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Tag: daniel blumberg

VEZ5_2020: Alberto Adustini

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Mourning [A] BLKstar “The Cycle”

Collettivo di Cleveland che ruota attorno alla figura di Ra Washington, i Mourning [A] BLKstar hanno sfornato con The Cycle un disco monumentale, imponente e coraggioso. Odora di funk, di hip hop, di trip hop, c’è la black music, il soul, il tutto amalgamato in oltre sessanta minuti di godurioso ascolto. Scelgo tra tutti questa Sense Of An Ending, che ben racchiude le varie anime di questo capolavoro.

Traccia da non perdere: Sense Of An Ending

 

Daniel Blumberg “On&On”

Che Daniel Blumberg sia un genio non lo scopro certo io ma parliamo di un dato di fatto, un assunto incontrovertibile. Vederlo dal vivo è un’esperienza extra ordinaria, così come approcciarsi ai suoi dischi. Se avete amato il precedente Minus adorerete questo On&On, dove tra vette di cantautorato intimo e scarno aleggia sempre quel sentore di spirito libero, di improvvisazione e necessaria irrinunciabile tendenza all’abbandonare il sentiero battuto verso direttrici inesplorate.

Traccia da non perdere: On & On

 

Protomartyr “Ultimate Success Today”

I Protomartyr sono una mia grande, relativamente recente infatuazione, esplosa con lo scorso Relatives In Descent e consolidatasi con questo Processed By The Boys. Un disco che non ha le vette clamorose di Half Sister o di Here Is The Thing, ma è molto più consistente, convincente e, a conti fatti, superiore al predecessore. La base è la stessa, quel post punk con chitarre taglienti ed una sezione ritmica spaventosa, che trova la perfetta quadra con la voce distaccata come no di Joe Casey, ma a spiccare è il maggior azzardo sia a livello di arrangiamenti (comparse di sax e altri fiati qui e lì) che di scrittura e consapevolezza. Discone davvero.

Traccia da non perdere: I Am You Know

 

Keaton Henson “Monument”

Nel 2016 con Kindly Now Keaton Henson era stato il mio disco dell’anno e da allora era diventato il mio spirito guida, il mio faro, per me amante della musica triste o tristissima. Questo Monument è dedicato al padre recentemente scomparso ed è una lenta, accorata personale narrazione familiare, dove noi ascoltatori siamo privilegiati testimoni e necessari interlocutori.

Traccia da non perdere: Self Portrait

 

Waxahatchee “Saint Cloud”

Una delle sorprese per me dell’anno. Un disco che ho ascoltato e riascoltato e che mi ha fatto compagnia nei primi mesi di lockdown. Lei è Katie Crutchfield, statunitense, al quinto disco a nome Waxahatchee. E a mio avviso il migliore. Sarà che gli ingredienti che lo compongono sono tutti a me graditi, con reminiscenze di Macy Gray, Abigail Washburn, addirittura i Postal Service. Il capolavoro tuttavia è alla fine, St. Cloud, chitarra e voce all’inizio, poi poco altro in più. C’è da chiudere gli occhi e lasciarsi cullare. (per altro la qui presente utilizza un lessico pazzesco, se vi piace anche capire quello che ascoltate e vi piacciono un po’ le lingue)

Traccia da non perdere: St. Cloud

 

Honorable mentions 

Phoebe Bridgers “Copycat Killer / If We Make It Through December” Il mio guilty pleasure del 2020.

Claver Gold & Murubutu Infernvm” Un disco che andrebbe fatto ascoltare in tutti i licei. Non scherzo.

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Viscerals Altresì detti quelli che spaccano i culi.

Non Voglio Che Clara Superspleen Vol. 1” La conclusiva Altrove/Peugeot è roba per pochissimi. 

Philip Parfitt Mental Home Recordings” In realtà è questo il disco dell’anno. Capolavoro senza senso.

 

Alberto Adustini

Daniel Blumberg @ Anfiteatro del Venda

Una magnifica follia

Anfiteatro del Venda (Galzignano Terme) // 13 Settembre 2020

 

Praticamente c’è sto tizio, vestito in maniera leggermente eccentrica di scuro, cappellino da baseball calato sul viso a nascondere lo sguardo, che sta seduto al piano, e tamburella, giochicchia, insiste in maniera seriale, quasi ossessiva, su un paio di note gravi, le quali escono dall’impianto effettate e stridenti, completamente snaturate. 

“Starà facendo il sound check”, presumo sia stato il pensiero mio e dei (non moltissimi) presenti, comodamente sdraiati sul prato inclinato che circonda il palco del Venda, mentre il sole lentamente prosegue il suo tragitto verso ovest, tuttavia ancora troppo alto sull’orizzonte per lasciar spazio allo spuntare delle luci della pianura padana, fondale naturale per le esibizioni da queste parti.

Tra una chiacchiera, un bicchiere di vino ed un paio di risa poco alla volta tutti si convincono del fatto che quella figura longilinea e vagamente “strana”, china sul piano, deve essere lui, dai, il signor Daniel Blumberg, trentenne inglese che in questa domenica settembrina porta in Italia, unica data nella penisola, in una location con pochi eguali, il suo recente On&On….

Il di cui sopra musicista non pare dare molta importanza alla situazione che lo circonda, intento com’è a guardarsi intorno quasi smarrito, a stuzzicare la tastiera, bofonchiare qualcosa in un microfono, accennare un paio di note sull’armonica, veder correre senza sosta una biondissima bambina (che ancora non so se potesse essere sua figlia o comunque appartenente all’entourage), sorseggiare del vino, alzarsi a far nulla in particolare per poi risedersi al piano, sistemare un libretto sul leggio. 

In questo clima tra il bucolico dell’ambientazione, l’informale della domenica pomeriggio orario aperitivo, il surreale del vedere il motivo stesso del tuo pellegrinaggio in cima a queste colline intento a cazzeggiare in mezzo al palco che quasi per caso ti accorgi che gli ultimi due accordi di piano somigliano davvero molto a quelli di Madder, pezzo tratto da Minus, prima gemma regalata al mondo da Daniel Blumberg, risalente al 2018. Quando, diversi minuti dopo, si avvicina al microfono e con il suo timbro inconfondibile scandisce “It’s my morning answer” non ci sono più dubbi, è lei; semmai ti resta qualche perplessità per il semplice fatto che non sai ancora se sia effettivamente iniziato il concerto o meno, ma tant’è, inutile continuare a crucciarsi, meglio assumere una posizione più adatta e rispettosa verso quello che, e non lo dico solo io, è l’autore di uno dei migliori dischi del 2020 ed i cui concerti, e io non lo dico perché è la prima volta per il sottoscritto, sono sempre delle esperienze magnifiche.

Prendendo come assioma dunque che Madder sia stato il primo brano in scaletta, quello che emerge subito, senza troppi fronzoli, è la continua, incessante necessità, il bisogno che Blumberg sembra di avere di alterare, portandoli quasi fino al rumore vero e proprio, quasi fino alla cacofonia, i suoi brani; i quali, beninteso, sono dei capolavori, dei veri miracoli cantautoriali.

Daniel Blumberg ha una facilità e creatività espressiva e compositiva imbarazzante da quanto è sfacciata, brani come Minus, terzo brano in scaletta quest’oggi, o la title track On&On, che ha trovato spazio verso la fine del live, sono composizioni che la stragrande maggioranza dei cantautori al giorno d’oggi pagherebbe per riuscire a comporre, farebbe carte false per avere qualcosa di simile a Permanent in repertorio, credetemi. 

Un incrocio tra Mark Linkous e Keaton Henson ed un pizzico di Sufjan Stevens (con sfumature nella voce di Ben Sollee aggiungerei) sotto il quale scorre una vena rumorista di pura avanguardia, motivo per il quale più che a veri e propri concerti, quelli di Daniel Blumberg somigliano ad esibizioni  che potreste vedere in qualche MoMa o Guggenheim o in qualche galleria d’arte moderna, come quando in un momento di passaggio tra Family and On&On, unite da lenti, lentissimi tocchi di piano e vaneggi di armonica, ha passato svariati minuti a creare un fastidiosissimo rumore con un microfono, o come prima di Teethgritter, quando i minuti sono trascorsi nel guardarlo far cadere all’infinito nella coda del piano diversi oggetti metallici (monete forse?). 

È la struggente, severa carezza di The Bomb a chiudere quest’esperienza così trasversale, così vera; il sole ora sì è giunto a destinazione, dietro alle colline e al contempo le luci del mondo, mai così distanti, disegnano un tappeto intermittente alle spalle di quest’uomo, questo concentrato di creatività e stupore, di dolcezza e frastuono, che stranito, spaesato, si alza dal pianoforte, un abbozzo di inchino, non una parola, due passi a lasciare gli assi del palco del Venda, si siede poco lontano, “Minus the intent to feel, I’m here”.

 

Alberto Adustini