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Tag: danimarca

Roskilde Festival 2022

Da dove iniziare a parlare del Roskilde Festival, istituzione danese dal 1971, quest’anno alla sua 50ª edizione (posticipata dal 2020)?

Partiamo dall’inizio: è l’una di pomeriggio di mercoledì 29 Giugno, fa un caldo terribile per la Danimarca, sono schiacciata da 12 kg di zaino sulle spalle pieno di macchine fotografiche e obiettivi, il computer, annessi e connessi, ho due braccialetti al polso che mi daranno accesso al festival e ai palchi e sto camminando in salita.

Ma chi me lo sta facendo fare?!

E poi, inizia a vedersi un pinnacolo arancione in mezzo agli alberi, sto arrivando da dietro l’iconico tendone arancio dell’Orange Stage, simbolo del festival dal 1978 quando l’organizzazione lo comprò di seconda mano da un tour dei Rolling Stones, e mi rendo conto di starmi avviando verso una cosa forse più grande di me, un’emozione intensa mi prende alla gola sapendo chi è passato su quel palco e tristemente la tragedia che ci si è consumata davanti. È difficile spiegare a parole la sensazione allo stesso tempo di timore reverenziale dettata da un posto che mi ha sempre fatto molta paura (nel 2000 avevo circa l’età dei ragazzi che sono rimasti schiacciati dalla folla, il pensiero va sempre lì: e se fosse capitato a me?) e di pura gioia e senso di appartenenza. Come due poli uguali di una calamita che generano due forze tanto opposte quanto potenti, una paura inconscia e il richiamo affascinante di un’esperienza nuova ancora tutta da vivere, è bastato un passo verso le cancellate per sbilanciare questo stallo emotivo e farmi attrarre dal magnetismo che un evento del genere esercita su chi, come me, è affamato di musica.

Dopo vari tentativi e km camminati a vuoto per trovare il backstage village, è stato il momento di andare a perlustrare il festival prima dell’apertura al pubblico, letteralmente la quiete prima della tempesta. L’area dove si svolge il programma musicale del festival è grande, circondata da aree altrettanto grandi adibite a campeggio, piccoli villaggi con altri palchi, aree ricreative, installazioni artistiche e altro ancora, tant’è che nella settimana del festival la città di Roskilde da decima, diventa la terza più popolosa del Paese.

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È surreale passeggiare in questi grandi spazi, sfilare davanti ai palchi ancora silenziosi e immaginare quanto sarà calpestato il terreno tra poche ore.

A quanto pare c’è un rituale che assomiglia più ad una spedizione di caccia grossa che ad un festival: i fotografi si vestono con delle pettorine ben visibili, si vanno a posizionare in punti strategici, possibilmente al riparo di qualcosa per non essere travolti, e cercano di catturare questa specie di migrazione di gnu hippy. Allo scoccare delle cinque in punto del mercoledì pomeriggio, si aprono i cancelli che separano i campeggi dall’area del festival e c’è “la grande corsa” per accaparrarsi un posto in prima fila al proprio palco preferito.

Il mercoledì è una giornata breve ma intensa, si apre con Fontaines D.C. e in poche ore si alternano sui palchi nomi come Robert Plant, Post Malone e Biffy Clyro. Il mio Tour de Force, in parallelo al Tour de France che si svolge su suolo danese in questi stessi giorni, inizia quindi con un giro di ricognizione: cerco di capire come muovermi tra un palco e l’altro, i percorsi più brevi, gli ingressi ai pit, le posizioni strategiche e quali obiettivi montare sulle macchine.

Alla fine della prima giornata, dopo solo sei concerti, i piedi bruciano come se avessi camminato sui carboni ardenti, ma sono solo 13 km in scarpe da tennis: come faccio ad arrivare a sabato?

Qualche ora di sonno, un’occhiata veloce alla foto e giovedì ricomincia la rumba con un programma ancora più fitto di quello del giorno prima. Oggi tappa crono, nel senso che ho i minuti contati: dalle 16:00 in poi ad ogni scoccare dell’ora un nuovo concerto da fotografare, spostarsi da un palco all’altro attraverso fiumi di gente e birra, ma nonostante tutto riesco a vedere un pezzo di redivivo indie rock direttamente dal mio amato Pacific Northwest, Modest Mouse, e a seguire una reminiscenza adolescenziale, le TLC, per poi saltare da Jimmy Eat World e tornare ad una musica più pacata ma non meno energica con The Whitest Boy Alive, forse uno dei gruppi che più di tutti stuzzicavano il mio interesse. Pausa. Ora di tirare fiato prima della reginetta pop Dua Lipa sull’Orange Stage ma soprattutto, molto più intrigante per me, la dolcissima Phoebe Bridgers con la sua banda di scheletrini a suonare all’Avalon. Atmosfera, delicatezza, un tocco di malinconia intimista molto più nelle mie corde delle ballerine scosciate viste poco prima.

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Quattro giorni di festival sono lunghissimi, come un weekend con tre venerdì, ma il venerdì quello vero arriva e porta con sè The Smile, il neonato progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood presto anche in Italia, e Arlo Parks, energica poesia R&B. Venerdì è la tappa di montagna, come ben rappresentato dalla scenografia che Tyler, the Creator fa installare sull’Orange Stage, e lui così tanto nel ruolo dello stambecco che giustamente si fa fotografare solo da lontanissimo. Venerdì porta anche la pioggia, un paio di scroscioni brevi ma intensi che purtroppo liberano nell’aria quegli odori acri e fermentati tipici di festival, sopiti i giorni precedenti dal terreno secco e assetato di birra (più o meno processata dal corpo umano). Un festival non può considerarsi tale se non ti prendi almeno due gocce d’acqua: è chiaramente indicato nello statuto dei festival nordici, capitolo “avversità inutili per il gusto di dar fastidio”. Adesso, quindi, siamo in regola anche con questo.

Sabato: arriva il Tour de France, per davvero, che chiude le strade dalle sette di mattina e mi obbliga ad una levataccia se voglio essere presente al rituale giornaliero della distribuzione dei pass per l’Orange Stage, che oggi ha il programma più ciccio dei quattro giorni: St. Vincent, Haim e The Strokes.

Ma come dice il detto, il mattino ha l’oro in bocca e in particolare a queste latitudini, dove già alle 5:30 è giorno fatto da un pezzo, mi dà l’occasione di vedere un altro aspetto del festival altrimenti non celebrato abbastanza: il lavoro incredibile che fa il personale – esclusivamente volontario – per rendere possibile il tutto. Per la rubrica Non Tutti Sanno Che, infatti, il Roskilde Festival è un evento non-profit; si basa ogni anno sul lavoro di circa 30,000 volontari che montano, smontano, puliscono, gestiscono, sorvegliano e aiutano e chi più ne ha più ne metta in modo che, al netto delle spese vive, il ricavato della settimana vada a supporto di iniziative umanitarie e culturali a beneficio di bambini e giovani.

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Tornando a noi e alla mia passeggiata tra prati che venivano ripuliti dall’immondizia del giorno prima, strade spazzate e facce assonnate, mi ritrovo a far colazione con kanelsnurrer appena sfornate (ci sarebbe da scrivere un articolo solo sulla varietà e la bontà dell’offerta culinaria) ad un tavolo condiviso con tanti altri mattineri come me, baciata dal sole mentre guardo il tendone dell’Avalon vuoto e silenzioso, ignaro – ed io con lui – di quello che avrebbe visto da lì a poche ore durante il live indemoniato degli Idles. 

La giornata scorre piuttosto veloce, tra Big Thief e St. Vincent – da oggi in poi anche detta Barbie Rockstar, grazie ad una performance impostata e plasticosa – e finalmente arriva il momento: The Strokes come ultimo headliner. Aspettative altissime, soprattutto memore del live sorprendente al Primavera Sound del 2015, ma… il “momento” si è fatto attendere ben mezz’ora – cosa che ai festival proprio non si fa – e forse visto il disastro che si è svolto sul palco forse era meglio che il momento non arrivasse mai. Julian Casablancas è stato a dir poco imbarazzante nella sua performance, stonato, fuori tempo e apertamente senza voglia alcuna di intrattenere le decine di migliaia di persone che si aspettavano di chiudere il festival con il nome più atteso dei quattro giorni.
“Siamo qui, dobbiamo ammazzare il tempo” – non esattamente la dichiarazione di un frontman carismatico; il resto del gruppo nel frattempo faceva il suo sporco lavoro, ma senza particolare coinvolgimento nè nei confronti del suo cantante nè nei confronti degli astanti. Uno spettacolo così misero e un meltdown così pesante non lo vedevo da anni, davvero un peccato e un po’ una vergogna che sia successo nel momento più alto di quello che altrimenti sarebbe stato un festival delizioso.

Lasciandomi alle spalle una Last Nite che da lontano sembrava vagamente meno massacrata di Reptilia, ho salutato il festival grande grosso e che mi faceva paura solo pochi giorni prima con un sentimento di affetto e gratitudine, promettendogli di tornare ancora. Qui lo chiamano orange feeling e adesso capisco a cosa si riferiscono.

Francesca Garattoni

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Syd For Solen 2022

Dice il detto “tra i due litiganti, il terzo gode”.

Così è stato per il Syd for Solen: dopo uno scontro fratricida tra festival danesi la settimana precedente (NorthSide vs. Heartland), il neonato festival di Copenhagen, piazzandosi nel secondo weekend di Giugno, si è potuto accaparrare nomi di tutto rispetto della scena internazionale, liberi anche dagli impegni del Primavera Sound a Barcellona.

Collocato a Søndermarken, cuore verde di Frederiksberg, delizioso quartiere subito ad Ovest del centro della capitale danese, tra casette in mattoni a vista, aiuole ben curate e hygge a palate, il grande prato circondato da alberi secolari è stato calcato da un numero variabile tra dieci e quindici migliaia di persone al giorno, che hanno visto alternarsi su due palchi gruppi emergenti e icone affermate.

Venerdì in particolare, giorno più tranquillo dei tre a livello di presenze, più che ad un festival è sembrato di assistere ad una scampagnata tra amici: gruppetti di persone sparse sull’erba, birra d’ordinanza in mano, la gente si è goduta l’indie rock di Velvet Volume, PRISMA e Goat Girl in completo relax prima che l’atmosfera si iniziasse a scaldare con il rap di Slowthai. È per i Foals che si inizia a vedere quella massa di gente che tanto è mancata di fronte ad un palco, massa che non farà che aumentare per il primo headliner della tre giorni, Liam Gallagher.

Il nostro caro Liam sale sul palco con un grugno che già urlava smaronamento a mille e non arriva neanche alla fine della prima canzone per trovare da dire con i ragazzini in prima fila che sfoggiavano delle maglie da calcio evidentemente non gradite al nostro. Per quanto l’umarèll albionico non si smentisca nell’immobilità delle sue performances, le emozioni che suscitano le hit dei bei tempi che furono targate Oasis scuotono corpi e anime di chi ascolta.

Il picco del festival si ha però nella seconda giornata. Se il buon Sandro Ciotti fosse ancora vivo, vi reciterebbe la lineup più o meno così: “inizia la giornata sul palco principale Anna Calvi a seguire la favolosa Sharon Van Etten per lasciare poi spazio agli eterei Slowdive [respiro] deviamo verso il palco piccolo per l’esordio in terra danese delle Wet Leg per poi ripiegare sul palco principale per il set conclusivo di questa giornata soleggiata e bellissima con The National”. Sabato è stato come gustarsi un vassoio di pasticcini belli farciti, appaganti, da godersi uno alla volta e assaporare fino in fondo il sapore distintivo di ognuno.

Il pasticcino più gustoso è stato, almeno per la sottoscritta, il set de The National: coinvolti e coinvolgenti (a Copenhagen sono di casa, NdA), hanno dato al pubblico uno delle loro migliori performances, con un paio di nuovi pezzi interessanti – anche se non così d’impatto come fu ascoltare dal palco dell’HAVEN KBH Carin at the Liquor Store prima dell’uscita su disco – e un continuum di canzoni tratte da tutta la loro discografia, così densa di titoli meravigliosi da non far rimpiangere quelli lasciati fuori dalla scaletta. Il concerto si chiude con la malinconica About Today, da assorbire nota per nota guardando tra le fronde degli alberi la magia del cielo ancora chiaro delle notti nordiche.

Domenica le previsioni davano una lineup un po’ più varia in termini di sound e rovesci sparsi. Purtroppo l’acquazzone più grosso si è avuto al secondo pezzo dei Parcels che ha costretto il gruppo a battere in ritirata e sospendere il concerto almeno finchè il diluvio non si è trasformato in pioggerella. Sarà stata la musica coinvolgente, la voglia di far festa, ma quando il sole ha bucato le nubi l’ovazione del pubblico è stata assordante. Il pomeriggio procede con il pop svedese delle First Aid Kit e il soul di Leon Bridges per arrivare alla festa conclusiva, il set dei Jungle che hanno fatto saltare e ballare in un rito collettivo di riappropriazione della vita sociale negata dai due anni di pandemia.

Si chiude così questa prima edizione del Syd for Solen, festival che ci auguriamo ritorni il prossimo anno e che, nonostante qualche aggiustamento da fare soprattutto riguardo alla quantità di food trucks presenti, ha saputo coniugare la dimensione cittadina della location con la dimensione internazionale degli ospiti in modo squisitamente impeccabile.

Francesca Garattoni

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NorthSide 2022

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• Day 1 •

2 Giugno 2022

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Nick Cave and The Bad Seeds

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Disclosure

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Nathaniel Rateliff & The Night Sweats

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Drew Sycamore

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Jung

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Hans Philip

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• Day 2 •

3 Giugno 2022

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Lewis Capaldi

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Suspekt

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The Avalanches

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Thomas Helmig

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Tom Misch

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Spleen United

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Tessa

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Coco O.

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• Day 3 •

4 Giugno 2022

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The Minds of 99

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Kashmir

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Mew

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Scarlet Pleasure

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Jonah Blacksmith

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NorthSide 2019

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• Day 1 •

6 Giugno 2019

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Tame Impala

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Alice in Chains

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The Streets

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Foals

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Cautious Clay

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Phlake

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• Day 2 •

7 Giugno 2019

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New Order

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Major Lazer

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Idles

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Migos

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Mark Ronson

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Nas

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• Day 3 •

8 Giugno 2019

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Bon Iver

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Kurt Vile and the Violators

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Suspekt

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Keane

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Oh Land

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Novo Amor

[/vc_column_text][vc_empty_space][/vc_column][vc_column width=”1/3″][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Francesca Garattoni

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Heartland Festival 2019

[vc_row][vc_column][vc_column_text]C’è un castello, nella campagna danese, che sembra uscito da una delle fiabe di Hans Christian Andersen: nel mare verde dei campi, si erge al centro di un laghetto con le sue torri, guglie e tetti che sembrano meringhe. Ci sono cigni e pavoni, cespugli potati a forma di scoiattolo e labirinti di siepi e, in fondo ad un viale illuminato da lampadari di cristallo appesi tra gli alberi, si entra nel mondo magico dell’Heartland Festival.

Per dirla con le parole di una cara amica, “è un festival per hipster anziani” e l’edizione di quest’anno non ha fatto che confermare questo pensiero già fortemente radicato nell’identità del festival fin dal suo esordio quattro anni fa. L’Heartland, infatti, è un evento non solo musicale ma culturale a tutto tondo: Music / Art / Talk / Food sono i quattro pilastri su cui si basa, dando spazio non solo ai concerti, che sono comunque la parte preponderante del programma, ma anche a dibattiti (su temi legati all’arte, musica, ecosostenibilità…), installazioni artistiche ed esperienze culinarie con chefs stellati, il tutto in un’ambientazione degna del Sogno di una notte di mezza estate.

Per poter godere appieno del festival, non basterebbe essere uno e trino e quindi, dovendo proprio scegliere tra tutte queste attività artistico-intellettuali — inclusa magari una sessione di yoga con vista sul cigno gonfiabile dall’espressione svantaggiata (Swan-Thing, David Shrigley) parcheggiato nel fossato del castello — e dei sani concerti, la scelta è caduta ovviamente sui concerti, con un’eccezione: il talk di Vivienne Westwood.

DSC 7083
David Shrigley “Swan-Thing”

Il programma di quest’anno è stato particolarmente ricco, con una varietà di generi dal jazz (Kamasi Washington) all’alternative hip hop (Die Antwoord), passando per gli immancabili artisti danesi sia emergenti (Jada) che affermati (The Minds of 99), ma è il rock con le sue varie sfumature a farla da padrona, dal brit-pop di Richard Ashcroft all’eleganza decadente degli Interpol.

Proprio in questi giorni il leader dei Primal Scream Bobby Gillespie ha rilasciato una dichiarazione second cui “il rock è come il latino, una lingua che sta morendo”, ma chi era lì presente al festival non è sembrato troppo d’accordo con questa affermazione: ogni sera, davanti a The Good, the Bad & the Queen, The Raconteurs e The Smashing Pumpkins, headliners di questa edizione, c’erano tutte le 18000 persone che questo festival può accogliere, ad ascoltare, rapiti, le canzoni, a ballare, entusiasti, al ritmo delle chitarre, ad acclamare idoli del passato e geni musicali dei giorni nostri.

E così, nel festival del regno delle fate, davanti ad un pubblico sereno ed educato — tanto da poter bere da bicchieri e bottiglie di vetro in transenna — sono passati sul palco Damon Albarn domatore di folle, Jack White sorridente che godeva della musica che stava suonando, e Billy Corgan magnetico, una delle ultime vere rockstar nelle movenze e nel carisma.

Ondate di emozioni come folate di vento hanno fatto ondeggiare braccia e battere i cuori all’unisono, migliaia di voci hanno fatto salire al cielo il loro canto, stonato, liberatorio, ma in quei momenti il rock stava facendo il suo incantesimo che lo renderà sempre una lingua attuale.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435921124{margin-top: 20px !important;margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

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• Day 1 •

30 Maggio 2019

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The Good, The Bad & The Queen

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Primal Scream

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Charlotte Gainsbourg

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John Grant

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Lewis Capaldi

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• Day 2 •

31 Maggio 2019

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The Raconteurs

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Elbow

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The Minds of 99

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Jada

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Danny Brown

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• Day 3 •

1 Giugno 2019

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The Smashing Pumpkins

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Interpol

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Die Antwoord

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Hot Chip

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Richard Ashcroft

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Kamasi Washington

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Vivienne Westwood

talk

[/vc_column_text][vc_empty_space][/vc_column][vc_column width=”1/3″][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo e Foto: Francesca Garattoni

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Built to Spill @ VoxHall

Aarhus, 13 May 2019

It’s a sunny spring evening in Aarhus and VoxHall is open tonight to host Built to Spill, on their tour to celebrate the twentieth anniversary of Keep It Like a Secret.

The concert is scheduled to start at 20:00, and a few minutes before the opening band takes the stage I enter the venue and I find it suspiciously desert: a handful of people, a few known faces and most of the attendees enjoying a drink beyond the bar that shields the floor from the golden light coming from the wide windows looking at the small river that cuts the city.

Lights dim and Oruã from Brasil start playing: dark, noisy guitars, hypnotic drums and a vocal attitude that recalls Cedric Bixler-Zavala. Listening to them was a continuous in and out of a timeless dimension, a sort of black hole inside of which there was music but on the outside time was passing very slowly: to me, the hour of their set seemed longer than the twelve years I had to wait to see Built to Spill again.

By the time Oruã set was over, the venue was a bit more crowded, but still far from the expectations: why? …and the answer is: there is another band to go!!!

A bit scared of another endless hour of wait, I lean on the barrier in front of the stage with no expectations at all.

The second band of the bill is Slam Dunk from Canada, a happy crazy quartet on their last date of the tour. Their rock is fresh and catchy, their attitude on the stage a storm of energy: jumps, jokes and messing around are the perfect entertainment to keep the crowd awake and allow the late people to fill the floor.

Once they carry out of the stage their guitars, there is nothing much to arrange to host the main act of the night, as all the three bands share the same drum kit, a few ampli on the back of the scene and… basically that is it: simple, open, essential, a setup that is so typically Built to Spill.

Doug Martsch walks in, carrying his inseparable backpack, like he is just another sound tech, as usual: he sets up his pedals, whatever he has on top of a case next to the mic and as soon as the three other touring members of the band take the stage, he starts. Not a word, but You Were Right, the eighth track of the record we are here to listen to.

It is an interesting choice, the fact of playing every evening the tracklist of the record shuffled: most of the bands, when they play an anniversary-of-some-record show, play the record top to bottom. How innovative. Despite I could understand that it is what the audience expects, it is also true that listening to very well known songs in a different order sparkles something new, a nuance that you would not have noticed otherwise, and that is the magic and the craftsmanship of a live show.

There are no frills on the stage, the lights are wisely balanced to allow the crowd to see the musicians on the stage but at the same time low enough to give a feeling of intimacy. The songs flow one after the other with no effort: Time Trap arrives and goes, I am completely lost in the extended guitar solos; The Plan, memories of a past life that come back.

Sidewalk, a string on Doug’s guitar breaks and in front of a full house, on the stage, there it is, the embodiment of humility: a man and his only guitar, no fancy backups, no frenetic helpers that come and change it because show must go on, no. The band keeps playing without looping, improvising a solo that it seems it has always been there, as part of the song, and in the meantime the string is changed, a truly genuine moment.

The main set ends with Broken Chairs, during which I cannot help taking the following note while I am both lifted and intimidated by the guitar solos: “these solos are some of the finest examples of musical architecture, precisely built to be both slender and solid like the arches in a gothic cathedral: clean, immense and strong enough to carry the weight of a heart full of the emotions”.

The band leaves the stage, but we all know they will be back because one song is missing from the setlist played so far, and it is probably the gem of the album: Carry the Zero.

It is not time to say goodbye yet, so before we get to the closing of the concert, we are treated with a handful of songs that spans through the whole production of the band, and a cover, and a stage invasion by the opening bands and finally, with dimmed lights and a slight melancholic feeling, we finally get to that carried zero that changes everything.

I am well aware those are the last minutes of a one and a half hour delight and on those parting words a hint of sadness slips under my skin — luckily, those two wild clowns of Slam Dunk frontmen show up on the stage again, transforming this intimate goodbye into a party, while a shy smile finds its way on Doug Martsch’s face.

Pictures courtesy of Steffen Jørgensen

ita

Built to Spill @ VoxHall

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• Built to Spill •

 

VoxHall (Aarhus) // 13 Maggio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]È una soleggiata serata primaverile ad Aarhus e il VoxHall è aperto stasera per ospitare i Built to Spill, in tour per celebrare il ventesimo anniversario di Keep It Like a Secret.

Il concerto inizia alle 20:00, e pochi minuti prima che il gruppo di apertura salga sul palco, entro nel locale trovandolo sospettosamente deserto: una manciata di persone, qualche faccia conosciuta e la maggior parte della gente che si gode un drink dall’altra parte del bar che si separa l’area concerto dalla luce dorata che entra dalle ampie finestre sul fiumiciattolo che attraversa la città.

Le luci si abbassano e gli Oruã dal Brasile iniziano a suonare: chitarre cupe e rumorose, ritmi ipnotici e una voce che strizza l’occhio a quella di Cedric Bixler-Zavala. Ascoltarli è un continuo entrare ed uscire da una dimensione senza tempo, una sorta di buco nero al cui interno c’è musica ma al di fuori il tempo scorre molto lentamente; per me, l’ora del loro set è stata più lunga dei dodici anni che ho dovuto aspettare per rivedere i Built to Spill.

Alla fine del set degli Oruã, il locale è un po’ più pieno ma ancora lontano dalle aspettative: perché? …e la risposta è: c’è ancora un’altra band!!!

Un po’ spaventata dal pensiero di un’altra infinita ora di attesa, mi appoggio alla transenna senza alcuna aspettativa.

Il secondo gruppo della serata sono gli Slam Dunk dal Canada, un quartetto pazzo e felice alla loro ultima data del tour. Il loro rock è allegro e coinvolgente, il loro atteggiamento sul palco un uragano di energia: salti, scherzi e confusione sono il perfetto intrattenimento per tenere il pubblico sveglio e permettere alle ultime persone di riempire il locale.

Finito di portar via dal palco le loro chitarre, non resta molto da sistemare prima dell’arrivo del nome principale della serata, in quanto i tre gruppi condividono la stessa batteria, qualche amplificatore sul fondo della scena e… fondamentalmente è tutto lì: semplice, aperto, essenziale, un allestimento così tipicamente Built to Spill.

Doug Martsch entra come se fosse solo un altro tecnico del suono, portando in spalla il suo zainetto come al solito: si prepara la pedaliera, sistema non so cosa sopra ad una cassa di fianco al microfono e non appena gli altri tre membri del gruppo entrano in scena, inizia. Non una parola, ma You Were Right, l’ottava traccia dell’album che siamo qui ad ascoltare.

È una scelta interessante, quella di suonare ogni sera la tracklist dell’album mischiata: la maggior parte dei gruppi, quando suonano un qualche anniversario di disco, suonano il disco dall’inizio alla fine. Quanta originalità. Nonostante possa capire che quello sia ciò che il pubblico si aspetta, è anche vero che ascoltare canzoni che conosciamo bene in un ordine diverso può far emergere qualcosa di nuovo, delle sfumature che magari non avremmo colto altrimenti, e questa è la magia e l’artigianalità di uno spettacolo dal vivo.

Non ci sono fronzoli sul palco, le luci sono sapientemente bilanciate da permettere al pubblico di vedere i musicisti sul palco, ma allo stesso tempo abbastanza basse da dare un senso di intimità. Le canzoni scorrono una dopo l’altra senza sforzo: Time Trap arriva e se ne va, io sono completamente persa negli assoli dilatati delle chitarre; The Plan, ricordi di una vita passata che riaffiorano alla mente.

Sidewalk, una corda della chitarra di Doug si rompe e di fronte al locale pieno, sul palco, c’è l’impersonificazione della parola umiltà: un uomo e la sua sola chitarra, niente costosi backup, niente aiutanti frenetici che arrivano con una chitarra fresca perché lo spettacolo deve continuare, no. Il gruppo continua a suonare, ma senza entrare in loop, improvvisando assoli come se fossero sempre stati lì, parte della canzone, e nel frattempo la corda viene cambiata in un momento di vera autenticità.

Il set principale si chiude con Broken Chairs, durante la quale non posso fare a meno di annotarmi il seguente pensiero mentre sono al contempo sollevata ed intimorita dall’assolo di chitarra: “questi assoli sono tra le più raffinate architetture musicali, costruiti con precisione per essere snelli e solidi come gli archi in una cattedrale gotica: puliti, immensi e forti abbastanza da sostenere il peso di un cuore pieno di emozioni”.

La band lascia il palco ma sappiamo tutti che torneranno, perché manca una canzone dalla scaletta suonata finora, ed è probabilmente la perla dell’album: Carry the Zero.

Non è ancora un vero e proprio commiato, perciò prima di arrivare alla conclusione del concerto siamo coccolati con una manciata di canzoni che coprono l’intera produzione del gruppo, e poi una cover, e poi un’invasione di palco da parte dei gruppi di apertura e poi, finalmente, con luci soffuse e un vago senso di malinconia, arriviamo a quello zero riportato che cambia ogni cosa.

Sono ben consapevole che questi sono gli ultimi minuti di un’ora e mezza deliziosa e sulle parole d’addio della canzone un accenno di tristezza s’insinua in me — fortunatamente, quei due pagliacci sgangherati dei frontmen degli Slam Dunk tornano sul palco di nuovo, trasformando questo intimo arrivederci in una festa, mentre un timido sorriso si fa largo sulla faccia di Dough Martsch.

 

Francesca Garattoni
Foto per gentile concessione di: Steffen Jørgensen

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[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1503314301745{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 11px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13683,13686,13691,13694,13692,13690,13689,13688,13685″][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1557864717992{padding-top: 0px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13684,13693,13687″][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

en

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Death Cab for Cutie @ VEGA, Copenhagen

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• Death Cab for Cutie •

Thank You For Today tour

 

VEGA (Copenhagen, DK) // 10 Febbraio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]È domenica, fuori piove da una settimana e sebbene il mio istinto mi spinga verso il divano, mi metto in macchina con due ore e mezza di strada davanti a me verso Copenhagen e verso i Death Cab for Cutie.

Il concerto si tiene nel blasonatissimo VEGA, locale della capitale danese di cui ho sempre sentito parlare ma che non avevo ancora avuto l’occasione di vedere con i miei occhi.

La sala grande è al primo piano di un edificio grigio, squadrato, con un’aria da periferia di città comunista pre-caduta del muro, atmosfera che in un certo qual modo si respira anche all’interno salendo le scale con i pavimenti chiari, la boiserie a listelli e il corrimano da palazzone anni ’50-’60: chiunque ha una zia o una nonna che vive in un condominio del genere e sa a cosa mi sto riferendo. Varcate le porte di quella che sembrava un’ambientazione al limite del modernariato insipido, la meraviglia di una sala tutta in legno, balconata intarsiata e lampadari vintage. Per dirla con le parole di Ben Gibbard, leader della band, “sembra di suonare dentro un pezzo di arredamento molto costoso”. 

Ad intrattenere il pubblico prima dei Death Cab, salgono sul palco The Beths, neozelandesi che fanno un rock tranquillo e carino, perfettamente adatto a distrarre il pubblico per una buona mezz’ora dalla noia dell’attesa.

Il palco si svuota dal guazzabuglio di strumenti che era per il set de The Beths per lasciare un ampio spazio circondato dalle postazioni per i cinque membri del gruppo: batteria, basso, microfono, chitarra, tastiere e un pianoforte. Un allestimento essenziale, come essenziali sono le luci che illuminano il concerto per tutta la sua durata: semplici, pulite, per non togliere attenzione alla musica.

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_single_image image=”11259″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Le 21:00 spaccate: I Dreamt We Spoke Again, tratta dall’ultimo Thank You For Today apre le danze.

Una delle prime cose che noto sono i segni del tempo addosso a tutti i membri del gruppo, eccetto Ben Gibbard: lui non solo non sembra affatto scalfito dagli anni di carriera e da una vita in tour, ma è pure migliorato! Sarà forse il fatto che non sta fermo un secondo, si muove, corre avanti e indietro sul palco, saltella, sembra che il suo corpo non riesca a contenere la musica che ha dentro.

Le canzoni scivolano una dopo l’altra senza il minimo attrito. Come un meccanismo ben oliato, la band sul palco infila brani dall’ultimo disco sapientemente integrati in una scaletta che copre la loro intera produzione discografica. Passiamo attraverso Kintsugi, Narrow Stairs, Transatlanticism, andando indietro nel tempo fino addirittura a quella perla che è Photobooth, tratta da The Forbidden Love EP del 2000, uno dei primi segnali che nel Pacific Northwest, sotto alle ceneri del grunge, ancora ardeva una fiammella di speranza musicale.

Se con i brani da Thank You For Today il pubblico è timido e rispettosamente silenzioso, con le hit storiche come What Sarah Said, o I Will Possess Your Heart la sala si riempie di cori improvvisati, talvolta stonati, espressione di una partecipazione genuina ed incontenibile come l’energia sprigionata sul palco.

Soul Meets Body chiude la parte principale del concerto e mi ritrovo a pensare, ascoltandola, quanto i Death Cab for Cutie attraverso la freschezza delle loro composizioni, cantino un aspetto di Seattle diverso, rispetto a quello che è giunto a noi attraverso il grunge.

Nelle canzoni dei Death Cab for Cutie, c’è la freschezza della vita all’aria aperta, i boschi, il sole brillante che si specchia nel blu del Pudget Sound, l’attitudine filo hipster di una città che vuole togliersi di dosso la nomea di essere grigia triste e piovosa, cantata per anni in ballate cupe, disagio generazionale e rock ribelle chiuso in piccoli locali scarsamente illuminati.

Ben Gibbard rientra in scena da solo, chitarra acustica in mano, ed è il momento per, a proposito di leggerezza e solarità, I Will Follow You Into The Dark, delicata, malinconica ballata.

Anche il resto della band ritorna sul palco e c’è ancora tempo per altri tre pezzi prima di congedarsi da un pubblico estremamente caloroso per essere scandinavo.

Transatlanticism chiude con il suo crescendo travolgente un impeccabile concerto durato due ore.

Fuori piove ancora, ma adesso, con la musica dei Death Cab nelle orecchie e nel cuore, non mi importa più: chiudo gli occhi e faccio finta di essere a Seattle.

 

Testo: Francesca Garattoni

Foto: Joseph Miller

 

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Anna Von Hausswolff @ Atlas

Aarhus, January 25, 2019

It is a cold night in Aarhus, freezing temperature and the promise of a snowfall. It is the first time I go and attend a concert at Atlas, a warm and intimate venue with red walls and a cozy low stage.

There are about a hundred people scattered around, some seating on the steps on both sides of the room, some enjoying a beer in the candle light in front of the stage.

The stage is pretty essential, with guitars, a drum set and mike stands waiting for the opening band — Of the wand & the Moon — to step on it and entertain the crowd with their pleasant-to-the-ears neofolk music.

After just a thirty minutes set, the stage is emptied and as the noise of stormy winds fills the speakers, people fill the space in front of the stage while we all wait for the main artist of the evening, the Swedish musician Anna von Hausswolff.

Anna von Hausswolff is a blond pixie with the fierceness of a Viking goddess: she can caress your ears with the softest of the melodies and the moment after she’s orchestrating a raging wall of sound with her keyboard and synths worth of the most brutal death metal bands.

Despite the setlist she plays is only seven songs long, including the encore, she drags her audience into this distorted temporal dimension where music, melodies, noises and sounds all clash together creating beauty.

After the powerful opening sequence with The truth, the glow, the fall, Pomperipossa and Ugly and Vegenful, Anna steps in front of her keyboard and with just voice and a harmonica, she gets hold of the whole crowd with Källans återuppståndelse.

The lights are blue, the moment so magic, her voice so magnetic and mesmerising: you could feel she had complete control of the audience, her charisma filling the whole room.

And then it arrived, the song that I was waiting for: The mysterious vanishing of Electra with its gloomy atmosphere, the oppressive, ossessive guitar riffs that suffocates the listener in a crescendo of agony until the moment when you cannot bear it any longer.

Silence.

And then the fury arrives and liberates all our interior demons like a storm. I am not ashamed to admit I had shivers down my spine.

The set concluded with Come wander with me/Deliverance and Gösta performed among the crowd. The curtain fell on the stage and it was time to step outside into the magic light of a snow covered city.

Photo courtesy of Steffen Jørgensen

ita

Anna Von Hausswolff @ Atlas

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• Anna Von Hausswolff •

 

Atlas (Aarhus) // 25 gennaio 2019

 

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È una notte fredda ad Aarhus, temperature sotto zero e aria da neve. È la prima volta che vado a vedere un concerto all’Atlas, un locale caldo e intimo con muri rossi e palco basso.

Ci sono un centinaio di persone sparse nel locale, chi seduto sulle gradinate ai lati della sala, chi si sta godendo una birra al lume delle candele sui barili-tavolini di fronte al palco.

L’allestimento del palco è essenziale, con chitarre, una batteria e aste per i microfoni che attendono che arrivi il gruppo di apertura — Of the wand & the Moon — per intrattenere il pubblico con il loro godibilissimo neofolk.

Dopo appena mezz’ora di set, il palco viene svuotato mentre il rumore di venti tempestosi si diffonde dalle casse; la gente vince la timidezza e va a riempire lo spazio di fronte al palco mentre tutti aspettiamo l’artista principale della serata, la musicista svedese Anna von Hausswolff.

Anna von Hausswolff è un folletto biondo con la fierezza di una divinità vichinga: può accarezzare le tue orecchie con la più delicata delle melodie e un secondo dopo orchestrare un feroce muro di suono con la sua tastiera e i suoi synth degno dei più brutali gruppi death metal.

Nonostante la scaletta sia di soli sette brani, encore incluso, trascina il suo pubblico in una dimensione temporale distorta, dove musica, melodie, rumori e suoni si fondono insieme per creare bellezza.

Dopo la potenza della sequenza iniziale con The truth, the glow, the fall, Pomperipossa e Ugly and Vegenful, Anna si sposta davanti alla sua torre di tastiere e con solo voce e armonica, tiene in pugno l’intero pubblico con Källans återuppståndelse.

L’atmosfera è blu, il momento magico, la sua voce così magnetica e ammaliante: si percepisce che ha il completo controllo degli astanti, il suo carisma riempie l’intera sala.

Ed ecco che in quel momento arriva, la canzone che stavo aspettando: The mysterious vanishing of Electra con le sue atmosfere cupe, i riff di chitarra opprimenti, ossessivi che soffocano l’ascoltatore in un crescendo di agonia fino al momento in cui non riesci più quasi a respirare.

Silenzio.

Ed è lì che arriva la furia che libera i nostri demoni interiori come una tempesta. Non mi vergogno di ammettere che avevo i brividi lungo la schiena.

Il concerto si conclude con Come wander with me/Deliverance e Gösta cantata tra il pubblico.

Il sipario cala sul palco ed è ora di uscire nella luce magica data dalla città coperta da una coltre bianca.

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Testo: Francesca Garattoni
Foto: Steffen Joergensen

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