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Tag: Daniela Fabbri

VezBuzz: i Gorillaz e il teasing tecnologico per l’uscita di Humanz

Esiste qualcosa di più coerente di una band virtuale che decide di stuzzicare la curiosità dei fan per l’uscita di un disco, unicamente su web e social network? Questo è quello che hanno fatto i Gorillaz, la band di Damon Albarn, in occasione di Humanz, nel 2017. L’album arrivava dopo un silenzio durato anni e nell’aria si respirava tutta l’elettricità tipica dei grandi eventi, ma andiamo con ordine: i Gorillaz sono nati dall’estro di Albarn e del fumettista Jamie Hewlett.

Il progetto “Gorillaz” è uno dei più riusciti e interessanti della musica pop degli ultimi venticinque anni, il loro primo album uscì nel 2001 e da allora non si smise più di parlare di questa band composta da personaggi disegnati: 2D, Murdoc, Noodle e Russel Horbes.

Già di per sé sarebbero un interessante caso di buzz: una band “animata”, guidata dal genio del britpop, che nei primi anni Duemila ipnotizzava con i loro videoclip, su MTV, me e tanti altri adolescenti e che non si è mai mostrata al pubblico se non dietro a fumetti animati, perfino ai concerti.

Arriviamo all’uscita di Humanz. Il 2017 è stato l’anno di Instagram, con milioni di utenti iscritti in più rispetto al passato. Una crescita verticale e vertiginosa che avrà convinto Damon Albarn e i suoi a coinvolgere proprio questa piattaforma per il lancio del loro ultimo lavoro. Le possibilità offerte dai social, per una band come i Gorillaz, sono ovviamente infinite. Il “semplice” lancio di un album può diventare un’occasione virale irripetibile.

La promozione del disco iniziò molti mesi prima della sua uscita. Su Instagram la band, dopo aver creato un account ufficiale, iniziò a postare con costanza immagini che ripercorrevano la strada fatta, a partire dalla loro nascita. In sole 24 ore si unirono al profilo ben 300.000 followers. Nel mese di Marzo venne annunciato post dopo post, lettera dopo lettera, il nome del nuovo album.

Ma non si sono fermati qui: l’aspetto visual ha guidato anche tutte le successive pubblicazioni, nelle quali venivano date informazioni enigmatiche sul nuovo lavoro.

I Gorillaz, sempre un passo avanti a tutti per quanto riguarda la sperimentazione di nuove tecnologie, hanno ben pensato di accompagnare i quattro singoli estratti dall’album – Ascension, We Got the Power, Saturnz Barnz e Andromeda – con videoclip in realtà virtuale per permettere ai propri fan di immergersi ancora di più nel loro mondo. I video interattivi hanno atmosfere cupe e sono pieni di demoni e case stregate.

Damon Albarn ha spiegato poi, in un’intervista rilasciata all’emittente radiofonica della BBC, di aver scelto questo tema per l’album a causa di una riflessione fatta sulla vita moderna: “gli umani sono in transizione, si stanno trasformando in qualcos’altro” disse, “l’album proviene da questa fantasia oscura. Immagina la cosa più strana e imprevedibile in grado di cambiare il mondo.

Come ti sentirai quella notte? Uscirai? Andrai a ubriacarti? Resterai a casa e guarderai la TV? Ha un’atmosfera interessante questo disco, perché è festaiolo. È un disco da club, ma ha anche questa strana oscurità”. A questo si aggiunge anche la Gorillaz App, una delle prime app ad utilizzare la Realtà Aumentata e gli ambienti 3D in un contesto narrativo.

Tramite l’app all’uscita di Humanz, il 28 Aprile, gli utenti hanno potuto partecipare ad uno speciale “party”: un evento mondiale ed esclusivo che ha permesso di ascoltare per la prima volta e per intero il nuovo album. L’esperienza condivisa tra gli utenti ha dato vita al più grande ascolto collettivo localizzato, che ha messo in contatto fan della band provenienti da 500 diverse location in tutto il mondo.

L’uscita di Humanz è stata anche l’occasione per intrecciare collaborazioni con tante interessanti realtà tecnologiche, ma non solo. Oltre alla Gorillaz App ne viene lanciata anche un’altra, in collaborazione con Electronic Beats: Lenz App. Gli utenti potevano visualizzare contenuti della band puntando con il proprio dispositivo su un qualsiasi oggetto color magenta, oppure con il servizio di streaming musicale, Pandora Premium. Fu infatti creata una playlist di artisti che li hanno ispirati per la scrittura del nuovo disco.

L’iniziativa prese il nome di “Sounds like Gorillaz”. Senza poi dimenticare la collaborazione con Red Bull, che ha organizzato un vero e proprio festival, chiamato Demon Dayz, per celebrare l’uscita del disco, e che per l’occasione ha anche creato un’uscita speciale di Red Bull dal design customizzato.

 

Daniela Fabbri

Echo And The Bunnymen @ Percuotere_la_mente

• Echo and the Bunnymen •

Corte degli Agostiniani (Rimini) // 08 Luglio 2019

 

 

Perché gli anni Ottanta non smettono di tornare? Questa domanda mi gira in testa da un po’ e continua a ripetersi anche mentre aspetto che Echo and the Bunnymen salgano sul palco della Corte degli Agostiniani, a Rimini, in occasione della rassegna musicale Percuotere la Mente.
Il gruppo ha avuto un discreto successo tra il 1978 e per tutto il decennio successivo, con lembi di notorietà arrivati fino ai giorni nostri.

Qualcuno li avrà scoperti grazie ad una recente cover di Manuel Agnelli nel suo programma televisivo “Ossigeno”, altri invece se li ricorderanno per la presenza di uno dei loro pezzi più celebri, The Killing Moon, nella colonna sonora nel film culto Donnie Darko, altri ancora, quelli che negli anni Ottanta avevano vent’anni, perché sono stati uno dei gruppi più promettenti della scena inglese.

Nella serata dell’8 Luglio, a Rimini, hanno riempito l’arena estiva e dato vita ad uno spettacolo godibile, anche – e soprattutto – per l’ebrezza, vera o presunta non importa, di McCulloch. Il frontman del gruppo si colloca a metà strada tra Lou Reed e Jim Morrison.

E infatti, nella scaletta non mancano una cover di Roadhouse Blues dei Doors e un accenno sfumato di Walk on the Wild Side. A onore della cronaca, bisogna dire che Ian McCulloch non dimostra affatto gli anni che l’anagrafe gli attesta.

Il pubblico presente invece è variegato: ci sono i fan di prima generazione, ma non mancano nemmeno quelli come me, curiosi o appassionati della musica inglese di quegli anni, che hanno formato i propri gusti musicali a suon di Joy Division, Siouxsie and the Banshees o Bauhaus.

La band arriva da Liverpool, e della formazione originale rimangono solo due elementi: Ian McCulloch e Will Sergeant. Gli altri membri del gruppo presenti sul palco avranno trent’anni, più o meno.

Quindi, per quale motivo, così tante persone si stringono sotto il palco a cantare le loro canzoni, nonostante da tempo non esca qualcosa di nuovo? L’ultimo loro disco risale al 2014 e non ha fatto di certo gridare al miracolo e non può essere sufficiente il fatto che quella di Rimini sia l’unica data italiana.

Allora è vero che gli anni Ottanta stanno tornando? Probabilmente no. La mia sensazione è che il problema non siano tanto gli Ottanta, quanto il presente. Nessun periodo storico è stato così ossessionato dal passato come questo.

Stiamo vivendo una sorta di “retromania”, termine utilizzato Simon Reynolds per definire quell’innamoramento totale e assoluto per un passato più o meno recente. E proprio il fatto che si tratti di un passato recente, non reinventabile e che non lascia spazio a riscritture, è curioso.

Questo culto degli anni Ottanta, che si può trovare nella musica – Echo and the Bunnymen sono solo un esempio, il meno convenzionale, senza bisogno di scomodare altri gruppi ben più famosi e ingombranti – così come nelle serie TV, è legato alle nostre ossessioni.

Non è un caso che Stranger Things sia quello che di più vicino all’immaginario pop americano degli anni Ottanta si sia visto dai tempi di Donnie Darko. Quel periodo è stato l’età dell’oro, del benessere, ma anche l’inizio del declino. Oggi non esiste uno stile musicale così rappresentativo, come lo sia stato la new wave o il post punk, per gli anni Ottanta. La trap, forse?

La verità è che le tendenze scivolano veloci tra le dita e prima che possiamo accorgercene sono già state sostituite da qualcosa di nuovo. La realtà in cui viviamo è affollata di stili e noi, in tutta risposta, ci rifugiamo in questo passato recente di cui ancora possiamo avere memoria.

Gli ultimi tempi prima di Internet, l’ultimo decennio prima dell’invasione dell’informatica e della rete. Tutto era controllabile, gestibile, sicuro. Un piccolo Paradiso Terrestre, anche per quanto riguarda la produzione musicale.

La sensazione che ho, riguardo a questa retromania, è che rallenti ulteriormente l’arrivo di un “futuro” non meglio precisato: Lady Gaga si è ispirata a Madonna, Amy Winehouse ha ripreso gli stilemi del soul anni Sessanta, i nuovi indie indossano le magliette dei Joy Division. Mentre rimango in attesa di una tabula rasa per superare finalmente questi maledetti anni Ottanta, Echo and the Bunnyman partono subito con le grandi hit.

McCulloch e compagni hanno vissuto sulla propria pelle il post-punk e la new wave, ma solo con The Killing Moon hanno ottenuto il successo che meritavano. Per anni si sono occupati di alcuni progetti solisti fino a che non è arrivata l’inevitabile reunion. Così sono tornati, acclamati da una nuova generazione di discepoli.

Gli ultimi scampoli della loro carriera possono essere imputati alla retromania, anche se gli ultimi dischi, quelli degli anni Duemila, pur senza aggiungere niente di nuovo alla loro storia, sono comunque apprezzati dai fan. Per provare a spiegare l’affetto che il pubblico gli riserva, bisogna tirare in ballo anche la personalità di McCulloch: istrione, sopra le righe e carismatico.

Occhiali da sole anche di notte e giacca di pelle con 35°C, insieme alla sigaretta in bocca è la divisa di ordinanza, manco a dirlo, degli anni Ottanta. Quando arriva il momento, The Killing Moon fa inumidire gli occhi anche dei più insensibili. McCulloch può mostrare i muscoli o deprimersi ma risulta sempre perfetto per incarnare e raccontare la complessità di un gruppo come Echo and The Bunnymen.

Dopo le prime canzoni McCulloch fa alzare il pubblico, come si conviene a un concerto come questo, chiamandolo sotto al palco. Il quadro viene completato dal tocco decisivo, che non può mancare per completare l’affresco: l’uso dei sintetizzatori.

Quello che manca, forse, è un po’ di coraggio. Non sono i Depeche Mode che continuano a sfornare nuovo materiale, Echo and the Bunnymen stanno guardando al passato. Loro avevano le canzoni, la chitarra spettrale di Will Seargent, la sezione ritmica che funzionava come una macchina e avevano Ian McCulloch, che riusciva a camminare sul filo del rasoio, tra il punk e la poesia.

Decenni dopo sono ancora qui, in questo luogo misterioso e pieno di fan in visibilio.

 

Daniela Fabbri

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VezBuzz: i Sex Pistols e “the great rock’n’roll marketing”

Uno dei buzz più conosciuti della storia della musica è quello che vede protagonisti i Sex Pistols. Era il Giugno del 1977, le strade di Londra venivano addobbate per la grande festa del Giubileo della Regina Elisabetta II e i Sex Pistols pubblicavano il loro dissacrante singolo God Save the Queen.

Non si può però parlare dei Pistols senza tirare fuori il nome di Malcom McLaren, la grande mente che architettava ogni provocazione della band di Johnny Rotten, Sid Vicious e compagni. McLaren riuscirebbe a vendere qualsiasi cosa – anche il classico frigorifero agli eskimesi – grazie alla sua dialettica.

Gli viene naturale, è la cosa più facile del mondo per lui. Questo spiega tante cose, soprattutto come abbia fatto grazie ad un pionieristico lavoro di marketing, a far diventare famosa in tutto il mondo una band che, di fatto, non sapeva suonare.

Passato alla storia come manager del gruppo, questa definizione risulta comunque essere riduttiva per descrivere quello che è stato davvero McLaren: un curioso, spregiudicato, irriverente anticipatore di tendenze ma soprattutto il burattinaio che ha mosso i fili della grande “truffa del rock’n’roll”.

Sì, perché i Sex Pistols, una delle band simbolo del movimento punk, furono in realtà il primo gruppo creato a tavolino con uno scopo ben preciso: promuovere gli abiti creati dall’allora semi-sconosciuta stilista Vivienne Westwood, fidanzata di McLaren, venduti nel negozio “Sex”, da cui appunto presero il nome i Sex Pistols. Una enorme operazione di marketing, una delle più grosse del mondo della Musica.

Quello che riuscì a fare McLaren insieme ai suoi Pistols in quella serata di Giugno ha dell’incredibile.

God Save the Queen era uscita il 27 Maggio di quell’anno e in pochi giorni era diventata il pezzo che nessuna radio voleva passare, che le televisioni si affrettavano a censurare e che, fin dai primi versi, scandalizzava i ben pensanti. Addirittura alcuni negozi di dischi si rifiutavano di mettere in vendita il singolo, a causa del contenuto ritenuto oltraggioso.

In God Save the Queen, i Pistols si facevano beffe della sacra monarchia inglese paragonandola al regime fascista, anche se Johnny Rotten, cantante della band, dichiarò diversi anni dopo che “non si scrive una canzone come God Save the Queen perché si odiano gli inglesi. Si scrive una canzone come quella perché si amano e si è stanchi di vederli maltrattati.”

Il pezzo originariamente doveva chiamarsi No Future, come ripetuto ossessivamente nel ritornello diventato poi un emblema del punk, ma McLaren decise di cambiarlo in God Save the Queen, proprio per la coincidenza della sua uscita con il Giubileo d’argento della regina.

God Save the Queen è l’inno del punk inglese, che in quel “no future, no future, no future for you” racchiude tutto il senso del movimento, che non è più solo una corrente musicale, ma una vera e propria sottocultura giovanile.

Il punk era arrivato a dare una vigorosissima spallata al mondo della musica rock e ad urlare parolacce nelle orecchie dell’imbolsita borghesia inglese, disinteressata ai problemi sociali ma sempre premurosa verso la propria Regina. Era la rivolta, l’elettricità, una musica che non voleva essere condizionata da niente ad eccezione di se stessa.

Nessun futuro, nessuna speranza per il sogno inglese, nessun desiderio: la generazione dei ragazzi della seconda metà degli anni Settanta nel Regno Unito poteva anche piantare i chiodi nella bara delle proprie illusioni e i Sex Pistols erano lì per ricordarglielo: il mondo non cambia, le cose non cambiano, tutto rimane uguale, quello che puoi fare è arrabbiarti e gridare.

Il punk era l’aperta e dichiarata contestazione di ogni regola e nessuno più dei Pistols riusciva a incarnare questo atteggiamento. La band nel giro di poche settimane collezionò contratti con case discografiche, firmati e stracciati alla velocità della luce, uno dopo l’altro.

McLaren però non è il tipo che si accontenta, serviva una delle sue inverosimili trovate per tenere sempre alto l’interesse generale sui Pistols. Probabilmente avrebbe desiderato che la sua band eseguisse God Save the Queen di fronte alla faccia impassibile di Sua Maestà, ma non potendolo fare si inventò qualcosa di diverso, ma altrettanto esplosivo.

Per promuovere il singolo venne organizzata un’operazione di marketing magistrale: il 9 Giugno 1977 McLaren noleggiò una barca, che ribattezzò “Queen Elizabeth River Boat”, ci fece salire sopra i Sex Pistols e la fece navigare sul Tamigi, fino ad arrivare di fronte al Palazzo di Westminster. Qui iniziarono a suonare, facendo inevitabilmente scalpore tra i presenti.

L’attitudine di un gruppo scalcinato e violento, come i Pistols, unita alla mente da agitatore di Malcom McLaren fecero il resto. Immaginate la scena: una chiatta scivola sul Tamigi, sopra i Pistols suonano – male – e urlano oscenità mentre a riva si festeggia il Giubileo. Lo sguardo allucinato di Lydon, le magliette strappate, il corteo di freak brutti, sporchi e cattivi di cui i Pistols si circondano.

La band è guardata a vista dalla polizia inglese, che ad un certo punto li accosta e sale a bordo. La festa in barca si interrompe tra gli insulti alla regina. Nel frattempo una rissa coinvolge Jah Wobble – amico dei Pistols e poi bassista nei PIL di Lydon – e un cameraman, così la barca viene fatta attraccare e undici persone vengono arrestate.

Il resto è storia: il giorno dopo i giornali riportano a caratteri cubitali l’evento scandalistico dei nuovi selvaggi del rock e God Save the Queen sale al secondo posto delle classifiche inglesi.

La leggenda vuole che in realtà fosse addirittura al primo, mai dichiarato perché l’industria radiofonica inglese cospirò contro il brano, censurandolo come poteva.

Nei giorni successivi il singolo venne poi bandito dalla radio della BBC e l’Independent Broadcasting Authority, un’associazione che controlla e regola le trasmissioni nel Regno Unito, vietò la messa in onda di qualsiasi sua esecuzione. Questo naturalmente non fece che alimentarne il mito, arrivato fino ai giorni nostri.

 

Daniela Fabbri

 

https://youtube.com/watch?v=tHrUleT8HTs

 

Pixies, una monografia personale

Era il 1986, i Nirvana e l’intera ondata grunge non erano ancora apparsi sulla scena, ma l’avrebbero fatto da lì a breve in tutta la loro devastante potenza deflagratoria e con il migliore arsenale sonoro a disposizione.

Erano gli anni del cosiddetto college rock, da una parte c’erano i REM di Michael Stipe, belli e di sani principi, dall’altra i Pixies, capitanati da uno strano tizio che si faceva chiamare Black Francis, con una voce isterica e qualche chilo di troppo.

Facciamo però un passo indietro. Stava finendo il secolo e io avevo iniziato il liceo. Ai tempi ero una silenziosa e insicura ragazzina di provincia. E chi non è mai stata “la reginetta del ballo” lo sa quanto sia difficile essere adolescenti timidi e abitare in provincia.

Per fortuna, proprio per le persone come me, esiste il rock, con il suo enorme potere consolatorio. Così, visto che oltre ad essere timida e insicura, ero pure incazzata e un po’ stramba, avvicinarsi al grunge fu facilissimo.

Finalmente non ero più sola, eravamo in tanti a sentirci inadeguati, strani e completamente fuori posto. Per tutti noi c’erano loro: i Pixies. Gli alieni della scena garage. Estranei al grunge, pur essendone i padri fondatori.

Oggi, nell’era dell’apparenza, una band come i Pixies non sopravviverebbe un giorno. Troppo originali, troppo menefreghisti, troppo caustici, troppo – apparentemente – normali. Per fortuna però, il loro esordio risale al 1986 e, forse, si badava meno a tutte queste cose.

I Pixies sono una delle cose migliori successe al mondo del Rock, e non sorprende che perfino i Nirvana abbiano cercato ispirazione proprio nella loro musica, alla fine degli anni Ottanta.

Kurt Cobain ammise infatti di essersi ispirato a loro, o come disse lui stesso “di averli derubati” per scrivere Smell Like Teen Spirits. Kurt voleva essere come i Pixies, suonare con loro, o almeno essere in una loro cover band. Ascoltando la musica dei Nirvana si trova la stessa identica onda anomala presente nella musica dei Pixies.

Si parte morbidi, quasi innocui, fino a salire, sempre più rumorosi e duri. Impossibile non essere d’accordo con quello che disse Manuel Agnelli quando affermò che ”i Pixies erano i Nirvana qualche anno prima. Ma più bassi e brutti”.

La storia dei Pixies, come dicevo, inizia nel 1986, quando il cantante Black Francis, all’anagrafe Charles Thompson, incontra il chitarrista Joey Santiago, a Porto Rico. Come nelle migliori storie del rock, i due mettono un annuncio su un giornale: “Cercasi bassista appassionato di Husker Du e Peter Paul & Mary“. Ed è qui che entra in gioco l’affascinante Kim Deal, che porta con sé l’amico batterista, David Lovering. Kim è la regina nera dei Pixies che con la sua personalità ha letteralmente rubato la scena e il ruolo di leader al non convenzionale Francis.

Ma andiamo con ordine: il loro primo album Come On Pilgrim, è un lavoro sicuramente acerbo, ma che dimostra già un enorme potenziale della band di Boston. E’ sufficiente leggere i testi per capire di cosa sto parlando. Sono surreali. Francis Black e i suoi hanno inventato un nuovo linguaggio, lo spanglish. Metà inglese, metà spagnolo. “Non lo facciamo per accattivarci il pubblico latino-americano”, ha spiegato in un’intervista Kim Deal, “è che talvolta lo spagnolo suona più percussivo e riesce a definire meglio quello che cerchiamo di dire”.

Tra il 1987 e il 1992 i Pixies incidono due album incredibili: Surfer Rosa e Doolittle. Ascoltarli, ancora oggi, mi crea un curioso solletico alla corteccia cerebrale. Surfer Rosa viene osannato da critica e pubblico. In tanti lo definiscono l’ultimo capolavoro “post-punk”. Tra i tanti pezzi dissonanti e ossessivi che si possono trovare al suo interno ci sono anche Gigantic e Where is my Mind, che è diventato uno dei loro brani più conosciuti anche grazie a film come Fight Club. La chiusura del disco è la psichedelica Caribou. Si tratta di un lavoro sorprendente che, come un diamante, cambia aspetto ad ogni ascolto.

La loro è musica abrasiva, isterica e, in qualche modo, grottescamente pop. Le canzoni sono corte, in perfetto stile Ramones per capirsi. “Difficile sopportare quei riff cattivi per più di due minuti” dirà una volta Kim.

 

 

 

 

Doolittle invece è un disco che ho letteralmente consumato. Una cavalcata di 12 pezzi, che parte con Debaser e termina con There goes my gun. In mezzo c’è il meglio che la musica abbia prodotto in quegli anni: Here Comes Your Man, Wave Of Mutilation, Monkey Gone To Heaven, Gouge Away e La La Love You, il brano che non ti aspetti, uno dei più assurdi di sempre, che con fischietti, cori femminili e schitarrate ironizza sul concetto di storia d’amore. L’intro di Debaser è indimenticabile: “I am un chien, anda-luuu-sia!”, che fa riferimento al cane andaluso del film di Buñuel, pronunciato in un francese stentato e ridicolo. E non solo, basti pensare al “Rock me, Joe” di Monkey Gone To Heaven. I testi di Debaser parlano di suicidio, di nevrosi, di depressione, di droga, di prostituzione e di disastri ecologici. Siete un po’ smarriti? Pensate a come si sarà sentito chi l’ha ascoltato nel 1989.

Purtroppo però, niente dura per sempre, e anche la verve creativa dei Pixies è destinata all’inesorabile tramonto. Nel 1990 esce Bossanova, l’anno successivo Trompe Le Monde. Due lavori confusi, lontani dai precedenti. Anche a causa di continue tensioni tra Kim Deal e Black Francis, nel 1992 i Pixies si sciolgono. La storia però non finisce qui.

Di solito quando un grande gruppo del passato decide di riunirsi, lo fa partendo da qualche concerto, per poi tornare in studio e produrre materiale nuovo. I Pixies no. Dal 2004 al 2012 hanno fatto concerti, per otto lunghi anni, senza mai entrare in sala di registrazione. Nessun inedito, niente di niente. Il motivo è semplice, quasi lapalissiano, a raccontarlo è Joey Santiago: “suonando molto dal vivo non avevamo tempo di entrare in studio”.

Black Francis aveva bisogno di tempo per scrivere brani adatti al nuovo suono. Nel 2013 arrivano EP1, EP2 ed EP3, con quattro pezzi ciascuno, e infine il tanto atteso Indie Cindy, che unisce al suo interno i brani dei tre EP, senza ulteriori aggiunte. A Giugno 2013 Kim Deal abbandona la band e da quel momento in poi al basso la sostituisce Paz Lenchantin.

Tralasciando gli ultimi lavori, non troppo degni di nota, quello dei Pixies è un universo bizzarro e sconclusionato. All’interno dei loro album si può trovare tutta la psicopatia del mondo del Rock: le nevrosi dei Pere Ubu, l’acidità lisergica dei Velvet Underground, l’isteria dei Violent Femmes. Hanno shakerato tutto insieme e l’hanno servito in un bel bicchiere con l’ombrellino.

Senza i Pixies, con grande probabilità, oggi non esisterebbe quello che viene chiamato “indie”. La loro influenza è stata indelebile. Anche sui miei gusti musicali.

Il linguaggio dei Pixies, il loro modo di scrivere canzoni, ha fortemente influenzato la maggior parte dei gruppi o dei musicisti che ho amato: i Nirvana, Pj Harvey, i Radiohead, per nominarne solo alcuni.

I Pixies per me sono stati un incontro fortuito, quello che quando accade cambia tutto. Fino a quel momento ero una ragazzina timida che guardava film in bianco e nero e passava un sacco di tempo a leggere libri. E’ stato come conoscere per la prima volta qualcuno come me, sfigato e altrettanto perso: “è fatta” mi sono detta, “allora non sono sola”.

 

Daniela Fabbri

VezBuzz: di quando Jack White lanciò Freedom at 21 con dei palloncini

Perché limitarsi ad un banale lancio “on air” radiofonico, quando si può letteralmente far prendere il volo alla propria musica?

Jack White deve aver pensato qualcosa del genere quando ha escogitato uno dei buzz più originali degli ultimi anni. Infatti, in occasione dell’uscita del singolo Freedom at 21, che precedeva l’album Blunderbuss si inventò qualcosa di davvero inconsueto, destinato a rimanere nell’imperitura memoria dei tanti che, come me, hanno imparato ad apprezzarlo con i White Stripes e hanno continuato ad amarlo in ognuna delle sue successive reincarnazioni. Infatti, che Jack White sia un genio della Musica, non c’è di certo bisogno che lo dica io. Non tutti però sospettavano fosse anche un genio del Marketing.

Correva l’anno 2012, i White Stripes si erano già sciolti l’anno precedente e Jack White aveva già pronti nel cassetto i pezzi che avrebbero poi dato vita a Blunderbuss, il suo primo album da solista.
Tra questi c’era Freedom at 21, un brano insolito per il musicista di Detroit, con elementi musicali che ricordano l’hip hop, una ritmica asfissiante e una chitarra che spettina. E poi c’è il testo, che si interroga su come un uomo possa diventare vittima di una donna.

Per il lancio di questo singolo la Third Man Records, l’etichetta discografica di White, fece qualcosa di particolare. Il 1° Aprile 2012 infatti il brano venne inciso in 1000 esemplari su disco flessibile e collegato ad altrettanti palloncini blu, gonfiati ad elio, che vennero liberati in aria nel cielo di Nashville.

Il flexi-disc è un supporto in vinile, molto sottile e leggero, che può essere arrotolato e piegato. Ai palloncini vennero poi attaccate anche delle cartoline con le indicazioni su come informare la Third Man Records del ritrovamento. Secondo le statistiche almeno un centinaio di persone sono entrate in possesso di uno di questi preziosi esemplari, diventati oggi dei veri e propri oggetti da collezione.

Molti sono atterrati nei pressi di Nashville, poco lontano dal luogo del lancio, il quartier generale della Third Man Records. Come era prevedibile, il lancio dei palloncini ha conquistato i fan e ha permesso di ottenere una grande visibilità.

Il 17 aprile di quello stesso anno, solo per darvi la dimensione di quello che ha potuto generare questa operazione, il sito della Third Man Records informava i gentili utenti che “in un’asta di eBay una copia del disco flessibile Freedom at 21 lanciata da un aerostato della Third Man è stata venduta ad un prezzo di $ 4.238,88. Il prezzo più alto mai pagato per un flexi-disc”. Pensate quindi che bella sorpresa per la famiglia Coker, in Alabama, che pare aver trovato un intero carico di palloncini aggrovigliati insieme, incastrati tra i rami di un albero all’interno della loro proprietà.

Freedom at 21 venne poi rilasciato anche per un download digitale e come singolo in vinile, nel mese di Giugno.

In questo video potete vedere il momento del lancio dei dischi.

 

 

So cosa vi state chiedendo: sì, belli i palloncini, ma la plastica? E all’ambiente, non ci ha pensato nessuno? Con buona pace degli ambientalisti, Jack White invece in quell’occasione pensò proprio a tutto. I palloncini utilizzati erano completamente biodegradabili. Così come le cordicelle, tutte prodotte con materiali naturali.

Quello di Jack White deve essere immaginato come un esperimento. Un tentativo di esplorare forme di distribuzione “non tradizionali”, in modo da far arrivare questo singolo anche nelle mani di persone che solitamente non frequentano i negozi di dischi. Oltre, naturalmente, a far parlare di sé.

Anche se, a dirla tutta, White non è estraneo a questo genere di operazioni, folli ma con una punta di poesia. Chi conosce un po’ la sua storia non sarà rimasto sorpreso. Infatti, prima della Third Man Records, prima dei White Stripes, prima dei Raconteurs, Jack White era solo un tappezziere di Detroit con una curiosa abitudine.

Si divertiva a nascondere all’interno dei divani che riparava foglietti con piccole poesie. Da qui alla più recente operazione denominata “vinile nello spazio”, dove, per festeggiare il quindicesimo compleanno della sua etichetta discografica, è stata lanciata oltre l’atmosfera una navicella spaziale con a bordo una speciale apparecchiatura, la Icarus Craft, in grado di far suonare un vinile, il nostro eroe non si è più fermato, inanellando una trovata pubblicitaria creativa dopo l’altra.

Jack White infatti non è solo uno degli artisti più dotati della scena contemporanea, ma è anche uno dei musicisti che ha contribuito maggiormente al ritorno del vinile.

Lo ha fatto grazie alla sua Third Man Pressing, un luogo dove il vinile prende forma, tra macchinari tedeschi antichi ed altri nuovissimi, ma anche con operazioni come il lancio di Freedom at 21, o realizzando una versione del singolo Sixteen Saltines per veri maniaci, stampata su vinile trasparente pieno di liquido traslucido e con un’incisione riproducibile del logo Third Man.

Per come lo vedo io, quello di Freedom at 21 è un bel modo di promuoversi e sostenere un po’ di sano “feticismo” del vinile, oltre che aggiungere un nuovo tassello alla leggenda di Jack White, ogni giorno più genio sregolato del mondo della Musica.

 

Daniela Fabbri

La resistenza dei Doormen tra chitarre, vinili e live

Incontro Vins all’ingresso del Moog locale, un po’ speakeasy e un po’ salotto bohémien, nascosto in un vicoletto in centro a Ravenna. Gli altri Doormen, Luca “Mala”  e Andrea “Allo” sono già dentro, con la loro birra in mano.

Tommaso non riesce ad esserci: è bloccato a Bologna, “ma si fida di noi” aggiunge subito Luca. Per non essere da meno prendo la mia birra anch’io e andiamo nella sala al piano di sopra, con le fotografie alle pareti e i divani in velluto, per la nostra intervista. 

I Doormen sono una band di Ravenna che ormai da dieci anni si muove, con grande consenso di pubblico e critica, sulla scena rock alternativa.

Qualche mese fa è uscito il loro ultimo disco, Plastic Breakfast, un album che rispetto ai precedenti segna il ritorno ad un suono più ruvido: tante chitarre e pochi effettini. Tutto quello che manca alla musica italiana degli ultimi anni.

La prendiamo larga: come descrivereste la vostra musica a chi non vi conosce?

Luca: La nostra musica è il risultato del nostro background, quello di ognuno di noi. In questo disco in particolare, rispetto agli altri lavori, c’è veramente il contributo di tutti. 

È un disco fatto a quattro mani e quattro teste. Non a caso ci abbiamo messo quasi tre anni prima di farlo uscire. 

In passato eravamo sempre io e Vins a comporre. Io scrivevo i riff e lui i testi e le linee vocali, poi univamo le cose. Stavolta ognuno di noi ha detto la sua.

È il primo disco da band. Tanto è vero che ci sono stati anche dei momenti di scontro: “questo mi piace, questo non mi piace”, ma ce l’abbiamo fatta. Anche se la maggior parte delle persone lo ascolta su Spotify.

È una cosa che vi dà un po’ fastidio, questa di Spotify.

L.: Sì, un po’ sì. (ride, ndr). Questa volta abbiamo deciso di fare solo il vinile, che è una cosa da appassionati. Sai perché mi sta sul cazzo Spotify? Perché se lo ascolti lì sopra ha un suono bello, ma se lo ascolti su disco è diverso: è meglio, ha un’altra grana.

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Raccontatemi un po’ di voi, quando nascono i Doormen?

L.: I Doormen hanno avuto due fasi, nel 2009 e nel 2015, quando abbiamo cambiato la sessione ritmica e sono entrati nella band Allo, cioè Andrea, e Tommy. I migliori sulla scena romagnola.

Quando ci sono questi cambi a volte il rischio è di trattarsi come turnisti, invece ci siamo presi bene, e abbiamo trovato la formazione definitiva.

Parlando dell’ultimo album, Plastic Breakfast, visto che prima avete accennato al fatto che ognuno di voi
ha portato il proprio universo musicale, ero curiosa di sapere quali sono stati i vostri ascolti durante la realizzazione e quali le vostre ispirazioni.

Vins: Per me senza dubbio i Nirvana. Perché in quei dischi lì, quelli belli, ci sono loro quattro. Qui ci siamo noi quattro. 

Che il riff sia gentile o incazzato, siamo noi. Non c’è stato un vero e proprio riferimento, ma sicuramente un’ispirazione.

Andrea: Dentro Plastic Breakfast c’è il nostro background, che arriva direttamente dagli anni Novanta. Lo sapevamo ma è stato ancora più evidente quando abbiamo iniziato a lavorare insieme sui pezzi. 

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Infatti, rispetto ad album precedenti il suono è più graffiante, più dritto. C’è meno synth, ci sono meno effetti. 

L.: Sì, infatti a questo proposito l’esempio dei Nirvana è calzante. Questo disco è stato suonato in presa diretta, come siamo noi dal vivo. Mi viene in mente In Utero, che è stato registrato in questo modo. 

Molti ci dicevano “avete dei bei pezzi, però dal vivo avete qualcosa in più”. 

V.: Ti riassumo tutto con una frase del fonico Filippo Strang, dello studio di registrazione di Frosinone, dove abbiamo realizzato il disco. In tutti i nostri lavori precedenti, una volta registrato il canovaccio, ci mettevamo il cimbalino, l’ovetto, la chitarra acustica e altri effetti.

Così, quando finiamo tutte le registrazioni di Plastic Breakfast salto su e faccio: “e l’acustica dove la mettiamo?”e Filippo “ao’, ma che stai a dì? Questo è un album maschio, non la mettiamo da nessuna parte”. E così è stato.

A.: Non ce l’eravamo detti all’inizio quello che volevamo fare, siamo partiti ed è venuto fuori questo. Avevamo voglia di fare delle cose belle grintose, probabilmente perché è quello che ci viene meglio. 

In questo disco ritorna la formula: chitarra-basso-batteria. Rispetto ai precedenti mi sembra più pensato per la dimensione del concerto. Avete pensato al live mentre lo facevate?

L.: E’ esattamente quello, è pensato per il live. Se senti il disco e vieni al nostro concerto suona esattamente così. Eravamo noi quattro, ci siamo chiusi in sala prove ed è venuta fuori questa cosa qua. 

A.: Volevamo portare il disco in concerto e riproporlo il più uguale possibile. Per questo sintetizzatori e suoni particolari li abbiamo esclusi a priori. 

L.: Nulla da recriminare rispetto ai dischi precedenti, che ci hanno permesso di fare tante cose importanti. Però, per fare un esempio, Abstract (RA) è stato un disco che abbiamo fatto io e Vins, orfani della sezione ritmica. L’abbiamo dovuto riarrangiare parecchio.

V.: Quello era un disco costruito in laboratorio.

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Chi non vi ha mai visti dal vivo cosa si deve aspettare da un vostro concerto?

L.: Poche chiacchiere sul palco. Parliamo zero, solo in qualche rara occasione sfociamo nel cabaret.

A.: Sicuramente è un live carico, dritto e diretto. C’è qualche rallentamento, come nel caso di Have You Ever, ma fondamentalmente è un concerto che arriva dritto in faccia. 

Have You Ever è il pezzo che calma il respiro all’interno di Plastic Breakfast che invece ha un ritmo molto serrato.

A.: Eravamo stanchi quel giorno (ride, ndr)

Ho visto che avete fatto delle date anche all’estero. Qual è la differenza rispetto ai concerti in Italia?

A.: L’attenzione.

L.: Il tour è stato una figata. Abbiamo suonato in uno dei locali di riferimento della scena underground parigina, ma anche europea, che è il Supersonic. Ci hanno suonato i Godzilla, solo per nominare una band.

Dopo quella abbiamo infilato altre date, una in particolare in un piccolo paesino che sembrava Twin Peaks, Ainey Le Chateau. Siamo arrivati e sai chi c’era? Nessuno.

V.: Un villaggio nelle campagne francesi, dove non c’era un’anima. 

L.: Il promoter del locale sembrava Mangiafuoco e mentre noi stavamo montando le attrezzature, ci fa “voi non vi preoccupate, alle sette e mezza sarà pieno”.

Non ci credevamo, ma aveva ragione lui: alle sette e mezza il locale era pieno. Poi è finita che al termine del concerto abbiamo cenato tutti insieme con chi era venuto a vederci. 

A.: In Francia hanno la cultura del concerto. La gente arriva e nessuno se ne va prima della fine. Aspettano che finisci e applaudono. In tutte le nostre date erano presi bene, partecipi. 

L.: In Italia non c’è quell’attenzione totale verso l’artista. Anche se Bologna e Milano, per esempio, sono due zone calde. Ci abbiamo fatto dei bei concerti e l’accoglienza è sempre grandiosa. 

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Mi avete già accennato qualcosa sul processo creativo. In questo album come è stato?

V.: Ognuno presentava qualcosa e ci si lavorava sopra insieme.

L.: Poi tutte le volte che io presentavo qualcosa o Vins presentava qualcosa, Tommy, arrivati alla fine del pezzo, ci diceva che non gli piaceva e dovevamo rifarlo tutto. Per questo ci abbiamo messo tre anni a farlo (ridono, ndr).

Ti racconto questo aneddoto: siamo andati a fare le post produzioni dal nostro amico Andrea Cola dei Sunday Morning, avevamo cinque pezzi finiti e li abbiamo registrati per capire cosa sarebbe venuto fuori. Quando li abbiamo riascoltati ci siamo detti: “ok, fanno cagare”. 

V.: Io quel giorno ero in spiaggia, ho ascoltato questi pezzi e ho mandato un messaggio nella chat: “ragazzi, io mollo”. 

L.: È stato utile fare post produzione per questo motivo, ci ha fatto capire dove intervenire. 

Ho visto che, sia nei video che nelle copertine, Ravenna è sempre presente. 

L.: E’ presentissima, sempre. Non è un caso che oggi siamo qua al Moog, che è casa nostra. Il video invece è stato realizzato da Matteo Pozzi (Action Man e Cacao). Ci ha fatto vedere una Ravenna interpretata alla sua maniera, alterata in varie forme e colori. Esiste, ma può essere diversa. 

V.: E’ un po’ il discorso del Professor Keating: tu vedi una cosa in un certo modo, ma se vai sulla cattedra la vedi in un’altra maniera. 

Come influenza Ravenna il modo in cui viene realizzato un vostro album? 

V.: La nebbia e il clima sicuramente incidono molto. 

L.: Alla fine se ci pensi Ravenna è una città fuori dalla via Emilia, è chiusa. Per la copertina del disco, a proposito di malinconia, abbiamo collaborato con Alessandro Garavini. Le foto sono state fatte nella Piallassa Piomboni, che è il cimitero delle navi russe. 

A.: Era quello che cercavamo e le sue foto ci sono piaciute subito. Davano l’idea di un disagio clamoroso. Che poi è quello che è Ravenna. 

L.: A Ravenna sono passati anche Lord Byron e Oscar Wilde. Quest’ultimo ci ha scritto sopra una poesia, così come Herman Hesse che descrisse Ravenna come una “città di rovine e di chiese”. C’era del disagio clamoroso anche allora.

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Ascoltando i vostri album precedenti ho percepito una certa coerenza, di lingua e di temi. Avete mai pensato di cambiare qualcosa, magari seguendo una tendenza, come cantare in italiano?

A.: Ci abbiamo provato e abbiamo capito che non era per noi. All’inizio, con il disco in inglese, abbiamo anche cercato qualcuno che ci producesse, ma ci segavano tutti: “Canti in inglese, cosa dobbiamo fare per te?”. 

V.: Per Plastic Breakfast avevo fatto un file registrato da me, chitarra e voce, con alcuni pezzi dell’album cantati in italiano, ma non eravamo noi. Non ci siamo nemmeno impazziti troppo sopra.

L.: Ci sarebbero voluti dieci anni per uscire con il disco. 

V.: Noi volevamo fare date all’estero, se canti in italiano all’estero non ci vai. 

L.: Una cosa influenzava l’altra. I live all’estero erano anche un modo per dare un senso al disco: “stronzi, l’avete fatto in inglese e adesso ci andate”. Infatti abbiamo prima fatto le date all’estero e poi in Italia. Adesso riprendiamo il tour 5 Giugno, qui a Gambellara.

Comunque a voi non interessava provare una strada diversa per guadagnare un pubblico più ampio. 

L.: Il nostro è un pubblico di colti e appassionati, che ascoltano quel genere lì. Poi, che lo faccia una band italiana o inglese, non importa. Se è fatto bene è contento e ti compra il disco.

V.: Negli anni Novanta, fino ai primi Duemila, era più facile trovare anche nel mainstream qualche pezzo che ti piaceva. Iris dei Goo Goo Dolls era mainstream ma era un bel pezzo.

Adesso non è più così. Negli anni Novanta i Nirvana te li mettevano ovunque, è vero c’erano anche le Destiny’s Child, ma si sentivano anche i Bush e tanto altro. 

A.: A me piacevano le Destiny’s Child! (ridono tutti, ndr)

V.: Adesso c’è solo quello. Se ascolti la radio non senti una chitarra per quattro ore. 

L.: Anche Noel Gallagher è uscito con un disco che ha la ‘drum machine e non ha le chitarre. Tutto oggi, soprattutto in Italia, è impostato sulla melodia, sul cantautorato. Che non c’entra niente con noi.

A.: Oggi nei dischi mainstream le chitarre stanno scomparendo. Resistono invece nell’underground. 

Come sono cambiati i vostri obiettivi negli ultimi dieci anni?

L.: Tutto è cambiato. I Doormen hanno sempre suonato tanto, soprattutto nei primi anni di attività.

Abbiamo fatto tante aperture a band grosse: Paul Weller, i Charlatans, i Vaselines. Abbiamo aperto ai Tre Allegri Ragazzi Morti, recentemente ai Preoccupations. Però allora c’era più giro, adesso si suona meno.

Quando siamo usciti con Plastic Breakfast ero molto scoraggiato, il disco era figo ma trovare date non era così facile. Poi è arrivata l’apertura ai Preoccupations, abbiamo iniziato a collaborare un’agenzia di booking (Hey Man Booking) e la situazione ha iniziato a muoversi ancora.

L’obiettivo oggi è di divertirsi e fare delle belle date live. Di band italiane che fanno cose in inglese ce ne sono poche, e quelle poche che ci sono – se sono in giro – è perché la gente vuole andarle a sentire. Tendenzialmente chi organizza concerti predilige la formula in italiano, ma forse quello non è nemmeno il nostro pubblico. 

V.: Dieci anni fa c’era più sogno. Oggi puoi sperare che succeda qualcosa, ma non lo fai per quello. Forse c’era più tensione, oggi c’è un po’ più “sbat’ e cazz“, ma abbiamo constatato che alla fine porta risultati migliori. 

Ultima domanda: che consiglio dareste ai voi stessi di dieci anni fa?

V.: Di spendere i soldi della cassa più in promozione che in fonici.

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Intervista di Daniela Fabbri.

Foto di Luca Ortolani.

Benjamin Clementine @ Teatro delle Celebrazioni di Bologna

“Musa, musa meravigliosa sì che esisti”

 

Esiste, sì. Non sempre si manifesta ma sono certa di averla vista, questa musa: aleggiava sulle spalle curve di Benjamin Clementine, al Teatro delle Celebrazioni di Bologna, in una tiepida sera di Maggio.

Prima del concerto, mentre cammino per via Saragozza, lo incrocio. È altissimo e così vestito di bianco, con quella strana acconciatura simile a un turbante, sembra un principe africano. Passeggia con un amico, lo riconosco, mi guarda, ci sorridiamo. Poco dopo lo rivedo, mentre sta facendo qualche foto con i fan. Anche in quel momento, mi immagino la musa della Musica e della Poesia vegliarlo e proteggerlo dall’alto.

Benjamin è di origine ghanese, ha vissuto in Inghilterra ed è parigino d’adozione. A 18 anni si trasferisce in Francia, in cerca di fortuna. Qui inizia a suonare per strada, come buskers, fino a quando non viene notato da un discografico, in metropolitana. Suona, canta, scrive poesie e spesso inventa parole che non esistono. Per tutti questi motivi, per questa sua natura meticcia, è difficile definirlo. Riduttivo chiamarlo artista soul, anche se indubbiamente, nella sua musica, di anima se ne sente parecchia.

Il suo concerto è anticipato dall’esibizione di Beaven Waller, talentuoso musicista texano. Quando termina, in perfetto orario, il pubblico è clamorosamente in ritardo, come da malcostume italiano. Verso le dieci la sala è finalmente piena, le persone iniziano a chiamarlo, applaudendo e gridando il suo nome.

 

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Dopo qualche minuto Benjamin Clementine arriva, si fa strada sul palco a piedi nudi e indossa il completo bianco che avevo visto poco prima, arricchito da uno strano collo vittoriano che gli dà un’aria ancora più regale.

Insieme a lui un quintetto di archi. Tra gli applausi si siede, appollaiandosi su uno sgabello alto, forse troppo per il pianoforte. In alcuni momenti del concerto è talmente ripiegato da sovrastarlo, come se lo stesse abbracciando.

Pochi artisti riescono a catalizzare l’attenzione del pubblico con la stessa potenza di Benjamin Clementine. È un artista intelligente, mercuriale. Vivace e un attimo dopo introverso.

Lo spettacolo inizia con Winston Churchill’s Boy. Difficile categorizzare la sua voce: è uno strumento controllato e perfetto, come se fosse nato apposta per raccontare tutte le sfumature dell’anima. Dal dolore, che è sempre profondissimo, all’amore, passando per la rabbia. La sua è una sofferenza latente, accennata e ostica. Questo è evidente soprattutto in pezzi come God Save the Jungle che evoca la crisi dei migranti senza mai diventare una tirata politica. Tutto, nelle sue canzoni, è raccontato da un punto di vista personale.

Nonostante il palco, davvero minimalista, la sua performance abbraccia la teatralità. Anche le canzoni, pur conservando quella eloquenza drammatica, sono spinte ai limiti. Mutano continuamente, prendendo strade inaspettate, come quando Clementine cambia il testo di I won’t complain, per raccontare la sua giornata bolognese, trascorsa al santuario di San Luca.

Spesso le sue interpretazioni lasciano spazio all’ironia o al falsetto. Non sempre queste scelte creative funzionano, ma non si può negare il suo talento.

La mia sensazione è che Benjamin Clementine non senta il bisogno di ripetersi per soddisfare le aspettative del pubblico. E, proprio questo atteggiamento, è una prerogativa dei grandi: Nina Simone, Nick Cave, Bob Dylan. Il suo è uno spettacolo geniale, dolce e mai noioso, durante il quale è impossibile non chiedersi quale strada imboccherà girato l’angolo dell’ultimo pezzo.

Quando vinse il Mercury Prize nel 2015 per il suo album di debutto, At Least For Now, in tanti hanno pensato che questo tizio con la voce angelica sarebbe diventato l’ennesimo cantante per tutte le stagioni, la cui musica poteva tranquillamente fare da sottofondo ad una serata romantica.

Ancora però non sapevamo quanto fosse eccentrico e originale questo ex-busker e in molti si sono dovuti ricredere. All’interno della sua musica, soprattutto nel suo modo di comporre testi, è impossibile non notare tutte le influenze di quei poeti e scrittori che ha amato: William Blake e Sylvia Plath su tutti, ma non è quello che sorprende.

È l’enorme capacità interpretativa. Tutto il suo corpo diventa strumento espressivo per raccontarci una storia, non solo la voce, ma anche le mani: schianta le dita sui tasti del pianoforte, gesticola, a volte si rivolge al pubblico come un direttore d’orchestra. La sua è un’urgenza espressiva impossibile da contenere.

Infatti Clementine parla molto, anche in italiano: buonasera, grande, grazie, chiede informazioni sulla partita di calcio che si è giocata la sera prima. È di ottimo umore, merito probabilmente anche del pubblico, caldo e reattivo.

I Won’t Complain è, come da previsioni, uno dei momenti più maestosi del concerto. La canzone si spoglia e si gonfia, fino a riempire l’intero teatro che sembra quasi non riuscire a contenerla.

 

 

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La prossima canzone è una delle prime che ho fatto in pubblico” inizia, “con questa ho smesso di ripetere le cose che facevano gli altri, i grandi artisti, e ho iniziato a cantare quello che sentivo io“. Parte Cornerstone, il pubblico si entusiasma già dalle prime note.

Clementine è sicuro, ma imprevedibile. Il suo volto è spigoloso, scolpito nell’ebano, ed è difficile dire, a volte, se si stia contorcendo i nervi oppure se si stia divertendo con il suo pubblico.

Su Adios scende dal palco e gira tra la gente, chiede partecipazione, ripete ossessivamente “the decision is mine, so let the lesson be mine” invitandoci a battere un piede a tempo fino a che non si ritiene soddisfatto della resa finale. Risale sul palco, si erge sulla ribalta dei musicisti, appoggia un piede scalzo sul piano.

È uno strano alieno Benjamine Clementine, ha la stessa sostanza matta dei grandi. Dopo l’ultima canzone, prima di lasciare la scena, spinge i musicisti a prendersi gli applausi del pubblico, facendosi da parte, un gesto che la dice lunga sul suo approccio umile verso la musica.

Al termine del concerto, mentre cammino nella notte bolognese in una serata finalmente primaverile, ho la sensazione di aver assistito a qualcosa di eccezionale. E la Musa, che indubbiamente esiste, protegga sempre Benjamin Clementine!

 

Daniela Fabbri

Foto di Carlo Vergani

Mac DeMarco “Here Comes the Cowboy” (Mac’s Record Label, 2019)

Mac DeMarco è un tipo strano, altrimenti non si spiega perché mai un canadese dovrebbe realizzare un intero disco dedicandolo ai cowboy. Certo, cowboy bizzarri, come lui, fumettistici, ma pur sempre cowboy. Proprio lui, quello che di più lontano dall’immagine hollywoodiana del vaccaro con pistola, cappello a falda larga e speroni, possiamo immaginare. Probabilmente i cowboy che passano le giornate a bere nei saloon avrebbero voluto prederlo a calci nel sedere, uno come DeMarco: Mac è uno da t-shirt e cappello da baseball, da maglioni del nonno e da salopette. Non è un macho, non si prende sul serio e, soprattutto, non usa artiglieria pesante. Ma, cosa più importante, non salverà la situazione come ogni buon cowboy che si rispetti: la guarderà andare a rotoli e poi ci scherzerà su. Ed è per questo che lo amiamo così tanto. 

Here Comes The Cowboy è il suo quarto, ed insolito, album, che arriva cinque anni dopo Salad Days, il lavoro che lo consacrò a figura iconica della musica indie internazionale, e due anni dopo This Old Dog, dedicato alla relazione difficile con il padre. Questo lavoro è il primo prodotto dall’etichetta che lui stesso ha fondato, la Mac’s Record Label. Tutto fatto in casa, insomma, come confermato anche dalla scelta di suonare quasi tutti gli strumenti per conto proprio, ad eccezione delle tastiere affidate in certi casi ad Alan Meen, e avvalendosi soltanto dell’aiuto del fonico Joe Santarpia. Il fatto che DeMarco abbia deciso di auto-prodursi un album merita una riflessione: probabilmente dietro c’è il bisogno di avere maggiore libertà, la possibilità di essere veramente se stesso, di fare un po’ come vuole. Sacrosanto. E infatti Here Comes the Cowboy si spinge fino ai confini dell’iperuranio.

Solo per darvi la dimensione di quello che succede, la prima traccia, quella che dà il titolo all’album parte con una chitarra, che fa pensare al classico cazzeggio pre registrazione per scaldarsi un po’ le dita, ed è composta da un solo unico verso, ripetuto all’infinito: “Here comes the cowboy”. Eppure, nonostante queste premesse che potrebbero far presagire il peggio, il pezzo è caratterizzato da un perverso magnetismo. I suoi cowboys infatti non possono essere altro che personaggi strambi, niente di eroico, per carità, ma qualcosa che conforta in una società che ha sempre più difficoltà ad ammettere le proprie debolezze.

Quasi tutti i pezzi sono percorsi da una vena malinconica. Su questa atmosfera c’è Nobody, un pezzo laconico, tra i migliori del disco, una marmellata di suoni in stile californiano.

Preoccupied, invece, ci porta su un piano diverso, meno giocoso e meno dolce, più preoccupato, appunto. Non è difficile immaginarselo, Mac, mentre guarda pensoso, fuori dalla finestra. Tra le parti più interessanti del pezzo c’è la base con il cinguettio degli uccellini, che contribuiscono a dare consistenza al mondo surreale e sgangherato che DeMarco ci racconta; il testo è un blues disincantato, e sembra quasi criticare una cultura trumpiana in cui le menti sono “aperte” ma “piene di cazzate”.

Proprio l’aspetto dei testi è interessante in questo disco: molto più asciutti, a volte pervasi da un vero e proprio minimalismo linguistico, ma sempre con valutazioni sardoniche sul sogno americano. Come in All Of Our Yesterday, pezzo sarcastico che esplicita il concetto che molte delle cose migliori del nostro passato sono scomparse e non torneranno. Anche per questo motivo, è evidente che DeMarco è cresciuto. Questo è senza dubbio il suo disco più autentico e sporco. Se è vero, come aveva dichiarato in qualche intervista, che Salad Day era stato scritto in camera da letto, questo Here Comes The Cowboy è assolutamente stato composto in garage, o in una soffitta polverosa e invasa dalla luce del sole, che gli ha permesso di vedere meglio ogni singolo pulviscolo.

Quando arriva Choo Choo mi chiedo se sia uno scherzo. Forse sì. Su una base funk il fischio del treno fa da contraltare al falsetto di DeMarco, che ancora oggi si dimostra un artista accessibile e mai troppo serio, uno che fa musica – apparentemente – ingenua e che sembra immune dall’invadenza del mondo reale. È come se si fosse creato una bolla per proteggersi dalla tristezza di quello che succede. Forse, però, qualcosa sta cambiando. Su Little Dogs March, canta “spero che ti sia divertito, tutti quei giorni sono finiti ora”.

L’ultima traccia, Baby Bye Bye, è la più assurda di un disco abbastanza assurdo, ma è anche uno dei pezzi più memorabili. Non voglio rovinare la sorpresa a nessuno, quindi dirò solo che dentro ci si può trovare una chitarra slide, un treno che parte, una voce che parla giapponese e qualche sonorità funk.

Il bello di Mac è questo suo essere diventato oggetto di una sorta di strano culto, ovunque accolto come una grande star, un’icona insolita e sbilenca, e allo stesso tempo di fregarsene totalmente di quello che viene prodotto oggi nel mondo della musica. Quello che appare evidente da questo disco è che Mac DeMarco stia cambiando, forse sta diventando grande, chissà.

Here Comes The Cowboy sembra testimoniare il desiderio di trovare una nuova strada. Si tratta essenzialmente di un album più nudo rispetto ai precedenti, a partire dagli arrangiamenti, spesso composti da una chitarra, un piano e poco altro, fino ad arrivare ai testi.

Buono, ma a volte – ad eccezione di qualche pezzo – ci si ritrova a desiderare qualcosa di un po’ più divertente, un po’ più vivace, un po’ più DeMarco.

 

Mac DeMarco

Here Comes the Cowboy

Mac’s Record Label, 2019

 

Daniela Fabbri

VezBuzz: quella volta che i Radiohead sono spariti completamente (dal Web)

Un po’ per curiosità, un po’ per deformazione professionale, sono sempre stata attratta dalle tecniche di comunicazione adottate da artisti e band per promuovere i propri lavori. Forse qualcuno avrà già sentito parlare del “buzz”. Questa parola onomatopeica richiama il ronzio fatto dalle api.

Il buzz infatti viene utilizzato per generare sorpresa e curiosità, e di conseguenza brusio, o parlando di marketing sarebbe meglio dire “passaparola”. E non c’è bisogno che lo dica io, quanto il passaparola sia importante, soprattutto nell’era dei social.

Anche nella musica, sono tanti gli artisti che hanno adottato e messo in piedi strategie di comunicazione insolite, il buzz appunto, per lanciare i propri dischi o per creare interesse intorno a sé, in maniera spontanea. In questa rubrica, VezBuzz, parlerò dei casi più originali.

Il primo che mi interessa raccontare, anche per amore verso il gruppo, è quello dei Radiohead in occasione dell’uscita di A Moon Shaped Pool. Correva l’anno 2016 e a casa di alcuni fan della band che avevano fatto acquisti sul sito ufficiale, arrivò uno strano volantino. Oltre al logo dei Radiohead una frase: “Sing a song of sixpence / that goes ‘Burn the witch” e un minaccioso “We know where you live”.

Sing a song of sixpence è il titolo di una filastrocca per bambini, mentre Burn the Witch fa pensare alla caccia alle streghe. Tra la fine di Aprile e l’inizio di Maggio infatti, periodo in cui vennero consegnati i volantini, si festeggia la Notte di Valpurga.

In alcuni paesi del nord Europa questo rito pagano indica la fine dell’Inverno e per lungo tempo fu associato proprio alle streghe, per via dei riti, i baccanali e i falò che avevano luogo durante quella lunga notte. Non so voi, ma io ho i brividi.

A questo, seguì un altro fatto davvero, davvero insolito. I Radiohead, da un giorno all’altro, cancellarono completamente le loro tracce dalla rete. Il sito, i profili Facebook, Instagram e Twitter della band vennero completamente svuotati, così come scomparvero i tweet di Thom Yorke dal suo profilo personale.

Questo naturalmente portò i fan, ma non solo, a parlare, a fare congetture, a chiedersi come mai. Proprio loro, che in Kid A ci avevano spiegato “How to disappear completely” l’avevano fatto veramente.

Il 2 Maggio successe qualcosa di nuovo. Su Instagram apparve un piccolo video con un uccellino in stop-motion, che cinguettava con entusiasmo. Più tardi, sempre su Instagram, la band pubblicava un altro video criptico di un gruppo di persone mascherate che ballavano intorno ad una donna legata.

Finalmente il 3 Maggio 2016 arrivò il video di Burn the Witch, il primo singolo dopo cinque anni, con chiari richiami al film horror The Wickerman e ad uno spettacolo televisivo per ragazzi degli anni Sessanta, la serie Camberwick Green.

Il pezzo ha una potenza abbagliante e frenetica, con loop di percussioni elettroniche e il falsetto di Yorke immerso in un oceano di riverbero. Il resto è storia.

A Moon Shaped Pool non sarà ricordato come l’album più sperimentale dei Radiohead, ma di certo è stato un grande ritorno dopo The King of Limbs, non particolarmente amato da alcuni fan, forse tra i lavori più difficili della loro carriera.

I Radiohead hanno sempre fatto parlare di loro per la volontà di staccarsi dalle logiche promozionali della discografia. Il concetto di sparizione però, o sarebbe meglio dire di annullamento, non è qualcosa di nuovo, ma è l’essenza stessa della loro poetica.

Con la campagna di comunicazione e di attesa per A Moon Shaped Pool hanno eliminato e ucciso, metaforicamente, la loro precedente incarnazione e si sono trasformati in una versione attualizzata di loro stessi. La loro versione aggiornata al 2016.

Dai punti di domanda per la strategia, fino ad arrivare agli immancabili “rivoluzionari” e “avantissimo” pronunciati ogni volta che si parla della band dell’Oxfordshire, passando per le millemila analisi e disanime di quanto stava accadendo c’è una sola cosa che conta: che A Moon Shaped Pool sia uscito e che l’obiettivo sia stato raggiunto.

Certo, la grandezza della band e gli album epocali che hanno realizzato negli anni hanno avuto un ruolo importante nella sua anticipazione, ma con numerose band che hanno lo stesso livello di irriducibile supporto dei Radiohead, perché A Moon Shaped Pool ha attirato così tanto l’attenzione?

Per come la vedo io, la campagna di attesa che è stata messa in piedi per il web ha giocato un ruolo importante. Annunciando l’ora del lancio alle 19:00 di domenica 8 Maggio, due giorni prima del rilascio, la band aveva predisposto uno scenario che assicurava alla gente di aspettare con impazienza davanti ai propri computer, in attesa di fare clic sul download.

L’ascolto del disco è stato la cosa più simile ad un evento a cui si sia assistito da anni. Commenti sui social e la BBC Radio 6 che ha organizzato una sorta di festa con ascolto dal vivo e speaker che commentavano le tracce.

A Moon Shaped Pool è stato un’esperienza personale, ma vissuta con la consapevolezza che migliaia di altre persone stavano facendo la stessa cosa, nello stesso identico istante.

 

Daniela Fabbri

An evening with Manuel Agnelli @ Teatro Fabbri di Forlì

Abituata ai concerti degli Afterhours, in piedi, schiacciata alla transenna, è strano pensare di ascoltare le canzoni che hanno fatto da colonna sonora alla mia adolescenza comodamente seduta su una poltroncina di velluto rosso, in un teatro.

Mentre cammino per le strade che mi portano al Teatro Fabbri di Forlì, in occasione di An Evening with Manuel Agnelli mi chiedo che pubblico troverò. Chi, come me, che ha iniziato ad amarlo durante la sua militanza nelle file del rock indipendente italiano oppure persone che lo conoscono soprattutto per i suoi ultimi trascorsi televisivi? Questa cosa mi spaventa un po’.

Mentre mi accomodo nel mio posto numerato, tiro un sospiro di sollievo. Il pubblico di Agnelli è cresciuto, è diventato più trasversale, ma il clima che si respira è lo stesso che ho incontrato in passato ai suoi concerti. Ci si scambia opinioni sull’ultima volta che lo si è visto live e mi accorgo che in tanti non hanno la minima idea di cosa aspettarsi da questa inedita serata concerto-evento.

La modalità d’impianto teatrale per alcuni musicisti non è però così nuova. Penso alle “Conversations with Nick Cave”, che tanto amo e che probabilmente anche Agnelli segue con interesse. Impossibile credere che non si sia ispirato a lui per questo format che tocca diversi ambiti, dalla conversione al concerto, passando per il reading.

Anche solo la vista del palco fa intuire quale sarà l’atmosfera della serata: un appendiabiti, alcune valigie, due poltrone, un giradischi, dei vinili, un plotone di chitarre pronte per le esecuzioni acustiche.

Rodrigo D’Erasmo e Manuel Agnelli arrivano sul palco alle nove e mezza passate, entrambi indossando un cappotto. Se lo tolgono e senza dire niente partono con il primo pezzo, una cover della canzone The Killing Moon di Echo and the Bunnymen, seguita dal primo dei tanti ringraziamenti al pubblico.

Agnelli sembra rilassato, “con la musica ho trovato il mio linguaggio. Ho iniziato a fare rock contro tutto e tutti, ma ad un certo punto ho perso l’obiettivo. Combattevo per qualcosa, ma non ricordavo più per cosa, così ho scritto questo pezzo“. È Padania la canzone che usa per iniziare a parlare di sé.

 

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Tra una chiacchiera e l’altra si arriva a Male di Miele. Agnelli quando parla dell’album “Hai Paura del Buio?” che li ha consacrati alla storia della musica italiana, racconta con ironia di quei tempi, tutt’altro che facili per gli Afterhours.

La band era indebitata con lo studio di registrazione, nessuno voleva comprare il nastro, Manuel aveva perso il lavoro e la sua ragazza l’aveva lasciato. A quei tempi viveva sopra un negozio di animali che, quando passava davanti, parevamo ridere di lui.

Nonostante questo “ho iniziato a preoccuparmi solo quando i pezzi sono diventati allegri“. La versione di Come Vorrei al pianoforte è ancora meglio di quella in studio. Un pezzo dalle sonorità dolci, ma dal testo disperato.

Anche il successivo, Pelle, viene eseguito al piano, con l’accompagnamento del violino di Rodrigo. Il risultato è un’esecuzione ariosa del brano originale. Ammetto di aver temuto l’effetto nostalgia, ma tutti i brani rieseguiti durante An evening with Manuel Agnelli acquistano una nuova identità, senza per questo tradire quella che già conosciamo.

L’ironia non manca mai, nemmeno quando tocca alcuni dei momenti più difficili della sua vita. È il caso di “Folfiri o Folfox”, l’ultimo album di inediti che racconta della morte del padre. Un lavoro catartico, dove “la musica è venuta in soccorso, per buttare fuori le tossine“.

Curioso pensare che proprio un disco così difficile e pesante, sia arrivato primo in classifica. Quando Agnelli e D’Erasmo eseguono Ti cambia il sapore il palco si tinge di verde e di blu, come se fossero imprigionati dentro un acquario, a fare i conti con il dolore. L’esecuzione è da brividi.

Si apre il momento “miti”, con una cover di The Bed di Lou Reed, tratta dall’album “Berlin“. Questo brano era la colonna sonora dei primi viaggi in giro per l’Europa di Agnelli, e dei suoi primi approcci con il sesso.

Come può un album come questo fare da sfondo a dei rapporti sessuali di un ragazzino di sedici anni? Manuel ha la risposta: “ci si nasce con questa sensibilità. Il sesso allegro non mi è mai interessato. E chissà, forse sono proprio io l’inventore del sesso emo“. Probabilmente l’aneddoto più divertente tra i tanti che Agnelli condivide con il pubblico, e proprio questi racconti sono uno dei tanti elementi che arricchiscono il live.

Bianca ottiene una piccola ovazione. Al termine del pezzo i due vanno a sedersi sulle poltroncine in fondo al palco e mentre bevono un bicchiere di vino Agnelli legge un brano di Ennio Flaiano.  Poi a ritmo serratissimo, eseguono una cover irriconoscibile dei Joy Division. Il pezzo è più simile a come l’avrebbe suonato Nick Drake, che ai suoni graffianti e caustici della band di Ian Curtis.

Uno degli aspetti più interessanti di questo concerto-evento è sentire parlare Agnelli dei suoi miti musicali e riferimenti culturali. E di quelli che, inaspettatamente, non l’hanno mai influenzato nonostante con la loro musica abbiano sancito un periodo storico. È il caso di Kurt Cobain, che oggi sarebbe quasi coetaneo di Manuel.

Erano gli anni Novanta, cadeva il muro di Berlino e in Italia imperversava Mani Pulite. Sembrava che l’onestà e la verità, stessero per vincere su tutto il resto. Il mondo poteva cambiare, finalmente tutto era possibile, nella società, nella Musica, ovunque. Poi, Kurt si suicidò e mise il sigillo a quel periodo storico. Tutto cambia per rimanere uguale.

L’abilità di Agnelli, spalleggiato dal fondamentale Rodrigo D’Erasmo, è di aver messo in piedi uno spettacolo intimo e toccante, delicato e profondo, carnale e leggero. Si passa da una lettura a un aneddoto personale, da una cover a un pezzo storico degli Afterhours, senza quasi accorgersene.

Come quando si è tra amici veri, quelli a cui si vuol bene, che tra un bicchiere di vino e il consiglio di un buon libro o un disco, si finisce a tirare tardi.

La cover di State Trooper di Springsteen è una delle meglio riuscite di tutta la serata. Tra l’urlo riverberato di Agnelli e il violino di Rodrigo, che sembra riprodurre il suono del sistema nervoso, non viene tradita la forza del pezzo che parla di chi non è mai riuscito ad integrarsi, di chi vive ai margini, dei diversi.

Il concerto scivola via, una diapositiva dopo l’altra, con Manuel che si racconta molto anche nel privato, dalla prima telefonata di Mina arrivata quasi per caso nel 1995 agli inevitabili talent. Agnelli dice di essersi liberato, durante quell’esperienza televisiva.

Di aver capito che molta della musica che viene prodotta oggi è “musica di merda“, ma che in mezzo a tutto questo ci sono pezzi interessanti e che, spesso e volentieri, è proprio sua figlia a farglieli conoscere. È il caso di Lana Del Ray. La cover di Video Games è il pezzo che non ti aspetti, eppure sembra essere tutto al posto giusto. Il pubblico ascolta incantato.

Sono passate più di due ore dall’inizio del concerto, ma il ritmo è ancora sostenuto. Nell’ultimo “encore” infila Ballata per la mia piccola Iena, Ci sono molti modi e Non è per sempre con il pubblico che canta – male – insieme a lui il ritornello. Mi scoppia il cuore.

È il momento dell’ultimo pezzo che “servirà a togliervi quello stupido sorriso ingiustificato dalla faccia“, ci dice Manuel con un’espressione da gatto. Parte Quello che non c’è.

Al termine del concerto il pubblico si alza in piedi, Agnelli e D’Erasmo se ne vanno tra gli applausi.

Quello che si è visto sul palco del Teatro Fabbri è un nuovo Manuel Agnelli, più leggero, più risolto forse, che non ha tradito quello che è stato. È una nuova versione che ha portato il musicista ruvido e puro, tutto nervo e rabbia, a una nuova dimensione, colta, irriverente e autoironica.

 

Manuel Agnelli Nicola Dalmo 2019 003

L’impressione che ho avuto è che Agnelli abbia voluto rompere con un certo passato che forse gli stava stretto da un po’. Quello dell’ambiente “indie” che spesso, in Italia, fa rima con snob e autoreferenzialità.

Probabilmente stanco di quel clima asfittico, pieno di limiti, di barricate e di regole, Agnelli durante questa serata ha rivendicato più volte il desiderio e il diritto di fare quello che vuole, di essersi guadagnato la propria libertà.

Anche quella di non prendersi, finalmente, troppo sul serio.

 

Testo: Daniela Fabbri

Foto: Nicola Dalmo

Cage the Elephant “Social Cues” (RCA Records, 2019)

C’è una buona e una cattiva notizia sul ritorno dei Cage The Elephant. La buona notizia è che Social Cues è un bel disco. La seconda è che per qualche giorno, da quanto è orecchiabile, sarà impossibile ascoltare altro.

L’ultimo e quinto album della band del Kentucky è uscito il 19 Aprile 2019 per RCA Records. Ad averci messo le mani sopra, questa volta, il Re Mida della produzione: John Hill, già celebre per aver lavorato con Florence + The Machine e Santigold.

I Cage the Elephant hanno alle spalle una carriera decennale, ma sono diventati grandi senza mai farsi notare troppo. Nella loro produzione non esiste qualcosa di assolutamente eccezionale in termini di scrittura o audacia sonora, ma la loro formula è rimasta comunque fortemente caratteristica e piacevole.

Dal 2008 ad oggi hanno attraversato un’enormità di generi: dal blues al garage, passando per il funky con una punta di elettronica. Nelle tredici tracce che compongono Social Cues la metamorfosi sembra finalmente essersi compiuta: dal rock più sporco e viscerale degli esordi ad un suono più elegante e sofisticato, per un disco di certo meno rumoroso dei precedenti.

Broken Boy è l’urlo iniziale dell’album. Non poteva esserci apertura migliore. Un pezzo abrasivo, con una produzione lo-fi, che piacerà ai fan della prima ora. Tutto il disco sembra convergere sul tema dell’alto prezzo del successo, che spesso viene pagato dagli artisti in termini di ansia, esaurimento nervoso, senso di inadeguatezza e psicopatie varie.

Tutto questo unito a una buona dose di automedicazione messa in pratica da Matthew Shutlz, in seguito al recente divorzio dalla moglie. “Tell me why I’m forced to live in this skin, I’m an alien”, canta Matt. E preparatevi: è solo l’inizio.

Infatti, il testo della canzone successiva che porta il nome dell’album Social Cues recita “sarò nel retro, dimmi quando è finita”, con Shultz che canta “non so se posso interpretare questa parte molto più a lungo”.

Black Madonna, insieme a Ready to Let Go, è tra i pezzi più pop. Eccessivamente elaborata, ma allo stesso tempo più apatica rispetto al resto. Lo stesso vale per Love’s the Only Way e What I’m Becoming, che sembrano pezzi già sentiti altre volte dai Cage the Elephant. Quello che si avverte è un fastidioso senso di familiarità che contribuisce solo a renderli meno brillanti rispetto al resto dell’album.

Uno dei pezzi migliori è Night Running, con Beck. La canzone ha una vena reggae, sia nel suo backbeat che nella produzione, oscura e con effetti sonori simili a quelli della dub. Il suono è pieno e arioso, e anche il cantautorato richiama alla mente quello più tradizionale dei Cage the Elephant.

Skin and Bones è seducente e sembra perfetta per diventare un singolo radio.

La vera bomba a mano dell’album però è House of Glass, che al primo ascolto potrebbe essere un pezzo cantato da Tricky. Qui la progressione della chitarra di Brad Shultz, fratello del cantante, sembra abbracciare alla perfezione i testi di Matt sull’isolamento e la mutilazione, e sostenere i suoi continui tentativi di convincersi dell’esistenza dell’amore.

L’album termina con Goodbye, una delle canzoni più tristi e spettrali del disco. “Non piangerò, il Signore sa quanto ci abbiamo provato”, si tratta di una ballata accompagnata da un pianoforte echeggiante, in continuo crescendo.

“Tante cose che voglio dirti, così tante notti insonni ho pregato per te” recita il testo, ed è in questo preciso momento che i Cage the Elephant svelano il loro grande potenziale nel toccare le corde più fragili e commosse della nostra anima.

In Social Cues il suono è molto stratificato, complesso, ma compatto. Tutto ben amalgamato con la voce di Matthew Shultz. I testi sono più oscuri rispetto al passato, complice anche il recente divorzio del cantante, ma nel complesso i Cage the Elephant rimangono gli stessi ragazzoni spavaldi di sempre.

Non siamo di fronte ad un lavoro rivoluzionario o che passerà alla storia, ma allo stesso tempo, di certo, Social Cues non deluderà i fan. Questo album è da intendersi più come colorare fuori dalle righe, anziché inventarsi un disegno nuovo, ma bisogna ammettere che i Cage the Elephant hanno dimostrato di essere, una volta in più, una band tra le più ecclettiche e divertenti in circolazione.

 

Cage the Elephant

Social Cues

RCA Records, 2019

 

Daniela Fabbri