé stesso che non aveva messo in conto e la sua personalità si formerà e cambierà gradualmente. M parte da una situazione in cui c’è un problema, come quello di una storia finita, per cui vuole mollare tutto, però durante il viaggio e grazie ai mondi che scoprirà, arriverà a ricercare la bellezza e la serenità e questo cambierà i suoi valori, i suoi presupposti: quando M sarà nello spazio, incontrerà di nuovo N ed avrà tutta un’altra consapevolezza. Per cui ci sono due narrazioni parallele: una del viaggio di fantascienza e l’altra delle tematiche che vengono raccontate nel disco.  Quello che ho trovato bello è che ogni ascoltatore ci mette del suo, in base alle proprie esperienze e quindi questo album diventa una crescita, un percorso diverso per ogni persona.” 

 

Nel singolo Casa Mia scrivi “E mastico le rime che di notte appaiono”. In effetti molti dei tuoi testi sono in rima o comunque contengono assonanze. C’è un motivo particolare per cui scegli di scrivere in rima? E dunque componi maggiormente di notte?

“Si, compongo maggiormente di notte, non per scelta ma perché di notte mi viene più facile in quanto non ho distrazioni. Con il lavoro che faccio ho tempo di gestirmi le cose come voglio ma durante la giornata è un continuo succedersi di eventi, invece di notte capita che hai delle ore consecutive dove non hai distrazioni. E secondo me la prima condizione che uno deve cercare per essere creativo è l’assenza del tempo e dell’influenza esterna. E questo di notte viene naturale perché si perde un po’ la percezione del tempo. Di notte è più facile.
Per quanto riguarda le rime è una questione musicale. Vado a ricercare la rima perché la trovo bella musicalmente; mi piace quando c’è musicalità e la rima spesso aiuta.” 

 

L’amore per gli altri e per sé stessi sembra essere un filo conduttore nelle tracce del tuo album. È l’amore che muove tutto?

“Mmmhhh… Si, è forse la cosa più importante. Non è l’unica tematica, però è un filo. In Deserto, M parte con l’astronave, viene scagliato nel vuoto e la prima cosa che vede è il primo mondo: il deserto, non quello da cui è partito ma il deserto dentro sé stesso. Quella traccia parla per esempio di questo lato dell’amore, quello per una persona e quello per sé stessi, parla della capacità di guardarsi dentro e di accettarsi per quello che si è. In Casa Mia c’è l’amore per la società, nonostante noi umani siamo un disastro, in Stelle Dipinte (che sarà il secondo singolo) c’è l’amore per i sogni e per i rapporti, in Momo (Qui) c’è l’amore per una persona… in ogni traccia c’è un diverso tipo di amore. Non voglio essere banale ma è un po’ come dici tu: l’amore muove tutto se letto in questo modo.” 

 

Ci puoi dire due parole sulle collaborazioni presenti nel disco? Come sono nate?

Virginia Paone ha suonato la chitarra e alcuni testi li ho scritti in collaborazione con Senatore Cirenga che è il progetto cantautorale di Jacopo di Donato. È tutto nato all’interno di Miraloop, infatti con alcuni artisti con cui si lavora, si instaura un rapporto anche creativo. Avevo già sentito Senatore Cirenga dal primo pezzo pubblicato con Miraloop, Il Banco Vince, e ho detto “lui è un genio, facciamo qualcosa insieme”. Avevo già qualche idea sviluppata e lui da linguista mi ha aiutato a scrivere diverse tracce. Oltretutto è la prima volta che mi capita di lavorare sui testi insieme ad un’altra persona.” 

 

Mondi Nuovi è uscito per Miraloop, casa discografica che hai fondato nel 2007 insieme a Niccolò Sacco e Michele Casetti. Com’è farsi da produttore e quanto è importante la libertà di espressione nella musica? 

“La libertà è tutto. È il valore fondante di Miraloop e io lo applico meglio che posso. Secondo me quando fai queste cose, se le fai senza libertà di espressione non vale la pena neanche farle. Quando impari a fare il produttore, bene o male impari a lavorare su ogni genere e a valorizzare tutto. Nel mio progetto mi diverto però a fare qualcosa che è un po’ rischioso ma io lo adoro, e cioè cerco di valorizzare testo e traccia, facendo cose che non ho mai sentito. Forse i Mondi Nuovi lo sono un po’ anche musicalmente. Questo fatto nell’ascoltatore può creare un effetto strano ma ogni pezzo è come se fosse un genere a sé: Cinema è come una traccia di progressive rallentata in italiano, alcune canzoni sono rock anni ’70… Insomma, hanno dei riferimenti ma sempre creando mondi diversi. Da produttore di me stesso mi diverto a giocare su queste cose. La difficoltà è sicuramente l’obiettività, infatti chiedo sempre consigli soprattutto ai non addetti ai lavori perché non mi fido di me stesso.”

 

Dove porterai questo album live? Hai concerti in programma?

“Mi sto preparando e vorrei portarlo live in acustico (chitarra e voce, pianoforte e voce) o alternato alle basi, per dare una visione diversa delle canzoni. Volevo staccare un po’ la parte della produzione del disco su cui ho molto lavorato e portare dal vivo una cosa diversa.” 

 

Curiosità: nella tua pagina Facebook, tra i tuoi interessi si legge “tarocchi”. Puoi dirci qualcosa su questa passione?

“In realtà non sono un appassionato di tarocchi in senso stretto. Mi piace la simbologia che c’è dietro, che è quella dei quattro elementi. Quando è stata fondata Miraloop, abbiamo creato una realtà capace di lavorare su qualsiasi tipo di creatività in quanto vogliamo lasciare libertà di espressione illimitata. Quindi non potevamo fare delle etichette di genere che connotassero in partenza le produzioni. Ho cercato un po’ in giro e ho letto che gli antichi dividevano in quattro qualsiasi cosa dello scibile umano. Per esempio, nei tarocchi ci sono i quattro semi conosciuti che rappresentano quattro modi diversi di vivere e vedere la vita. Per cui abbiamo fatto le etichette di Miraloop secondo questa divisione e ci abbiamo preso; corrispondono ai simboli di istinto, emozioni, ricchezza e bellezza, e sperimentazione. Leggere Jodorowsky mi ha aiutato a delimitare tutte queste cose qua. Quindi l’interesse per questo mondo è molto legato al progetto di Miraloop.”

 

Cecilia Guerra

Animatronic “REC” (La Tempesta Dischi, 2019)

E non sono pupazzi!

 

È uscito REC, il primo album degli Animatronic per La Tempesta Dischi. 

Luca Ferrari alla batteria, Nico Atzori al basso e Luca “Worm” Terzi alla chitarra, hanno registrato in presa diretta il loro primo lavoro, un disco composto da 15 tracce strumentali (sono pochissimi gli interventi vocali) con le sonorità del rock progressivo. Gli Animatronic ci coinvolgono in un mondo di intrecci musicali, di tempi dispari ma anche di melodie ambient e riprese grunge.

Teddy Red & Jenny Ride è la traccia che apre l’album e non poteva essere altrimenti. Frammenti prorompenti e frenetici si alternano a passaggi dalle contaminazioni jazz quasi a ricordarci “di come i Weather Report erano forti”.

Si prosegue con il singolo Fl1pper#, pezzo che incarna il gioco in ogni suo componente. Tu sei la biglia e gli Animatronic sono le alette del flipper: ti spingono su per la rampa di lancio e ti sbalzano ovunque, ti lasciano scivolare giù per poi farti rimbalzare sui bumper. Spingono talmente forte che finisci in TILT.

Le immagini continuano con In Cubo, fantastico gioco di parole che rappresenta a pieno la sensazione che trasmette la traccia. Ci si sente come rinchiusi in un posto buio, un cubo senza via di uscita. Lo strumentale angosciante e minaccioso è più lento rispetto al resto del disco e la chitarra conserva una nota insistente, che ti ossessiona come la voglia di uscire alla luce del sole. Improvvisamente ha inizio la lotta, le pareti si spaccano ma dalle crepe non entra nessun bagliore. Si esce dal cubo ma non dall’incubo.

Ghostreck è la nona traccia, la più romantica, nostalgica, forse anche struggente. Ma ogni pezzo non è ciò che sembra e cambia in continuazione pur mantenendo una circolarità interna. 

Questo accade in Zabran, dove esordisce una chitarra funky che si smentisce pochissimi secondi dopo, passando a fraseggi così rapidi tanto da proiettarti in un mondo riprodotto al doppio della velocità.

Fanki!? sorprende con voci sospirate, serpentesche, molto contemporanee che rendono il disco, registrato in presa diretta, ancora più vivo e se possibile ancora più live.

L’album, pur essendo quasi completamente strumentale, non annoia mai. La musica degli Animatronic nasce dal piacere e dalla voglia di suonare, quindi non c’è spazio per la monotonia, non c’è spazio per la noia. REC non è il disco “che meritavamo ma quello di cui avevamo bisogno”. 

 

Animatronic

REC

La Tempesta Dischi, 2019

 

Cecilia Guerra

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