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Tag: diario

Diario di una Band – Capitolo Cinque

“Vecchia sporca Dublino, per un figlio che ritorna sei una madre che attende al tramonto, con la puzza di alcol, coi baci e le canzoni per chi è stato un prigioniero lontano”

 

Modena City Ramblers

 

 

Ci sono luoghi che inevitabilmente ti rendono schiavo per tutta la vita. Dato di fatto.

Adesso però facciamo un ragionamento impopolare. Esuliamo dal canonico e regolamentato significato negativo che si attribuisce ordinariamente al termine “schiavo” e proviamo a incastonare in maniera positiva e forse paradossale questa parola in un contesto dalle vibrazioni dall’alto coefficiente costruttivo, anche se di per se, per come la conosciamo non può suggerire nulla di positivo.

Tutto avrei pensato in realtà, ma non sicuramente di trovare del buono in questo termine. Invece esistono catene, fili invisibili che non per forza limitano le movenze di vita e nemmeno lasciano cicatrici come una sgradita eredità nel binario del tempo che evolve.

Che sia un legame dovuto a una particolare esperienza, che sia un incontro che abbia segnato il destino di un amore, un bivio che abbia scandito una scelta importante, che sia la città dove la tua squadra del cuore abbia raggiunto un insperato quanto tanto atteso risultato sportivo. Nulla sarà più come prima, e certi luoghi ogni volta che torni a metterci piede non avranno mai un sapore scontato.

La musica come ogni forma d’arte ha diritto e necessità di avere una propria dimora, un focolare dove svilupparsi, un fuoco che vada a riscaldare e a rinnovare di luce una tradizione fatta di parole e sensazioni.

Penso su due piedi alla magia nordica dell’Islanda quando ascolto i Sigur Ros, intravedo Boston quando mi lascio ispirare dai Dropkick Murphys, mi immedesimo nell’appenino tosco-emiliano quando ascolto certi versi di Guccini, scopro mezzo mondo, in un turbinio temporale unico nel suo genere, quando analizzo De Andrè.

Amo pensare appunto, tramite la mia esperienza e concezione di vivere e sviluppare l’ascolto, che la musica e le parole figlie dalla farina del mio sacco abbiano la stessa presa sull’ascoltatore, un rapporto tra scoperta e ricerca.

Essere identificato, messo in correlazione a un luogo o più luoghi risulta una conquista dall’inestimabile valore interiore che poi esplode nell’entusiasmo costruttivo del quotidiano, perché nella verità dei fatti l’intento di questi brani prevede e richiama a certe isole felici.

La condivisione capillare e l’adrenalina che ne concerne a questo punto supera la maggior parte delle fonti di successo ordinario. La gratificazione concettuale, per chi la riconosce, sa che detiene e comanda le sorti dei dettagli.

Ampliare lo specchio dei significati emozionali, vedendo ogni sfaccettatura spirituale della musica come un tassello di un puzzle in 3D.

La mia storia racconta l’aver ritrovato fiducia nella musica dopo un viaggio fondamentale, e mi chiedo cosa sarebbe stata la mia vita adesso, se quel giorno di marzo del 2009 non avessi preso quell’aereo per Dublino.

Quando l‘attitudine batteva il cinque al superfluo, quando l’impellenza di fare musica per fare successo aveva lasciato spazio ad una partita che non ha mai retto il confronto con ciò che in realtà, nel mio profondo desideravo fare.

La penna prendeva polvere, i cassetti in camera si riempivano ogni giorno di più come uno scantinato troppo piccolo per contenere un grande mondo lasciato a se stesso. La scrivania che diviene giorno dopo giorno una prolunga dell’armadio, sempre più un semplice punto di accumulo di vestiti e vecchi propositi.

Il tempo passa, la musica si allontana, l’anima diventa sottile, lo spirito diventa una camicia bianca uguale ad altre mille, dentro a una discoteca qualunque, piena di gente qualunque che cerca di passare un sabato sera qualunque, per tornare poi ad una vita inevitabilmente qualsiasi.

Credere nella musica tramite certi luoghi è un modo di darsi un senso, come disegnare la propria figura e scegliere uno sfondo che sia più vicino possibile alla meta che si vuole raggiungere.

Vale per chi fa musica, per chi dipinge, per chi scrive.

Il contesto in cui si sviluppa un pensiero artistico è inevitabilmente legato a un luogo, a un mondo, che non per forza debba esistere realmente. La magia dell’immaginazione risiede anche in questo, non avere vincoli di spazio e tempo per sentirsi a casa ed essere libero, a proprio agio, leggeri.

Ecco qui si sposa l’ossimoro perfetto, essere schiavo dell’immaginazione più efferata e determinare la libertà creativa totalizzante. “sono schiavo dell’infinito e della fantasia, posso fare tutto ciò che voglio, perché nella mia visione di arte le regole le detto io”.

Sarebbe bello in tempi infausti come questi, avere una generazione curiosa che sappia riscoprire un linguaggio unitario basato sul concetto di calore domestico e farlo conoscere al mondo.

Detto ciò bacchetto anche i più grandi perché non è mai troppo tardi per reinventarsi, darsi un nuovo punto di vista. Non è mai troppo tardi per imparare un’arte, tutto è delineato dalla soglia di una curiosità che forse non si sa nemmeno di possedere, la fatica a questo punto è farla emergere.

E su questo credo anche i più navigati debbano ragionarci, avendo la consapevolezza che un viaggio o un luogo non contemplato possa aprire e nel miglior caso delle ipotesi, spalancare porte preziose.

In fondo il senso di appartenenza si può ridurre a una singola stanza, paese, castello, uno spazio delineato e particolare, dalla storia propria e dalla vita propria, oppure ancor più con stampo anarchico si può essere semplici cittadini del mondo. Di un mondo sbagliato magari, ma di una sfera che ancora ruota nel senso corretto anche grazie a energie e intenti di pionieri presi poco sul serio.

 

Non sentitevi mai da soli quando avete un luogo sempre presente nel vostro modo di pensare, in fondo ovunque sarete, prima di dormire, vi farà sempre sognare.

 

 

 

Diario di una Band – Capitolo Quattro

“Con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria

E a un Dio senza fiato non credere mai”

 

F.De Andrè

 

 

Contaminazioni. La vera storia, il vero percorso musicale di una persona nasce in tempi remoti, laddove la memoria del soggetto in questione probabilmente non riesce ad arrivare, se non scavando veramente a fondo, rosicchiando forse quei primi passi che i timpani assorbivano, zampettando dolcemente nella più totale e caotica beatitudine che un pargolo può avere.

Una spugna che assimila le influenze dai genitori, dai fratelli maggiori o dagli zii. Molte volte è un concorso di colpe che crea veri e propri “mostri” di personalità, a volte arroganti, a volte riflessivi, a volte melanconici, a volte trascinatori inesauribili o testardi senza freno inibitorio.

Quando l’ascolto e la passione per l’ascolto diventano uno stile di vita, quando si scalfisce in maniera preponderante il peso specifico caratteriale andando cosi a contemplare la potenza della magia del pentagramma.

La colonna sonora di una vita è costellata di periodi più o meno lunghi e più o meno stratificati, più o meno incisivi forse, ma ognuno lascia un segno, un particolare che rende unico e originale ogni persona che vede la musica come un’autostrada da percorrere giornalmente.

A volte su una fuoriserie sportiva, a volte andando al galoppo di un drago, a volte semplicemente passeggiando sotto la neve. La cosa bella è che ognuno ha la libertà di scegliere la strada musicale da percorrere e corredare a proprio piacimento i dettagli, decidere se sacrificarli, se farli esplodere, se crederci o meno, per l’appunto, ai dettagli, vero ago della bilancia in questione.

Tutto ovviamente in base alle esigenze mentali e fisiologiche del caso. Il contorno che avvolge le proprie intenzioni durante il viaggio è un gioco di specchi che riflette ogni sfaccettatura caratteriale di un individuo andando a consacrare cosi una statua granitica di melodie.

Mia madre mi dice sempre che sono un “giovane vecchio”, come biasimarla. Sono riuscito nell’intento, senza nemmeno volerlo, di imparare ad amare tante tipologie di musica, figlio della curiosità, ho solo una sola certezza in questa vita, ovvero i miei antagonisti acerrimi: la noia e la soffocante routine.

Ho fatto un gioco, un piccolo esperimento che al fine risulta anche simpatico. Ho provato a scavare nel baule del tempo i primi tre dischi che ho ascoltato all’esasperazione, scarnificato, spolpato. Dopo averli focalizzati, ho provato a capire se hanno inciso sui gusti, su l’attitudine, su la personalità, tratti identificativi che oggi compongono il MIO essere, musicale e non.

Col massimo stupore il rapporto si sostiene bene. Gioco che invito ogni lettore a provare, sicuro che il collage dei ricordi sarà più amplio del solito, sicuro del fatto che si apriranno automaticamente tante piccole finestre sul passato.

Ci rimasi di stucco quando, una volta composto questa particolare graduatoria ho realmente appioppato un peso equilibrato ai tre dischi in questione plasmati alla mia vita.

Dookie dei Green Day fu un regalo di mio fratello Mattia nel lontano luglio del 1995. Ho compiuto dieci anni e come prima cosa, arrivato in doppia cifra ho scoperto il punk rock.

Mi innamorai istantaneamente della disinvoltura come respiro primario, mi innamorai della chitarra distorta, folgorato da quell’ approccio sfrontato al quotidiano che rimbombava come uno “WOW” interminabile e di quella vena ribelle che ovviamente ai tempi non potevo conoscere e concepire, ma quel lenzuolo di stoffa ruvida me lo sentivo veramente comodo sulle mie piccole spalle.

Resta l’album che ha spalancato le porte della rozza vena che amo ancora mettere davanti a ogni mio proposito musicale. Un disco che scivola via dalla prima all’ultima canzone.

Oggi come ieri un rifugio di immagini e ricordi, di campeggi con le chitarre acustiche scordate e l’avvento dei primi sogni di gloria, quando per sfida o presunzione cercavo di assomigliare a Billy Joe, recependo gli input della sua immagine come una vera e propria figura mistica.

Credo di essere una persona del tutto propensa al divertimento, tentando di sorridere al massimo delle possibilità, cercando sempre di prendermi poco sul serio quando può giovare chi mi circonda e godendo in compagnia, facendo dell’auto ironia un’arma di condivisione di massa. Questa attitudine jokeristica la devo senza a dubbio all’album di Elio e le Storie TeseEat The Phykis 1996.

Togliendo il fatto che la suddetta band è una vera officina di tecnica e precisione, accademia pura per ogni tenace ascoltatore, volevo focalizzarmi su un’altra sfaccettatura. Ciò che prendo in esame e che ora posso vedere in maniera più cristallina è la delicata causa dell’ironia, della metafora e della denuncia mai diretta, ma velata e nascosta dietro all’aneddoto e alla similitudine.

“La terra dei cachi” nel suddetto anno fece la fortuna e scalfì la sfumatura un po’ eversiva del Festival di San Remo, fin li rimasta abbastanza sterile di personalità dai tempi di mostri sacri come Rino Gaetano e Luigi Tenco.

Lo dimostra il fatto che, nella finale, agli artisti veniva concesso un singolo minuto di tempo per poter convincere il pubblico a spingerli verso la vittoria. La logica e l’ordinario, il canonico e conseguenziale pensiero strategico metteva questo minuto a disposizione dello spezzone più incisivo del brano, in linea di massima il ritornello governava questi 60 secondi di “dentro o fuori”.

La follia o la prospettiva, non so come chiamarla, ma Elio e Co. presero la loro canzone, raddoppiarono la metrica, suonarono “la terra dei cachi” in maniera impeccabile e velocizzata, restarono dentro il minuto disponibile. Per me, undicenne fu epico. Sconvolto!!!

Un messaggio chiaro, affascinante, ero divertito, stregato. Mi feci comprare il cd dai miei vecchi che ai tempi ordinavano spesso dischi e quant’altro su di un catalogo musicale che si chiamava “OK MUSIC”. Volevo saperne di più, volevo capire cosa potesse esserci dietro a quegli “scappati di casa”.

Quello che venne in futuro in compagnia dei dischi di Elio e le Storie Tese è semplicemente storia.

La bellezza del rischio, di osare, di vedere un finale diverso e perché no, un finale ontologico, mantenendo il sorriso e il coraggio. Senza dubbio virtù trasmesse alla leggera dagli zii di Milano.

Ultimo ma non ultimo, sempre nello stesso periodo, forse l’anno dopo, scoprì la bellezza e l’ammirazione che provo con rinnovato affetto anch’oggi per la rima. Divenuta in seguito una compagna fedele, amica sempre pronta alla “battaglia” che pareggia ogni mio stato d’animo quando ne percepisce l’affanno.

Iniziai a scrivere molto presto, e ricordo che la prima canzone che buttai giù, per esigenza, rigorosamente in rima e senza sapere minimamente tenere in mano una chitarra fu un inno all’Uomo Ragno, potevo avere 9 anni, non di più. Mia nonna Clara e mio nonno Mario tenevano un’edicola a San Carlo, il mio paese di nascita.

Avevo a disposizione una vasta gamma di fumetti, ma Peter Parker aveva qualcosa che andava oltre gli altri paladini dell’universo Marvel. Il mio super eroe al fianco di Dario Hubner e Marco Van Basten. Quindi tra un fumetto e un giornaletto porno che di soqquatto finiva nel mio Seven assieme ai libri di scuola, (mossa faceva le gioie dei miei compagni di classe ovviamente), scoprì l’amore per la scrittura e di conseguenza per le donne.

In quel periodo storico esplose la melodrammatica guerra giovanile nella mia zona tra chi ascoltava il Rap e chi ascoltava il Punk California modalità skate. A me il rap ha sempre destabilizzato, se non qualche sberla del primo Neffa e dei Sangue Misto, o di precursori come I Cavalieri della notte, altri tempi.

Però esplodeva a livello commerciale e radiofonico in quel periodo il successo nazionale degli Articolo 31 e Così com’è mi ha insegnato quella linea di scrittura martellante, incalzante, accattivante, rigenerante.

Ai tempi non scriveva cazzate J AX e per un adolescente brani col ritornello che fa “Con le buone si ottiene tutto” era un monito chiaro. E’ ovvio che bisogna avere la scaltrezza e la fortuna di assorbire e apprendere certi segnali dall’universo, ma quella frase, di una canzone che poi è passata in tempo celere nel dimenticatoio, mi ha sempre battuto sulla spalla, come un soffio di educazione mai svanito.

Ho scritto una canzone rap nella mia vita e mi ha pure soddisfatto ma prendo da quei tempi passati la voglia e la necessità di non banalizzare una canzone con testi scontati, frivoli o poco significativi, per lo meno per me.

Cosi come un tatuaggio, una canzone credo vada fatta per necessità interiore, per un tangibile sostentamento emotivo. Scrivere per trasmettere credo debba valere come cicatrice che nel bene o nel male farà sempre parte di te, parlerà sempre di te.

Fatevi un giro nel passato, tirate fuori le vecchie foto dagli album di famiglia, mettetevi intorno a un tavolo con amici e parenti e aprite il baule magico del passato, della spensieratezza, del collaudo verso la vita.

Son sicuro scoprirete più sensazioni e propositi che sono stati sepolti per anni, e che nella frenesia di oggi porteranno una boccata d’aria senza dubbio rigenerante.

 

Vasco Bartowsky Abbondanza

Diario di una band – Capitolo Uno

“Caselli d’autostrada tutto il tempo si consuma ma Venere riappare sempre fresca dalla schiuma 
la foto della scuola non mi assomiglia più  ma I miei difetti sono tutti intatti.
E ogni cicatrice è un autografo di Dio nessuno potrà vivere la mia vita al posto mio.
Per quanto mi identifichi nel battito di un altro sarà sempre attraverso questo cuore.
E giorno dopo giorno passeranno le stagioni ma resterà qualcosa in questa strada. 
Non mi è concesso più di delegarti I miei casini. Mi butto dentro vada come vada.”

Jovanotti

 

Capitolo Uno

 

Abbiamo sempre bisogno di attaccarci a qualcosa, per esigenza, per noia, per paura, per sfida, per non sentirsi dalla parte di un’utilitaria da rottamare. Massimo rispetto sia chiaro, a chi macina chilometri in maniera incessante, riconoscendo i propri limiti che spesso sono dettati dalle possibilità e non dalle intenzioni.

Fare parte di una band è un po’ cosi, un crocevia tra l’officina di un meccanico e la potenza di un decollo di un 747, avendo ovviamente il controllo della cloche.  La parola “band” parla di tutto e parla di niente, può prendere le sfumature più improbabili come può cadere nella banalità più sgretolante. Chiunque può utilizzare il termine band, non tutti però hanno il privilegio e la credibilità di poterla rapportare alla concretezza della vita vissuta.

Un po’ come se la musica ad un certo punto passi in secondo piano, un po’ come se la musica stessa sia a decidere come comporre la tua vita e quella dei tuoi compagni di viaggio. Una rovesciata come stile di vita, un capovolgimento di fronte, talmente incisivo che ti permette di sederti, di metterti comodo e farti scegliere dalla musica stessa senza temere paure verso il futuro.

Alchimia che si sviluppa in base a quello che hai voluto diventare fino al punto di incontro indissolubile con la musica, come un rito pagano, come un matrimonio, una promessa: “Musica ho scelto te in ogni momento, cercando di metterti al centro di ogni mio stato d’animo… ora tocca a te prenderti cura di me perché ho bisogno di risposte dalla vita e tu sei stata sempre presente nel bene e nel male, mi fido”.

Chi può conoscerti come ti conosce la musica?  Forse la mamma, forse un fratello o una sorella, forse la tua band.

Diventare parte di un meccanismo, abbattere il ponte del tempo, abbandonare lo smarrimento esistenziale e non aver paura di rischiare quel qualcosa in più che ti ha tenuto per troppo tempo per le palle. Mettersi in ballo con le scarpe più comode e decidere di ballare fino a quando le gambe avranno la forza di sorreggerti. Insomma, siamo tutti bravi a raccontarci le favole, a perdonarci la pigrizia e a mollare alle prime difficoltà.

Vero e per nulla sbagliato, però la vita all’interno di una band è un concorso di colpe e di coscienze, di pacche sulle spalle e calci in culo costruttivi, di risate e discussioni, atte sempre al fine massimo ch’è costruire una storia che meriti la pena di essere vissuta. Ne deve valere la pena, ne deve valere soprattutto l’allegria.

Vivere all’interno di una famiglia ti mette di fronte a scelte, a caratteri distinti e a sacrifici.

Quando capisci che una band funziona? Lo capisci quando ti puoi scornare prima e dopo un concerto per dei punti di vista distanti, ma riesci con senso del dovere a mantenere senza sforzo l’integrità umana basilare, il dire “grazie” o  “per piacere”, rispetto sacrale verso gli addetti ai lavori, vero tappeto fatto di storie e persone che permette lo scorrimento giusto di uno show. Questo è quello che fa dei componenti di una band degli uomini e non delle comparse senza luce.

Concetto scontato? Purtroppo no, negativo.

Se nella musica di inizio anni 2000 si poteva ancora parlare di politica, di voglie impresse e di straordinari concetti corali appoggiati su di una base etica solida, ora non abbiamo la stessa stabilità di appoggio. Lo stiamo dando per scontato, la stiamo dando come una banale circostanza quella dell’educazione, la sua assenza è il vero cancro sociale, supportato in malo modo da una popolazione che si è abituata a guardare solo i colori del proprio giardino e disposto a tutelare spesso nemmeno i colori del proprio recinto ma accontentandosi in maniera remissiva di fiori in scala di grigio.

Suonare in una band e viverla ai miei giorni è un atto di responsabilità verso me stesso in primis, è un atto di responsabilità verso chi spende il proprio tempo ad ascoltare la mia musica e venire ai miei concerti, e terzo, è un atto di responsabilità verso chi ha formato la tenacia e la paura della mia penna e della visione del mio mondo.

Suonare in una e per una band è un atto d’onore, di rivoluzione, un atto d’amore verso la vita. Per questo ora soffro nel vedere la scena musicale italiana trasformarsi in “o-scena” musicale italiana. Senza presunzioni, né autocompiacimenti sia chiaro, non risiede nel nostro DNA questa triste attitudine, non siamo nati per le auto-celebrazioni, né per dissetarci con le nostre stesse lacrime.

Quello che vorrei fosse rispolverato è che l’ascoltatore accenda la lampadina della curiosità, della ricerca. Tralasciando la tecnica o il virtuosismo, ma ricercando artisti che mettono cuore e sentimento, che abbiano speranza nella gente e un senso di comunità genuino che possano fare di tre accordi banali una nave da crociera che porta in lidi sconfinati. Utopia o banale speranza, chiamatela come volete ma poco importa, suonare in una band deve essere equilibrio, come lo deve essere il rapporto con il  proprio partner.

Voglio che si torni a trovare equilibrio non come premio straordinario da privilegiati, nemmeno imporlo come un fottuto bilanciamento necessario, voglio che l’equilibrio sia una scelta perché non è per tutti ed è maledettamente giusto sia cosi. Voglio che l’equilibrio sia una scelta di essere. Voglio essere uno zaino protonico che cattura i fantasmi della gente, li trasporta dentro a un amplificatore che di conseguenza li scaraventa fuori, finalmente innocui.

Suonare in un band per come la vivo io è credere nelle persone, credere che si possano annullare le distanze, credere nel rispetto verso la penna, la vera arma che deve sancire un ritorno alla serenità e all’indipendenza intellettuale.

Confido in me, nella musica e soprattutto nella mia band, la famiglia che mi sono scelto perché mi da l’equilibrio necessario che mi tiene vivo.

 

Vasco Bartowski Abbondanza