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Tag: explosions in the sky

Contare la Musica: 6

Inedia. 

Etimologicamente il termine è composto dalla desinenza in -, privativa, ed – edia, mangiare, (edibile, per fare un esempio, ha la medesima radice). Nei dizionari il primo significato riportato è relativo alla mancanza di alimentazione, ovviamente, ma come spesso accade molte parole hanno più sfumature e nel nostro caso inedia assume anche un’accezione più figurata, spirituale, uno stato d’animo simile, anzi superiore alla noia, al tedio. Mi piace pensare che l’inedia, in quest’ultimo senso, si manifesti quando cessiamo di alimentare la nostra persona, interiormente, al di fuori ovviamente della banale routine scandita dalla colazione, dal pranzo, dalla cena e spuntini vari.

Avevo iniziato a buttar giù queste righe lo scorso venerdì 17 aprile, impulsivamente quasi, in un impeto di reazione allo stato mentale in cui mi trovavo, ovvero schiacciato in maniera allarmante dalla serialità che avevano assunto le mie giornate. Un andazzo che iniziava a gravare in maniera difficilmente sostenibile, sfociato in quello che per quanto mi riguarda è il segnale di allarme massimo: non sapere che musica ascoltare.

Oltre quaranta giorni di smartworking ormai sul groppone costituivano un fardello di tutto rispetto, inutile nascondersi, e sebbene tutto si può dire delle mie giornate tranne che si somiglino, sono parimenti inscritte in una sorta di macro routine che, alla lunga, può lasciare scorie (ad ogni modo, quanto bello è il termine parimenti?). Intendiamoci, il problema non era (è) lo smartworking, forse più grande invenzione dell’uomo dopo il pile, quanto piuttosto il dover rimanere chiusi in casa. Che non venga frainteso.

Quindi mi trovavo a scorrere Spotify, ignorando volutamente le playlist indie, gym, relax, e altri vili tentativi di spersonalizzarmi, preso dallo sconforto perché nulla pareva soddisfare le mie esigenze contingenti, quando è spuntata, in maniera del tutto inaspettata, la sagoma in controluce, china sul pianoforte, di un ragazzotto inglese a cui voglio un bene dell’anima, Keaton Henson. La copertina era quella di Impromptu On A Theme From Six Lethargies (Mahogany Sessions).

Ora non vi tedierò (non stavolta) sul mio amore di lunga data per questo straordinario, unico artista, però dopo aver fatto play per sentire questa inedita improvvisazione (impromptu appunto) tratta dal suo ultimo disco dello scorso anno Six Lethargies ed essere travolto letteralmente da cotanta magnificenza, ho ricevuto quella che in ambito religioso si potrebbe definire rivelazione, manifestatasi sotto forma di numero (no, non il 42): il numero 6.

Il 6, che è numero malvagio, pratico, oblungo, idoneo e scarsamente totiente, è anche il numero di lettere che compone la parola inedia e il numero di lettere che compone sia Keaton che Henson, che ha composto finora sei dischi, l’ultimo dei quali, Six Lethargies, contiene per l’appunto sei brani (ma dai???). 

Ora, che ci crediate o no, e sempre vi siate ripresi da questa serie di pazzesche, non volute, coincidenze, per molti anni, oltre venti, ho giocato a calcio. Non me la cavavo male, ma il punto è un altro: da un punto della mia carriera in avanti ho chiesto (e quasi sempre ottenuto) ai miei allenatori di farmi giocare con il numero 6, sebbene facessi l’attaccante o all’occorrenza il centrocampista. Perché? È presto detto: era il numero di maglia di Youri Raffi Djorkaeff, che militava nell’amalapazzainteramala. Il suddetto Djorkaeff, nell’anno del Signore 1997, in data 5/1 (che sommati, fatalità…), giorno nel quale la mia dolcissima madre festeggiava *****nta anni, realizzava un indimenticabile gol in rovesciata, che mi segnò a tal punto dallo spingermi, in pieno spirito d’emulazione e nel pieno dei miei quindici anni (le cui cifre sommate…), a voler giocare sempre col quel numero sulla schiena.

Concluso il momento amarcord non ho potuto non pensare che nell’ambito che più mi interessa, quello musicale, il sei ricorre in maniera quasi stucchevole, con rispetto parlando. Perché? 

È presto detto, e badate bene, questa è solo una selezione, tarata sui miei gusti, altrimenti potremmo fare le ore piccole. 

Bene, sei sono le tracce contenute in Spiderland degli Slint, il miglior disco di tutti i tempi. Sì, quello della copertina in bianco e nero dei ragazzetti in ammollo. Miglior disco di tutti i tempi. Segnatelo. E non poteva essere altrimenti. Ma sei sono le gemme incastonate in quel diadema che risponde al nome di Whatever You Love, You Are, dei Dirty Three, se avete voglia di un po’ di musica strumentale fatta da chitarra, batteria e dal violino ribelle di Warren Ellis. Se invece quello che cercate è una buona dose di malinconia, se volete dilaniarvi il cuore con uno dei dischi più struggenti mai concepiti, fiondatevi con tutte le dovute cautele su Down Colorful Hill dei Red House Painters, che si snoda su sei malinconiche pennellate.

Sulla distanza delle sei tracce è anche un altro dei miei dischi da isola deserta, quel Rusty, unico disco dei meravigliosi Rodan, se al post rock degli Slint volete aggiungere un pizzico di math. La progressione Rodan – Slint non può non continuare che con i June of 44, il cui Tropics and Meridians consta di esattamente sei tracce, tra le quali quella Anisette che rimane una delle migliori canzoni post/math rock mai scritte. Vediamo, chi manca all’appello? Ah già i For Carnation. Qual è il loro disco migliore? Beh, direi Marshmallow, così su due piedi, anche se l’omonimo The For Carnation, con quel miracolo di Emp Man’s Blues in apertura (all’inizio sentirete poco, poi il volume sale, abbiate pazienza), non è da meno. Vabbè, possiamo prenderli entrambi, hanno sei canzoni ciascuna. Che poi se parliamo di post rock, non possiamo prescindere dai ragazzotti di Chicago, i Tortoise, cervellotici quanto basta, non sempre centratissimi, ma quel loro Millions Now Living Will Never Die è un signor disco (grazie @fourgreatpoints per la segnalazione). Oltre che a contenere ovviamente sei brani. E ad avere un titolo di sei parole poi.

Seguendo un ordine diacronico, abbandonati quindi gli anni ’90 ed entrati in pompa magna negli anni ’00, quelli che più di tutti, nell’ultima “infornata” hanno saputo raccogliere l’eredità di mostri sacri quali Mogwai o Godspeed You! Black Emperor, rimanendo appunto in ambito post, ritengo siano gli Explosions In The Sky. Per cui credo sia giusto onorarli con la chiusa di questo divertissement, che per dirla alla V, vira verso il verboso: So Long, Lonesome, sesto (e ultimo ovviamente) brano di All of a Sudden I Miss Everyone.

Perché mai come nel mio caso risulta vero: sei quello che ascolti.

 

 

Alberto Adustini

Le colonne sonore: Friday Night Lights OST

1989, Odessa, Texas.

In una calda giornata primaverile i Permian Panthers della Permian High School di Odessa vincono la finale del campionato statale di Football americano delle scuole superiori.

Lo stesso anno i Permian Panthers verranno premiati anche con il titolo Campioni Nazionali detenuto però in condivisione con i St. Ignatius Wildcats della Saint Ignatius High School di Cleveland.

È così che si conclude il malinconico e impeccabile racconto nel libro Friday Night Lights: A Town, a Team, and a Dream di Harry Gerard Bissinger, a proposito della squadra e delle sue conquiste.

Un libro intenso che percorre i 5 anni di lavoro del Coach Gary Gaines che dal 1986 al 1989 ha accompagnato la squadra in una parabola vittoriosa ascendente quanto improbabile, data l’eterogeneità dei componenti del team e tenendo anche conto delle problematiche economiche e sociali degli adolescenti di quegli anni.

Un libro controverso, iniziato con l’intento di raccontare la peculiare storia di una squadra liceale che finisce però con il ritrarre un quadro ben poco roseo e sereno degli Stati Uniti alla fine del XX secolo.

Da questo libro sarà tratto il film Friday Night Lights del 2004 di Peter Berg con un energico e profondo Billy Bob Thornton nel ruolo del coach Gaines e ne seguirà poi una serie TV (vincitrice di svariati premi tra i quali 5 Emmy Award) ideata dallo stesso Berg assieme ai produttori Brian Grazer e David Nevis.

Nel ruolo ispirato al Coach Gary Gaines troviamo Kyle Chandler, nella serie Eric Taylor e nel ruolo della moglie Tami, la stessa Connie Britton che già era presente nel film del 2004.

Partendo dalla direttiva del libro, la serie si sviluppa autonomamente tratteggiando caratteri e personalità di protagonisti unici che svolgono il ruolo di narratori.

Nella semplicità di una ripresa a spalla, con solo tre telecamere e nessuna prova prima delle riprese, gli attori si muovono liberi sulla scena seguiti passo per passo dagli operatori.

Nell’immaginaria città di Dillon, sempre in Texas, i personaggi raccontando la realtà attraverso il proprio filtro visivo e sociale: la cheerleader, il capitano della squadra, il coach, il padre, la figlia adolescente, l’artista, la ragazza facile, l’anziano con una malattia mentale.

A fare da sfondo è sempre il football, collante principale di una serie TV della quale sentiamo e sentiremo sempre la mancanza e che dal 2006 al 2011 ha fatto scuola in termini di rispetto, giustizia e fratellanza.

Nonostante siano presenti canzoni di artisti del calibro di Adele, The Killers e Pearl Jam, con una storia così e dei personaggi così non poteva mancare una colonna sonora creata ad hoc che accompagna le fragilità, le vittorie scolastiche, personali e sportive con solennità, sottolineandole con un amaro sorriso di una chitarra quasi sussurrata.

La band texana di Austin Explosions in the Sky (quelli di The Lone Survivor OST, ndr) si è occupata di creare interamente la musica di sottofondo di tutte e cinque le stagioni, accogliendo i cambiamenti nel plot e interpretando l’interiorità dei personaggi quasi come farebbe uno psicologo navigato.

Il tema principale della serie però, che prende il titolo dalla fiction stessa, è stato affidato alle mani esperte di W. G. Snuffy Walden (compositore di Houston che ha composto le musiche per The West Wing e Felicity, tra gli altri) che ha composto gli arrangiamenti rispettando le sonorità degli Explosions in the Sky che già avevano partecipato alla colonna sonora del fil di Ross.

Compositori unicamente Made in Texas che hanno descritto in musica ciò che l’occhio vede e il cuore percepisce.

Un telefilm che è impossibile immaginare senza le melodie che a tratti azzarderei a chiamare epiche, di Walden e della band texana e di cui ve ne diamo un estratto nella nostra nuova Playlist.

 

Sara Alice Ceccarelli