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Tag: fabio rondanini

I Hate My Village: l’esigenza di bellezza balla a ritmo tribale

Una formazione d’eccellenza che non ha bisogno di presentazioni.

Un unico manifesto artistico: creare qualcosa di bello. Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) si sono incontrati puntando dritto a questo obiettivo.

È nato così un super-gruppo, gli I Hate My Village. Li abbiamo incontrati nel backstage del Supersonic Music Club, in occasione della data del 20 aprile a Foligno. Loro, schierati su un divano. Di fronte io, su uno scalino, con il palco alle spalle e tanta emozione. Un viaggio di andata e ritorno per l’Africa, tra curiosità, melodie sciamaniche, nuovi linguaggi e riflessioni sul villaggio musicale attuale.

 

Nel momento in cui si parla di una super-band scatta sempre il meccanismo mentale per cui non si sa se aspettarsi un progetto del tutto nuovo o un’opera di citazionismo legittimo dei rispettivi gruppi di provenienza. Su questa premessa, come nascono gli I Hate My Village?

Fabio: In realtà non sapevamo che cosa sarebbe venuto fuori. Il primo incontro è stato fra me e Adriano, in sala prove. Inizialmente l’intento era quello di vederci per suonare…niente di più. Avevamo già qualche idea da sviluppare quindi abbiamo dato al tutto una certa frequenza. Da lì, è venuto fuori il materiale per un disco che abbiamo poi portato da Marco, in studio. Un disco totalmente strumentale.

 

Quando avete detto: “Vogliamo Alberto Ferrari alla voce?”

F: Anche per quanto riguarda la linea vocale, la scelta è stata spontanea. Abbiamo chiesto ad Alberto se voleva unirsi per cantare quello che voleva, come voleva lui. Ed ha accettato.

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Perno centrale è il rimando a sonorità africane. Un tentativo di comunicazione, in musica, attraverso una lingua straniera. Che messaggio vuole veicolare?

F: Già nel nome del gruppo c’è un errore di pronuncia. Nome ispirato al titolo di un cannibal movie che gioca sui verbi odiare “hate” e aver mangiato “ate”. È vero, a noi piace la musica africana e lo spunto è stato quello…però non siamo africani… il risultato rimanda a questo enorme errore di pronuncia. Volevamo semplicemente fare qualcosa che ci piacesse e che consideravamo bello, nel senso più autentico del termine. Il messaggio, anche di stampo sociale e politico, ci si può comunque leggere: siamo noi, in questo caso, ad andare verso l’Africa? Anche noi viviamo in un piccolo grande villaggio, alla fine? Lo odiamo? Oppure…pensa anche al fatto che un errore di pronuncia tra “hate” ed “ate” l’avrebbe potuto commettere qualsiasi italiano…

 

Quindi anche gli altri equivoci lessicali in titoli come Tramp o Fame che in inglese sta per “fama, successo” sono più dei collegamenti o dei contrasti?

F: È un significato contenuto già nel titolo stesso del progetto appunto: facciamo musica africana ma poi non ci riusciamo. Anche noi abbiamo iniziato studiandola o facendoci guidare da ascolti precedenti. Ciò che emerge è l’originalità del disco.

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E quali sono le influenze, gli ascolti o le collaborazioni che hanno inciso maggiormente nella fase creativa?

Adriano: La musica africana ci ha influenzato anche in seguito a collaborazioni con artisti come Bombino e Rokia Traoré. Inoltre, nell’ambito della musica rock e blues, durante il corso degli anni Novanta si è susseguita tutta una serie di artisti africani che suonavano con le chitarre elettriche. Qualcosa che risultava molto difficile ascoltare negli anni Ottanta, famosi per le corde di nylon. È nato così un filone legato al rock ma di matrice africana: il Blues Tuareg o il Mali rock, ai quali ci siamo associati per gusto personale, mescolando le varie psichedelie del Fela Kuti dagli anni dai Settanta in poi.  Abbiamo approfondito questo linguaggio, spinti dall’interesse e dalla necessità di esprimerci con una musica basata su codici diversi, su una genesi differente per quanto riguarda la canzone e la stessa idea di band. La nostra non è una superband anni Novanta, è un po’ diversa, più contemporanea. Da non tralasciare il fatto che ci siamo ispirati a noi stessi. Se penso ai gruppi che amo di più della scena italiana sono i Calibro 35, i Jennifer Gentle, i Verdena o gli Zoo. Ci siamo trovati tra persone che si stimano a vicenda.

F: È un grande laboratorio. Poi, ovviamente, venendo tutti da altre situazioni più grandi, è normale che questo sia considerato come il b-project. Ma non è così.

A: Esatto, non c’è una classifica. La musica si fa perché viene. E volevamo fare una cosa bella…è questa la benzina, il motore che ha dato il via a tutto. E continua a farlo. L’esigenza di bellezza.

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Ricollegandomi al cannibal movie ghanese e alla copertina dell’album realizzata dall’artista romano Scarful, nel vostro progetto si rintraccia un “cannibalismo artistico”, un nutrirsi di idee. Quanto la musica italiana attuale si ciba ancora di curiosità, di sperimentazione?

F: Di sperimentazione ce n’è ancora tanta, ma non si vede così facilmente. Forse non trova il giusto spazio. Chi fa musica per lavoro spesso sceglie la strada più semplice da seguire. Soprattutto se vuoi fare musica perché preferisci non fare un cazzo nella vita…e magari ti riesce pure bene eh… allora quella è la via. Se invece hai qualcosa da dire, diventa tutto più difficile…ci vuole coraggio. Ovvio, c’è ancora chi sperimenta, magari nei teatrini da trenta persone. Però c’è. L’appiattimento esiste nella legge dei grandi numeri. Nei piccoli numeri, però, certe cose sopravviveranno sempre. Una cosa da non dimenticare è che per noi è più facile fare quello che ci pare. In questo ci ha protetto la natura di super band. A noi piace quello che abbiamo creato? Si. A voi no? Pazienza. Ci siamo sentiti liberi. L’intenzione era quella di arrivare anche al pubblico, certo. Divertirsi prima di tutto…addirittura intrattenere! Altro che sperimentazione… è l’esatto opposto!

Marco: Ma non è detto che i due aspetti siano inconciliabili, anzi!

 

È di qualche giorno fa l’annuncio del tour estivo. Il prossimo 10 agosto suonerete allo Sziget, uscendo dal “villaggio italiano”. Quali sono le aspettative sulle date all’estero?

F: In realtà, fin dall’inizio, avevamo concepito gli I Hate My Village come progetto internazionale tanto che volevamo uscire con il disco prima all’estero che in Italia. Ci stavamo anche riuscendo… poi una serie di circostanze ci ha fatto un perdere tempo e abbiamo deciso diversamente. Senza dubbio, l’estero è un sentiero inevitabile da percorrere.

A: Anche per far conoscere la nostra musica al di là dei confini italiani. Le caratteristiche si prestano molto: i testi sono in inglese, sono fruibili a tutti. Non vediamo l’ora.

IMGL6604Intervista di Laura Faccenda

Foto di Luca Ortolani