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Tag: cinzia moriana veccia

ReCover #7 – Pixies “Doolittle”

• Una scimmia andalusa •

 

Fu il mio professore di fumetto a consigliarmi di ascoltare i Pixies, un giorno a lezione.

All’epoca frequentavo l’università, e siccome non avevo un soldo in tasca lavoravo in un ostello come portiere notturno: in cambio di alloggio, s’intende, non di soldi.

Dovendo star sveglia tutta la notte avevo sette ore libere per studiare, guardare film e ascoltare musica, e Doolittle dei Pixies fu parte della mia colonna sonora di quell’anno folle e senza sonno.

Prima traccia, Debaser: iniziai a saltellare sulla sedia nel silenzio della reception; al secondo ascolto, che faccio sempre con testo alla mano, quasi non caddi dalla sedia: “I am un chien andalusia”.

E qua capisco che l’ambizione dell’album è grande, e la dichiarazione d’intenti limpida.

Quella frase in particolare fa riferimento al capolavoro cinematografico Un Chien Andalou del 1929, diretto da Luis Buñuel e Salvador Dalí, che definire solo come cortometraggio surrealista sarebbe sminuirne la grandiosità e l’importanza che ebbe nella storia dell’arte.

Le interpretazioni della pellicola son tante, ma ciò che è chiaro è la forza con cui s’impone nei confronti dello spettatore e nei confronti della settima arte stessa: nella prima scena il Buñuel-personaggio taglia l’occhio della sua compagna, e così facendo Buñuel-regista taglia l’occhio dello spettatore, che al tempo mai si sarebbe aspettato di vedere una scena simile.

Il frontman della band Black Francis, appassionato di cinema surrealista, in un intervista disse che “se provi a spiegare il mistero che c’è in qualcosa che hai scritto, ciò che prima sembrava destinato all’eternità in un attimo diventa stupido”.

Ad esempio Monkey Gone to Heaven all’inizio era solo una frase che Black Francis usava per il gancio, ma che poi decise di lasciare così perché funzionava. La stessa bassista Kim Deal ammise di non conoscere nemmeno le parole e il significato di molte canzoni.

La matrice surrealista è evidente e coerente nel lavoro che fecero Simon Larbalestier e Vaughan Oliver nella realizzazione della cover dell’album, pubblicato nell’Aprile del 1989. Cercarono di raccontare per immagini i testi sotto l’ottica grottesca e underground dei Pixies.

I due artisti ebbero accesso ai testi del nuovo album (opportunità rara per chi crea le cover) e ciò consentì loro di averne ben chiaro lo spirito prima di mettersi a lavoro sul booklet, cosa che a detta di entrambi fece la differenza.

Si può dire che la carriera dei Pixies sia cominciata insieme a quella del fotografo Larbalestier con l’uscita di Come On Pilgrim (1987), e da questo momento il suo lavoro si lega indissolubilmente per lungo tempo con quello del graphic designer Oliver, recentemente scomparso all’età di 62 anni.

Le foto per Doolittle racchiudevano un mix di interessi e tematiche care a Larbalestier, Oliver e Black Francis: macabro, surrealismo, angoscia ed esistenzialismo.

La produzione chiese a Larbalestier di realizzare dei lavori a colori, per distanziarsi dai precedenti album monocromatici, ma il fotografo ignorò totalmente le raccomandazioni e scattò tutte le foto in bianco e nero.

La richiesta venne soddisfatta dall’intervento di Olivier, che aggiunse texture e geometrie rimanendo comunque fedele allo spirito decadente degli scatti: ottennero così il mix di surrealismo e grunge perfetto per raccontare visivamente l’album.

Una tecnica utilizzata dagli artisti surrealisti era quella del Cadavre Exquisit, una sorta di staffetta creativa in cui ognuno aggiunge il suo contributo all’opera attingendo dall’inconscio, e il modo in cui si è lavorato all’album mi ha ricordato molto questa tecnica.

Infatti una volta ricevuti i testi via fax da Black Francis, Larbalestier lavorò da solo agli scatti, realizzando set specifici per ciascun’immagine, e usando un solo rullino per set, in modo da ottenere un risultato preciso.

Una volta conclusi gli shooting passò il materiale a Oliver, che diede il tocco di colore richiesto.

Fu un lavoro di squadra ma soprattutto di fiducia reciproca, grazia alla quale diedero vita ad una cover unica.

“Se qualcuno ha avuto una grande influenza su di me è stato proprio David Lynch. Lui ti mette davanti qualcosa ma non te la spiega”.

Fu un altro cineasta dunque ad ispirare fortemente Black Francis, che con Eraserhead conquistò la sua attenzione tanto che i Pixies fecero una cover di In Heaven, la canzone della celebre Lady In The Radiator del film.

Non a caso anche il cinema di Lynch ha una forte influenza surrealista, sebbene incasellarlo in un’unica corrente artistica sia impossibile.

L’interesse principale di Lynch è infatti quello di scavare al di sotto della realtà delle cose, andando oltre l’apparenza: ce lo dice chiaramente all’inizio di Blue Velvet (1986), con una scena che è entrata nei libri di storia del cinema. 

Curioso come questo viaggio sia iniziato con un occhio tagliato e si concluda con un orecchio mozzato; due pellicole in cui tutto è in contrasto: luce e ombra, sonno e veglia, realtà e sogno. 

Esattamente come in Doolittle, esattamente come il mio anno in Ostello.

 

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Cinzia Moriana Veccia

ReCover #6 – The Velvet Underground “The Velvet Underground & Nico”

• La banana sospesa nel tempo •

 

“È solo l’ennesima provocazione”.

Queste sono le parole di chi cerca una logica nell’opera dell’artista contemporaneo, e anche di chi rimanendone spiazzato rimpiange i bei tempi dell’arte contemplativa, quella “vera”.

Perché qua si tratta solo di una banana decontestualizzata e c’è sempre qualcuno che ripete con sdegno “lo so fare anch’io”.

Un attimo, ma di quale banana sto parlando esattamente? 

Beh, liberi di scegliere il soggetto, visto che nonostante siano passati più di 50 anni il dibattito si ripropone sempre uguale a se stesso.

Lo scorso dicembre Maurizio Cattelan ha esposto Comedian su una parete dello stand di Emmanuel Perrotin ad Art Basel Miami Beach, ovvero un’installazione costituita da una banana incollata alla parete con del nastro adesivo.

Nel marzo del 1967 The Velvet Underground debuttarono con The Velvet Underground & Nico che sarà ricordato come il “banana album” proprio per la sua iconica cover realizzata da Andy Warhol. 

L’album non fu un gran successo al momento dell’uscita, ma si guadagnò un posto nella storia col tempo, e i Velvet Underground furono d’ispirazione per la nascita di generi come il punk, l’alternative rock, la new wave, il noise rock, e molti altri ancora.

Testi irriverenti, tematiche scandalose per l’epoca e le sonorità ben lontane da ciò che si trovava in cima alle classifiche: uno spirito provocatorio che ben si concilia con la cover creata da Warhol, che nelle prime copie in edizione limitata presentava una banana adesiva che poteva essere sbucciata veramente, come invita a fare la scritta “peel slowly and see”, rivelando una banana rosa poco equivocabile.

Purtroppo come spesso succede nei progetti più ambiziosi i costi erano eccessivi, per cui solo i più fortunati possono vantarsi di poter veramente interagire con l’artwork.

È curioso come il re della Pop Art abbia prodotto una band underground, e proprio come con qualsiasi altra sua opera d’arte si sia limitato a metterci una firma sopra, intervenendo il mimino indispensabile: è proprio grazie a questa libertà che il gruppo poté esprimersi appieno, e godere della visibilità data dal proprio mecenate.

Dunque abbiamo un frutto che viaggia nella storia dell’arte, diventa un pezzo d’immaginario collettivo, icona pop, rimando palese ad un tabù e quindi trait d’union fra cultura bassa e alta: un significante estremamente ricco di significati insomma, rivisitato nel corso della storia dell’arte da Botero e De Chirico, per citarne alcuni, e come abbiamo visto il mese scorso particolare folle aggiunto all’illustrazione di Grandville nella copertina di Innuendo dei Queen.

Warhol e Cattelan hanno in comune alcune caratteristiche: entrambi giocano con gli strumenti forniti dai mass media, e sono perfettamente consapevoli della percezione che ne hanno le persone.

Entrambi icone pop che in quanto tali mettono in crisi i concetti stereotipati di arte e artista, proponendo al mercato dell’arte opere che chiunque può trovare al supermercato, e fondendo insieme l’idea di merce con quella di opera.

Entrambi considerati da molti quanto di più lontano e superficiale ci possa essere nel mondo dell’arte, ma entrambi specchio della contemporaneità ed esponenti di un nichilismo totalizzante.

Opere d’arte, esseri viventi, oggetti d’uso comune, animali in tassidermia: tutti simulacri senza referente, tutti allo stesso livello, tutti sospesi nel tempo grazie all’Arte.

È difficile guardarsi allo specchio ed essere sinceri con se stessi, ed è proprio questo che fa la Pop Art: ci descrive senza mezzi termini o censure.

Ma, chi più chi meno, cerchiamo di proteggerci da questo ritratto troppo schietto da digerire, troppo vuoto e senza un fine ultimo. La dismorfofobia è una brutta bestia.

Molto più semplice crearci sopra dei meme, ironizzare sull’assurdità dell’intera vicenda, fuggire dal disagio latente che ci provoca per poi accendere la TV o qualsiasi social, e farci tutti insieme una bella risata: qualcuno su cui ridere si trova sempre, ci fa sentire migliori di quanto sappiamo di non essere realmente.

O come ha fatto l’artista David Datuna, diventato un “meme nel meme”, che ha dato sfogo al desiderio di molti nel mangiare la banana da 120.000 dollari di Cattelan in quella che ha definito una performance artistica, Hungry Artist.

D’altronde si riduce sempre ad una dimostrazione di potere, no?

 

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Cinzia Moriana Veccia

ReCover #5 – Queen “Innuendo”

• A ritmo di una danza surreale •

 

È all’incirca l’una e mezzo del pomeriggio, sto tornando a casa da lavoro col solito carico di pensieri e stanchezza palpebrale: non mi accorgo che il DJ alla radio ha annunciato la mia canzone preferita dei Queen, Freddie Mercury comincia a cantare e in automatico le lacrime scendono. 

Il perché succeda questo ogni volta che sento i Queen, nei miei quasi trent’anni non l’ho mai capito: avevo qualche mese quando l’album uscì, per cui ero troppo piccola per ricordare quando il 24 Novembre dello stesso anno Freddie scomparve; sebbene abbia stampato nella memoria il ricordo di me a circa 4 anni, inginocchiata sui sedili posteriori dell’auto e la testa incastrata tra i poggiatesta, mentre nelle casse risuonava una voce celestiale. 

La silhouette di Freddie Mercury nella cover della cassetta di Made in Heaven lasciava spazio alla mia fantasia: lo immaginavo alto, moro, coi capelli lunghi e senza baffi: mia mamma me l’aveva sempre descritto come bellissimo e con gli stessi baffi di mio padre, ma per me aveva più che altro un “carattere” che mi trasmetteva una forza indescrivibile, aveva la forma della sua voce.

Questa piccola digressione basta a giustificare l’emozione che provo ogni volta che sento i Queen? No. Sia chiaro, ho fatto le mie ricerche ed è un’esperienza condivisa. La mia migliore amica tempo fa mi disse “è tutto normale: è Freddie!”.

Forse è vero, è semplicemente Freddie.

Ma non è della mia amata cover blu di Made in Heaven di cui dobbiamo parlare oggi, ma di quella di Innuendo, uscito il 5 Febbraio del 1991, a soli 20 mesi di distanza da The Miracle: musicalmente un ritorno alle origini, per la felicità dei fan di lunga data. Il titolo stesso alludeva ai fasti di A night at the opera, e il singolo omonimo all’album ne ricalca il tono solenne.

Il processo di registrazione fu lungo a causa della malattia di Freddie Mercury, ancora nascosta al pubblico: ad ogni tre settimane di lavoro ne seguivano due di stop. 

Per la prima volta in copertina non troviamo i volti dei membri del gruppo, ma un’illustrazione di metà Ottocento riadattata e colorata da Richard Gray e Angela Lumley, che si occuparono dell’intero artwork.

L’idea fu del batterista Roger Taylor, che vide l’illustrazione in un vecchio libro e la propose come copertina. 

Jean Ignace Isidore Gérard, noto con lo pseudonimo di Grandville, è l’autore dell’ormai celebre illustrazione. Scomparso anch’esso giovane a soli 43 anni, Grandville ebbe una carriera estremamente prolifica. Si divideva fra caricatura e satira politica, illustrazione editoriale, grafica, ma fu molto di più che un eccellente illustratore: la sua mente, come fa quella dei grandi artisti guardava oltre il suo tempo, e le sue opere divennero fonte d’ispirazione per il movimento Surrealista.

Charles Baudelaire, che scrisse numerosi saggi sugli illustratori più influenti del proprio secolo, non aveva molta stima di Grandville: davanti ai lavori dell’artista provava disagio e inquietudine “come in un appartamento in cui il disordine è sistematicamente organizzato, dove bizzarre cornici poggiano sul pavimento, dove i dipinti sembrano distorti da una lente ottica, dove gli oggetti vengono deformati se spinti insieme, angoli in cui i mobili hanno i piedi in aria e in cui i cassetti spingono invece di estrarsi”.

I commenti del tutto percettivi, sono stranamente superficiali sebbene pronunciati dal padre del Simbolismo, ed estremamente classicisti per provenire dal padre della Modernità.

Nell’intera produzione artistica di Grandville c’è una forte disgiunzione fra le opere di maggior successo e quelle che passarono in sordina. Il critico contemporaneo Charles François Farcy, nel cercare di spiegare i vari tipi di graphic design ha stabilito una scala gerarchica di qualità: il primo livello è quello del piacere derivante dall’apparenza fisica del soggetto; il secondo livello riguarda i lavori che trattano questioni filosofiche e morali.

Ne consegue che alla prima categoria appartengono le opere più “facili” e pop, mentre alla seconda quelle di più difficile lettura, ma più valide artisticamente.

Per cui i lavori su commissione come Le Fiabe di La Fontaine, Don Chisciotte, I Viaggi di Gulliver, Robinson Crusoe, riscossero un grande successo, ma erano progetti editoriali estremamente rigidi dal punto di vista creativo: non lasciavano spazio ad un illustratore come Grandville di poter intervenire liberamente, poiché il lungo processo di produzione non consentiva sgarri e l’illustrazione era subordinata al testo.

Per cui la necessità di creare un libro del tutto “suo” lo portò a mettere nero su bianco Un Altro Mondo, il libro illustrato da cui i Queen trassero la cover per Innuendo.

Quanto di più vicino al concetto di albo illustrato contemporaneo ci possa essere, Un Altro Mondo mette in scena una vicenda in cui le immagini, protagoniste, mandano avanti una meta-narrazione accompagnata da pochissimo testo, un viaggio in cui gli antieroi scoprono un mondo altro, del tutto ribaltato ma spietato specchio di quello reale. La vera satira la fece proprio con questo libro, riuscendo a mettere in luce le assurdità della realtà tramite inversioni di ruolo che di norma hanno il compito di rafforzare lo status quo nel mostrare l’assurdità dei contrari, ma che in questo caso sortiscono l’effetto contrario: mettere tutto in discussione.

Con l’illustrazione Il Giocoliere, Grandville ci mostra la nostra insignificanza con un immagine apparentemente giocosa, che però dopo qualche secondo ci lascia un sorriso amaro.

È curioso come proprio questa illustrazione sia finita casualmente per essere la copertina di Innuendo: la band sapeva che sarebbe stato l’ultimo album con Freddie, e l’intero progetto rimane avvolto da un’atmosfera inquieta ma distesa, serena ma malinconica.

Ho trovato lo spirito di Un Altro Mondo estremamente in linea con I’m Going Slightly Mad: anche il videoclip ne condivide l’atmosfera surreale, con Freddie che indossa un casco di banane, Brian May con un becco da pinguino, Roger Taylor con un bollitore in testa e John Deacon con un cappello da giullare; per non parlare delle analogie tra il testo di Innuendo e Il Giocoliere di Grandville, il Matto, colui che danza al ritmo della sua melodia interna; libero di essere se stesso, consapevole della sua brevità su questa terra.

Nessuna maschera, non è più The Great Pretender, ma “anything you want to be”.

 

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Cinzia Moriana Veccia

ReCover #4 – Led Zeppelin “Led Zeppelin”

• Tra archetipi e furti nell’epoca della riproducibilità tecnica •

 

“Mi ritrovo molto a trattenere il respiro”, dice George Hardie. “Ti chiedi perché sei così stanco alla fine di una giornata di disegno ed è perché quando ti concentri su come ottenere una linea perfetta, trattieni sempre il respiro.”

Purtroppo nella vicenda che lo lega ai Led Zeppelin Hardie dovette trattenere il respiro per motivi ben diversi.

Stimato illustratore e graphic designer, con una cinquantina di anni d’esperienza alle spalle, Hardie fa del suo metodo di lavoro una cifra stilistica: tramite composizioni pulite e linee perfette l’illustratore riesce ad andare diretto al fulcro della questione, con l’immediatezza comunicativa propria solo dei grandi professionisti.

Tutto rigorosamente realizzato con tecniche tradizionali, come un monaco Zen alla ricerca dell’enso perfetto.

Sulla sua lavagna luminosa sovrappone i vari disegni che ha creato per poi unirli in un unico disegno finale, un processo che va avanti finché non è soddisfatto del risultato, ripulito da ogni traccia di errore: un rituale che parte dal concetto per arrivare a comunicare l’essenziale.

Ma in che modo il percorso artistico di Hardie si lega a quello dei Led Zeppelin?

Era il 1969 quando l’illustratore venne contattato per occuparsi della cover del primo album della band emergente britannica, incarico che gli fruttò ben 60 sterline.

L’iconica copertina raffigura un fatto storico avvenuto nel 1937 in New Jersey, il cosiddetto “disastro di Hindenburg”: durante un volo il dirigibile Zeppelin prese fuoco e si distrusse nel giro di circa mezzo minuto, provocando la morte di 36 persone.

Fu un idea di Jimmy Page quella di usare l’immagine della tragedia come copertina del loro primo album, sfruttando l’impatto visivo che l’immagine del disastro rievocava ma usandone una sua reinterpretazione grafica. 

Un episodio drammatico, un album drammatico, una dichiarazione drammatica, disse Page.

Ma le prime proposte di Hardie vennero tutte scartate. 

Con un “no” secco Page aprì un libro e indicando una fotografia disse “ecco quello che voglio”: si trattava di una fotografia di Sam Shere che immortalava il dirigibile qualche secondo prima di esplodere.

Così l’illustratore si mise a lavoro e senza troppo entusiasmo riprodusse l’immagine con una tecnica mista, mezzatinta e rapidografo, riuscendo ad alterarla a sufficienza da non violare il copyright.

L’idea originale di Hardie venne usata comunque come logo sulla copertina posteriore dei primi due album, ma non riuscì mai ad andare fiero di quel lavoro creato senza una vera rielaborazione del concept.

Un concept che le parole dette da Page esprimevano alla perfezione: quella dei Led Zeppelin sarebbe dovuta essere una cover drammatica.

Venuta a conoscenza della storia dietro questa iconica copertina mi è stato immediato l’accostamento del simbolo della band alla settima carta dei Tarocchi, l’Arcano Maggiore Il Carro.

È infatti l’archetipo dell’equilibrio, che due forze opposte fra loro riescono a tenere in carreggiata nonostante le difficoltà incontrate sul loro percorso. 

E così fu per lungo tempo per la band, finché lo Zeppelin non si autodistrusse veramente, quasi come se quella prima cover fosse stato un triste presagio.

L’idea per l’artwork era così chiara per i Led Zeppelin da non ammettere alternativa, tanto che Hardie si ritrovò a copiare una fotografia.

Non è la prima volta nella storia dell’arte -nel suo senso più ampio- che ci troviamo di fronte ad un “furto”, tutt’altro ne è una componente fondamentale: ne sa qualcosa Molière, che si nutrì delle opere di Plauto, il padre della commedia latina. O ancora Collodi, che per il suo Pinocchio rubò parecchio dal primo romanzo della storia, Le metamorfosi di Apuleio.

Negli anni 60 Andy Warhol portò all’estremo il concetto di “riproducibilità tecnica nell’arte” teorizzato da Walter Benjamin, basandone la sua intera produzione artistica, rubando a piene mani dagli scaffali del supermercato e dalla cultura pop. E recentemente Cattelan, in collaborazione con il direttore creativo di Gucci Alessandro Michele, ha addirittura rubato il titolo e il manifesto della celebre performance di Marina Abramovich The Artist is Present, cosa che ha suscitato la solita irritazione generale quando si parla dell’artista.

L’ irritazione è un sentimento diffuso quando si associa l’arte al copiare: come se chi crea dovesse tirar fuori le idee dal suo personalissimo è originalissimo iperuranio, come se si ignorasse il fatto che senza l’Arte Giapponese non ci sarebbe stato Van Gogh, senza Manet nessun Impressionismo, senza Cézanne nessun object trouvé di Duchamp, per cui niente ready made di Warhol, e niente Cattelan.

Senza Steve Marriott forse la voce di Robert Plant non sarebbe esplosa, senza Muddy Waters il genio di Jimmy Page non si sarebbe potuto esprimere appieno, e senza la sua arroganza e determinazione la cover del primo album dei Led Zeppelin non avrebbe avuto lo stesso impatto. 

“I veri geni copiano” diceva Federico Fellini, e a questo punto immagino che si possa concordare con lui su tutta la linea. 

Ma quindi… questi Greta Van Fleet?

 

 

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Cinzia Moriana Veccia

ReCover #3 – The Rolling Stones “Their Satanic Majesties Request”

• All’ombra dei cuori solitari •

 

Dopo le crisi esistenziali causate dai precedenti album ho deciso di dedicare il terzo numero di questa rubrica ad un album del 1967, che con i suoi colori e la sua atmosfera spensierata ci aiuta a smorzare la tensione del periodo natalizio (non mentite, so che anche voi elfi di Babbo Natale siete sull’orlo di una crisi di nervi): sto parlando dell’album più incompreso e forse meno amato dei The Rolling Stones: Their Satanic Majesties Request.

Già dal titolo possiamo coglierne una dichiarazione d’intenti, che nel caso degli Stones è sempre provocatoria ed irriverente.

La giovanissima band si lasciò candidamente ispirare, trasportare e avvolgere dalla psichedelia — e dal successo — di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, il celebre capolavoro della band che nello stesso anno fece il boom di incassi.

In ogni fiaba che si rispetti c’è un antagonista che si oppone alla figura dell’eroe, ed ecco che i Rolling Stones erano perfetti per interpretarne la parte, in contrapposizione all’immagine candida dei Beatles.

Probabilmente fu anche a causa di questa narrazione conflittuale tra le due band, costruita ad hoc dai media, che TSMR venne visto come un tentativo fallito di rincorrere Sgt. Pepper.

Ma la realtà era ben diversa: la stampa continuava a dipingere la relazione tra i due gruppi come aspra e conflittuale, i ribelli contro i bravi ragazzi, e la gente ci credeva: per cui gli Stones stanchi della situazione decisero di comunicare tramite la cover come stavano le cose. 

Nascosti tra i fiori di TSMR ci sono i volti dei Beatles, come nel vestito della bambola di Shirley Temple nelle cover di Sgt. Pepper possiamo leggere “Welcome The Rolling Stones”: era il loro modo di esplicitare al pubblico con un dialogo silenzioso il profondo rispetto che provavano a vicenda.

Ulteriore prova ne è il brano Sing This All Together in cui possiamo sentire le voci di John Lennon e Paul McCartney.

E così dalle pennellate nere con cui Mick Jagger solo l’anno prima voleva ricoprire qualsiasi cosa passiamo ad un arcobaleno di colori accecanti e piuttosto acidi, conditi con una bella dose di esoterismo. 

La prima cosa che fa storcere il naso di tutti è la copertina: una copia spudorata? O semplicemente gli Stones vogliono fare il verso ai loro acerrimi nemici? 

La prima proposta per la cover (Mick Jagger nudo su una croce) venne scartata dalla produzione perché di cattivo gusto, ma evidentemente lo spirito kitsch era alla base di questo album: non solo interpretarono l’ispirazione lisergica in maniera del tutto sopra le righe, ma rimasero coerenti all’eccesso anche dal punto di vista visivo.

Infatti gli Stones optarono per contattare Michael Cooper, il fotografo che si occupò della celebre foto di copertina di Sgt. Pepper e gli chiesero di fare qualcosa di simile.

Il design del booklet è opera di Michael Cooper: all’interno troviamo un labirinto con al centro la scritta “It’s Here” che, riferita al titolo, risulta irraggiungibile se si prova a percorrerlo; lo circonda un densissimo collage fotografico che contiene dozzine d’immagini fra le più disparate, dai dipinti di Poussin a ritratti indiani, fiori e mappe.

La quarta di copertina fu invece affidata all’illustratore Tony Meeuwissen, che raffigurò i quattro elementi all’interno di una cornice.

Per quanto simili le due copertine vennero realizzate con uno spirito opposto: se i Beatles non fecero altro che posare in un set rifinito di tutto punto e in tre ore andarono via, i Rolling Stones lavorarono fianco a fianco col fotografo, occupandosi persino di andare a comprare i costumi e costruire il set, come testimoniano le foto di reportage che scattò Cooper.

Fu proprio lui a proporre la copertina 3D della prima versione, proprio per fare uno step oltre il suo lavoro precedente.

Una delle poche attrezzature per il 3D stava a New York per cui dovettero tutti trasferirsi negli States, aumentando ancor di più i costi di produzione che già erano piuttosto elevati, tant’è che finirono per lanciare 500 copie in edizione limitata che finirono tra amici e parenti: se inclinata, l’immagine lenticolare mostrava le facce dei membri della band che si girano l’una verso l’altra, ad eccezione di Jagger che posa con le mani incrociate sul petto aprendole nell’animazione. 

Andiamo a concludere la narrazione di questa fiaba acida: TSMR non ebbe il successo sperato, i fan accolsero tiepidamente questo improvviso cambio di rotta e Mick Jagger stesso nel ‘95 rinnegò l’album considerandolo un esperimento fallito, di cui si salvano solo due canzoni e il resto è privo di senso.

Alla classica domanda “Beatles o Rolling Stones?” ho sempre risposto coi primi, anche solo perché il fatto di averli approfonditi di più, ma in questo caso faccio un’eccezione: di fronte alla grandezza mastodontica di Sgt. Pepper nutro un affetto particolare per Their Satanic Majesties Request, che rimane un tassello importante della storia della musica. Mi piace pensarlo come una lunga e caotica jam session, una piccola parentesi liberatoria in un momento in cui le vicende personali si intrecciavano ad un periodo storico piuttosto movimentato: a tutta questa complessità l’unica reazione giusta sembrava la libertà di espressione.

E così, con la mia illustrazione ho voluto omaggiare questa piccola pausa dal blues prolungandone la jam session coi miei strumenti.

 

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Cinzia Moriana Veccia

ReCover #2 – Pink Floyd “The Wall”

• Diario di un fallimento (?) •

 

Lavorare su un album come The Wall significa soffrire insieme a Pink, il suo protagonista. Una sofferenza che nel mio caso si è dilatata anche per la reinterpretazione della copertina.

Gerald Scarfe è un artista prolifico, in quanto nasce come vignettista e il suo tratto nervoso ne è la prova: graffia la carta creando personaggi folli, l’inchiostro diventa espressione di satira.

Scarfe non era affatto un fan dei Pink Floyd, fino a quando dopo averli visti in concerto a Finsbury Park nel ‘72 per il The Dark Side of the Moon Tour non se ne innamorò.

E così iniziarono a collaborare per video musicali, tournée e animazioni teatrali fino ad approdare a The Wall, il concept album più intimo di Roger Waters in cui si riversavano tematiche sull’isolamento e l’abbandono, e Scarfe sembrava essere la persona più adatta a dare vita all’universo visivo di The Wall creandone una mitologia ben precisa: abbiamo personaggi come la mamma, il maestro, l’ex moglie, il giudice, i martelli che abitano un paesaggio totalmente artificiale e oscuro.

Per contro la cover, definita da lui stesso un doodle, è quasi minimale, il muro di mattoncini bianchi che avvolge l’intero album è sporcato da una scritta aggiunta frettolosamente in via provvisoria solo per le pressioni della produzione, ma che alla fine è rimasta così, diventando iconica. 

Ma Scarfe non si è limitato al booklet: ha espanso questo mondo, che oscilla tra il surreale e il grottesco, occupandosi delle animazioni di Pink Floyd The Wall, il film del 1982 diretto da Alan Parker.

Ed ecco che per me le cose iniziano a complicarsi: come fare a racchiudere in una sola illustrazione tutto questo?

Come rielaborare un panorama visivo già così ricco, di cui è stato già detto tutto?

Come posso approcciarmi ad un animo così lontano dal mio dal punto di vista creativo?

“Is there anybody out there?”

Questa è l’eco che ha risuonato dentro di me per settimane: un vuoto densissimo mi ha paradossalmente imprigionato dentro a The Wall.

Ogni volta che guardo la cover un senso di angoscia mi assale: nell’osservare ogni mattoncino bianco penso a Pink, a come inesorabilmente, brano dopo brano, questi tasselli si siano posati l’uno sull’altro, fino a creare una parete così candida e ordinata da nascondere alla perfezione il mondo corrotto e sofferente in cui vive il protagonista, un ossimoro che ne amplifica la risonanza emotiva.

Ogni volta che ho tra le mani l’album mi chiedo da che parte del muro io stia: ma dalle prime note mi è subito chiaro.

La mia testa, piena di stimoli e informazioni, stava per esplodere senza riuscire a produrre alcunché, mentre la scadenza si avvicinava insieme al mio fallimento.

Ogni sketch corrispondeva ad un mio “no”, tutto troppo teatrale, tutto troppo tragico, troppo diverso da me o troppo uguale a ciò che già esisteva. 

Gerald Scarfe, un visionario iper-produttivo mi guardava dall’alto soffrire della sindrome opposta. 

Così mi sono fermata un attimo a pensare a cosa veramente mi è rimasto dentro di The Wall: ed è proprio il misto di impotenza, inquietudine e speranza delle parole “is there anybody out there”. 

Ho pensato allo stato d’animo di Pink che cerca la presenza di qualcuno sebbene sappia di essere solo.

Solo con un se stesso in subbuglio, irriconoscibile sia internamente che esternamente, e che mi ha subito riportato alla mente gli autoritratti di Francis Bacon e Edvard Munch, artisti che hanno esplorato largamente i territori della depressione esistenziale.

E così nella mia mente hanno iniziato a sovrapporsi alle illustrazioni di Scarfe le figure dei due artisti tormentati e le pennellate espressive dei loro dipinti, così come il volto di Pink interpretato da Bob Geldof, e quello di Syd Barrett, che come un fantasma aleggia per tutta la durata dell’ascolto.

La mia illustrazione non rappresenta affatto The Wall nella sua interezza, men che meno ha la pretesa di replicare lo stile di Scarfe: è solo una mia interpretazione di una dalle tante sfaccettature dell’album.

Però credo sia giusto ricordarsi più spesso, di questi tempi così affannosamente sempre di corsa, che fermarsi, talvolta fallire rispetto alle proprie aspettative è umano.

E va bene così.

 

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Cinzia Moriana Veccia

ReCover #1 – The Smashing Pumpkins “Mellon Collie and the Infinite Sadness”

• Un’anti-recensione •

 

Non avevo mai ascoltato interamente Mellon Collie and the Infinite Sadness, e a dirla tutta gli Smashing Pumpkins non sono mai stati nella rosa delle mie band preferite, per cui quando mi venne proposto di illustrare quest’album la presi come una sfida verso l’ignoto: certo, conoscevo le canzoni più famose del gruppo, ma non li avevo mai approfonditi più di tanto. E così, conquistata dal booklet e dalla figura femminile in copertina iniziai ad immergermi nell’universo di Mellon Collie.
In realtà mi ci sono proprio tuffata di testa, taccuino alla mano, ascoltando di fila tutti e ventotto i pezzi del doppio album, e da subito mi resi conto di quanto sarebbe stato complesso e al contempo elettrizzante cercare di racchiudere il tutto in una sola illustrazione.

Ho impiegato giorni per inglobare ogni singola nota, ogni parola, emozione per riuscire poi a metabolizzare emotivamente e mentalmente l’abnorme quantità di materiale, rendendomi conto con mia grande sorpresa che questo mondo a me quasi sconosciuto in realtà già mi apparteneva. Il perché l’ho capito quando ho realizzato che la band è riuscita a raccontare un qualcosa di estremamente complesso come la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’età adulta, un qualcosa di così universale per cui mi son sentita trasportare indietro nel tempo, risucchiata in un vortice di rabbia e amore, disagio e desiderio, leggerezza e solitudine, luce e ombra. 

E ovviamente la malinconia, collante e chiave di lettura dell’intero album che ci viene suggerita dal gioco di parole del titolo.

Mellon Collie è un album pieno di dicotomie e contraddizioni stridenti, a partire dal concept che lo divide in due parti nette: Dawn to Dusk e Twilight to Starlight.

Per me è stato un viaggio a ritroso nei sentimenti provati a quell’età, un viaggio così denso da rendere semplice il processo di empatia con la me stessa di dieci anni fa, coi ragazzi che ascoltarono l’album nel ’95 (che ammetto di aver invidiato non poco) e quelli che ne godranno in futuro, tutti noi col cuore spezzato confortati dalla musica degli Smashing Pumpkins.

C’è chi ha definito quest’album inascoltabile tutto d’un fiato, troppo caotico e ambizioso per il suo cercare di toccare un’ampissima moltitudine di generi diversi.
Probabilmente invece, per il solo fatto di essere così ambizioso incarna uno spirito decadente, lo stesso di chi desidera lasciare un segno indelebile nella storia: un cuore pulsante che brucia di volontà di espressione. 

Billy Corgan parla ai suoi simili, a chi come lui vive immerso nei dualismi, in un caos di influssi sempre più complesso, in cui non si può fare a meno di assorbire tutto ed infine filtrarlo tramite il proprio io creativo.

È un processo assimilato dagli Smashing Pumpkins ma anche dall’illustratore John Craig, che nel creare il booklet ha attinto dalla storia dell’arte in maniera spudorata, rielaborando ogni elemento con gli stilemi del proprio tempo, come i colori estremamente saturi che contribuiscono a rendere il clima surreale, ma soprattutto l’influsso dirompente del kitsch.

Molti dei lavori di Craig hanno un aspetto vintage, e ciò non è un caso: l’artista collezionava vecchie foto e immagini che raccoglieva nel suo laboratorio, pronte per essere utilizzate alla prima occasione.
Quest’occasione sembrò arrivare proprio con Mellon Collie, sebbene Corgan non ne fosse convinto fin da subito: per la sua copertina voleva assolutamente un artista che dipingesse in stile vittoriano, per cui visionato il portfolio di Craig decise di continuare a cercare il candidato perfetto. 

Ma dopo che nessuno fu entusiasta degli altri candidati, Corgan si dovette ricredere e venne chiesto a Craig di occuparsi, inizialmente, solo dell’interno del booklet.
Nonostante questo, Corgan rimase dubbioso finché non vide il primo collage, i due bambini nel prato di papaveri, sicché convinse tutti ad affidare a Craig anche il progetto copertina.

La selezione degli elementi del collage è stata una collaborazione tra Corgan e Craig alla fine della quale si è giunti al risultato finale che tutti conosciamo: la figura femminile sulla stella.

L’immagine è apparentemente semplice, ma si tratta di un abile assemblaggio di vari elementi incastonati alla perfezione fra loro. 

Il viso della donna appartiene al dipinto La Fedeltà di Jean Baptiste Greuze, pittore francese del ‘700 famoso per le sue fanciulle rappresentate in un misto di innocenza ed erotismo.
Il corpo invece è stato preso dal celebre dipinto di Raffaello Santa Caterina d’Alessandria, e adattato alla perfezione al volto con un abile lavoro di scanner.
L’origine degli altri elementi, invece, è un po’ meno aulica: la stella proviene da una pubblicità di un whisky, mentre lo sfondo stellato è stato preso da un’enciclopedia per bambini.

È proprio questa mescolanza di elementi alti e bassi, provenienti da ambiti lontanissimi fra loro, che vanno a creare un’opera visivamente tanto ricca da esprimere quel gusto decadente che Corgan cercava nell’arte vittoriana, ma che è riuscito ad ottenere ugualmente grazie al genio creativo di Craig.

D’altronde l’arte non è altro che lo specchio della società: abbiamo un collage visivo per Craig e un collage musicale per gli Smashing Pumpkins, entrambi legati insieme dall’abbraccio dolce-amaro di Mellon Collie, a cui ho voluto rendere omaggio pensandola come protagonista dell’album, un po’ alter ego di chi ascolta, un po’ allegoria contemporanea della malinconia.

 

Opera senza titolo

 

Cinzia Moriana Veccia